Dott. Franco Sponziello
Psicologo

Articoli e pubblicazioni - Anno 2014

Altri anni:


Dice che...
Un capo indiano chiede allo stregone del villaggio: «quanto freddo farà il prossimo inverno?». Lo stregone guarda fuori dal tepee e dice che l'inverno sarà freddo. Il capo indiano manda dieci guerrieri a tagliar legna ma, per sicurezza, chiede nuovamente se farà solo freddo o freddo freddo. Lo stregone, dopo aver scrutato attentamente fuori, dice che farà freddo freddo. Altri venti guerrieri a procurare legna. Il tormentone continua fino a sei - sette volte freddo e a un centinaio di guerrieri a spaccare legna, finché il capo indiano chiede allo stregone come faccia a predire un tale gelo. Lo stregone, guardando ancora fuori, candidamente risponde: «Mah! Vedo tutta quella gente a far legna e allora…». Questa vecchia storiella è emblematica di come, spesso, siamo superficiali e ci affidiamo acriticamente al "si dice", dandone per scontata l'autenticità dei contenuti. Quante volte abbiamo sentito dire e detto noi stessi "dice che", riportando poi un fatto, una frase, una vicenda, che abbiamo, a nostra volta, appreso, ma di cui non siamo assolutamente certi? Capita, così, di far circolare congetture che diventeranno "verità", solo perché sono state dette da altri. Una sorta di passaparola che crea solide convinzioni a partire dal nulla, un tamtam che fa condividere certezze mai verificatesi e, spesso, campate in aria. Ho utilizzato questo preambolo non per discutere del 'pettegolezzo', bensì dell'insicurezza, dei motivi che sovente ci fanno essere consenzienti anche se vorremmo opporci. L'esclusione dal 'gruppo', il 'rimprovero' per la nostra eventuale opposizione, il senso di inadeguatezza ("non sono all'altezza di mettere in dubbio…"), sono sintomi di insicurezza che quando si presenta senza particolare ansia, temporaneamente o giusto perchè non interessa approfondire, può essere considerato nella norma. Quando, invece, l'impossibilità di 'opporsi' diventa consuetudine e ci si arrovella su come avremmo dovuto comportarci, allora siamo di fronte a insicurezza patologica. In questo caso, non è nemmeno necessario essere coinvolti, ma basta il solo pensiero, l'eventualità di essere interpellati o di dover agire in prima persona, prendere l'iniziativa, insomma, a farci sprofondare in uno stato di frustrazione che ci fa sentire inadeguati e costantemente inferiori. Una variante apparentemente diversa dell'insicurezza patologica, è il perfezionismo: tendiamo a compiere ogni nostra azione al meglio cercando di eliminare qualsiasi difetto, proprio per evitare la possibilità che si scoprano i nostri presunti difetti. Evitare l'imperfezione, però, non fa che confermare l'insicurezza, in un circolo vizioso senza fine. L'insicurezza è uno stato emotivo che abbiamo imparato sin da piccoli. I genitori agiscono sempre in buona fede. Ma nonostante tutte le buone intenzioni, a volte può accedere che si privilegi uno dei figli (se, per esempio, va bene a scuola o svolge bene alcune attività), rimproverando il fratello che, invece, sembra svogliato, non studia, e così via, con l'apparente intento positivo di spronarlo a fare meglio. Questi cliché sono introiettati dal bambino e possono diventare, appunto, causa di insicurezza. I tentativi di essere 'accettati', si rivelano spesso inadeguati e, non avendo gli strumenti per elaborare la situazione, ci si convince della propria inettitudine. È difficile condensare in poche righe tutto ciò che ci sarebbe da dire su questa, come su tutte le altre problematiche di natura psicologica, per cui il consiglio è di evitare atteggiamenti di disapprovazione continua nei riguardi di un figlio in particolare: il sentirsi inadeguato non farà altro che amplificare il problema. Così come l'insicurezza genera insicurezza, anche il 'coraggio' che conquistiamo faticosamente passo dopo passo, alimenta altro coraggio. Lavoriamo al consolidamento di quest'ultima risorsa, a iniziare da quest'anno.


La testa in fumo...
Dopo la pubblicazione dell'articolo di dicembre (seconda parte dedicata all'ipnosi clinica), mi sono pervenute molte domande riguardanti i vari campi di applicazione (solo per citarne alcuni: disturbi d'ansia, fobie, attacchi di panico, depressione reattiva, insonnia, asma psicosomatica, emicrania e cefalee soprattutto tensive, disturbi alimentari, fumo). Sono disturbi molto invalidanti non solo psicologicamente. In questo numero rispondo alle richieste che riguardano in particolare il tabagismo, problema davvero rilevante anche per i gravissimi danni che provoca a carico di tutti gli organi. 30.000 decessi l'anno solo per il tumore al polmone, senza contare gli altri tipi di neoplasie di cui è anche corresponsabile, le malattie respiratorie, e così via: uno sterminio che passa quasi inosservato e di cui, purtroppo, lo Stato si rende obiettivamente complice in quanto detentore del monopolio.
Psicologia del fumatore
Il tabagismo è una dipendenza (non un vizio), che nulla ha a che fare con l'intelligenza. Secondo la psicoanalisi alla base del comportamento di chi fuma, ci sarebbe una fissazione allo stato orale (le altre fasi della prima infanzia indicate da Freud sono: anale, genitale). In pratica, si simulerebbe inconsciamente la gestualità di quello stadio, proprio portandosi la sigaretta alla bocca, così come succedeva con gli oggetti durante i primi mesi di vita, per placare l'ansia. Il succhiare, in questo caso aspirare il fumo, è metafora di appagamento, dunque di superamento dei problemi attraverso il piacere momentaneo. La soddisfazione è immediata e ci si sente subito meglio. Col tempo si associa il piacere alla sigaretta e, intanto, ci si assuefa alla nicotina. La convinzione che la sigaretta possa calmare è errata, ma in qualche modo anche esatta: sbagliata perché in realtà la nicotina e i tantissimi altri elementi, sono degli eccitanti; giusta solo poiché la si associa ad alcuni momenti di per se tensivi e ad altri di normale relax, come il dopo caffè, il pranzo, la cena e così via. Si rafforza nel tempo la convinzione dell'efficacia della sigaretta, che diventa il mezzo più idoneo e immediato del rilassamento. L'organismo inizia a tollerare la nicotina e le altre sostanze, fino ad assuefarsi a essa e soffrirne per la mancanza. Cresce, così, l'ansia che viene sedata solo aspirando altro fumo, in un circolo vizioso particolarmente pernicioso: la dipendenza è doppia, psicologica e fisica.
Si può smettere di fumare?
Sì. La conditio sine qua non, è che si deve volerlo. Alcuni ci riescono da soli e da un momento all'altro, spesso con molta fatica poiché viene a mancare d'un tratto una consuetudine estremamente radicata e tenace. La volontà, però, spesso non basta perché l'ansia, o meglio, la paura dell'ansia, è molto forte e agisce da deterrente, rendendo trascurabili persino i gravi danni cui si va incontro. L'ipnosi è molto efficace, proprio perché agisce sul livello ansiogeno, abbassandolo considerevolmente. Lo confermano studi condotti anche in Italia, come quello svolto presso l'Ambulatorio di Ipnositerapia e Disassuefazione dal fumo dell'Ospedale Molinette di Torino. Esistono centri medici specializzati che utilizzano terapie farmacologiche. Alla base, però, ci deve essere sempre la volontà di smettere. Qualsiasi metodo si scelga, l'importante è iniziare subito!
La sigaretta elettronica
Personalmente applico con successo l'ipnosi per la disassuefazione dal tabagismo e, nei casi più ostinati, consiglio vivamente l'utilizzo della sigaretta elettronica insieme alle sedute d'ipnosi. Alcune premesse: una sigaretta di tabacco sviluppa oltre 4.000 sostanze tossiche molte delle quali cancerogene. La nicotina è un alcaloide come la caffeina e la teina. Provoca assuefazione, come s'è detto, ma non è assolutamente cancerogena. I liquidi (ovviamente mi riferisco a quelli certificati), contenuti nella sigaretta elettronica, sono formati da glicole propilenico (usato come diluente nelle soluzioni iniettabili), glicerina vegetale (diffusissima nei preparati cosmetici), acqua depurata o deionizzata e nicotina (opzionale). Non produce fumo, ma vapore (stesso principio dell'aerosol). Molti hanno smesso di fumare utilizzando solo la sigaretta elettronica. Personalmente non so se queste sostanze siano del tutto innocue, ma di una cosa sono sicuro: sono migliaia di volte meno nocive della sigaretta di tabacco! Oncologi molto famosi e stimati quali, tra gli altri, Umberto Veronesi e Umberto Tirelli, si sono schierati apertamente a favore della sigaretta elettronica, ben consapevoli dei danni provocati dal tabagismo. In particolare Veronesi rimarca il valore della gestualità che rimane pressoché invariata. L'obiettivo finale è ridurre gradualmente la percentuale di nicotina, fino alla disintossicazione completa e non traumatica. Nonostante anche la European Society of Cardiology si sia espressa a favore, è notizia di queste ultime settimane che il governo ha emanato un decreto che aumenta del 58,5% il costo delle sigarette elettroniche, equiparandole, di fatto, a quelle con tabacco. Credo ci sia poco da commentare, visto che per curare le tantissime patologie causate dal fumo di tabacco, lo Stato spende ben più di ciò che guadagna dalla vendita delle sigarette. Lasciatemi esternare un parere del tutto personale: oltre le lobby del tabacco, chi ci guadagna forse anche più, sono quelle del farmaco. Ovvio che una regolamentazione è necessaria, ma deve essere in armonia con un progetto ragionato della salute, non solo volto a racimolare ciò che si perde per il calo nell'acquisto delle sigarette. In conclusione, smettere di fumare si deve e si può. Meglio non aspettare e rivolgersi subito al proprio medico di famiglia che sicuramente saprà consigliare la maniera giusta per farlo. Da parte mia consiglio caldamente ipnosi e autoipnosi abbinate, nel caso, alla sigaretta elettronica. Parola di ex fumatore.


Incontro con l'autore, il neurologo Luciano Peccarisi
Chiudiamo gli occhi e 'guardiamo dentro di noi'. Cosa 'vediamo'? Dov'è il nostro Io? Dove il fegato, la milza lo stomaco? Li vediamo? E il cervello, ma soprattutto il nostro Io, dove sono? E poi, la domanda delle cento pistole: le 'emozioni' risiedono nel cuore o nel cervello? Ovviamente conosciamo la localizzazione anatomica dei nostri organi, ma quando si parla di 'pensiero' e del nostro Io, probabilmente ci ritroviamo a viverli come distaccati dal resto del nostro organismo: una sorta di 'presenza' che guida, sovrana, le nostre azioni. Il discorso è davvero complesso per la maggior parte di noi e la bibliografia che tratta l'argomento, è spesso ostica e di difficile comprensione. Il dott. Luciano Peccarisi, medico chirurgo e neurologo di Ostuni, ha inteso rendere finalmente accessibile il tema, nel suo secondo libro: Dialogo tra il cervello e il suo Io, Aracne Editore (il primo è intitolato Il miraggio di "conosci te stesso", Armando Editore).
Ho chiesto al dott. Luciano Peccarisi di illustrare qui, i contenuti del suo libro.
Un libro sul cervello, che si rivolge ad altri cervelli
"Benché medico e neurologo" dice il dott. Peccarisi, "ho trovato la scrittura di molti degli innumerevoli testi di neuroscienze, di psicologia e filosofia che spiegano come funziona la mente, troppo 'difficili'. La pretesa di questo libro è, invece, quella di essere più chiaro e quindi accessibile a tutti. Agile ed elementare, per quanto l'argomento sia ostico, ma scientificamente puntuale su certe bizzarre malattie del cervello e della mente. L'Uomo è, tra tutti gli esseri viventi, l'unico in grado di parlare; parla perfino con se stesso. Il cervello ha creato dentro di sé un io. E' probabile che una parte di neuroni intessa il discorso con un'altra sua parte. Oppure no, si potrebbe immaginare un qualcosa che non ha nulla a che fare con la materia. Almeno con la materia che la fisica di oggi ci propone."
Da qui l'intuizione di far svolgere un 'dialogo' tra il cervello e l'Io?
"Infatti. Ho immaginato un ipotetico dialogo tra un cervello, Cervi, e il suo io, Iuccio. Il viaggio si snoda attraverso i rapporti tra queste due presunte entità della persona, sulla realtà dell'anima, della mente e su certe particolari condizioni del cervello. Cervi interpreta il ruolo dello scienziato e Iuccio quello del filosofo: non è uno scontro ma, appunto, un dialogo. Il nostro pianeta ha subito due scossoni, uno quando da spoglio si è popolato di vita, l'altro quando il primo essere ha riflettuto su se stesso, allargando i suoi orizzonti. Ciò nell'ambito dell'universo è irrilevante, ma nell'unico organismo che riesce a pensarlo, suscita un senso di grandezza e di angoscia insieme. Certo anche altri esseri pensano, perché questa attività fa spesso parte dell'organismo medesimo, tuttavia gli altri è presumibile non si pongano i problemi esistenziali dell'uomo. Perché ciò sia accaduto è motivo di discussione, ma essa stessa è possibile perché parlando si trasmettono emozioni e idee, e cioè il pensiero stesso che pertanto si modifica, si evolve e si raffina. Si parla di anima, di uomo culturale e come abbia cominciato a creare il senso della propria individualità con il termine Io, del sogno e della provenienza da parti del cervello assai antiche che si combinano con esperienze recenti e di come le rievocazioni così strane e bizzarre possano derivare dalle memorizzazione dei concetti contenuti nelle parole"
Anima, identità, sogno, memoria
Noi psicologi sappiamo bene che conosciamo solo la punta dell'iceberg di ciò che realmente siamo. È uno degli argomenti che tratti nel tuo libro.
"Anche un agnellino, per non parlare di un gatto o di un cane, ha certe caratteristiche individuali che ci fanno pensare ad una sua interiorità, che qualcuno potrebbe definire come anima, ma che potrebbe benissimo essere solo il prodotto e la combinazione della struttura genetica, cerebrale e delle esperienze dell'animale. Noi abbiamo una coscienza. Agli animali, alla scimmia, al cane, al gatto gli si può chiedere se hanno una coscienza, ma in genere non rispondono. Noi rispondiamo di sì. L'identità serve per darsi un senso. Gli animali non si attribuiscono i nomi, non hanno storie, la loro memoria è molto personale, e il senso della loro vita è molto limitato al concreto all'attuale, all'immediato. Tratto anche temi correlati. Gli etologi, per esempio, hanno dimostrato che negli animali giacciono sepolti nei meandri dei loro cervelli, antichissimi istinti che scattano solo in particolari condizioni, altrimenti possono non manifestarsi per tutta la vita. Questi grilletti esistono anche negli uomini e possono scattare nel sogno e farci rivivere momenti che nella vita reale non si presentano mai. La grandezza e la ricchezza della memoria umana stanno nella capacità di richiamare, e perciò confrontare tra loro, eventi diversi accaduti in luoghi diversi e tempi diversi. Perfino su diversi piani di realtà: eventi reali, raccontati, letti, visti sui media, immaginati, progettati e sognati. S'ingrandisce così il mondo della nostra vita interiore che diventa perciò fonte inesauribile, volendo, di creatività."
Tempo, musica, linguaggio, metafora, computer
La nozione di 'tempo', ha sempre affascinato gli esseri umani. Come viene trattato questo tema, oltre che gli altri: musica, linguaggio, metafore e di computer?
"Il tempo della fisica sta sotto a tutti, ma poi c'è della vita e quello della mente. I ritmi circadiani e altri biologici segnano il tempo della vita, il tempo della mente è quello della nostra personale percezione del tempo, molto soggettiva e molto diversa da quella del tempo fisico. Anche se è dubbio se prima degli esseri umani qualcuno avesse qualche idea del tempo. L'orologio è una nostra invenzione, non parte da nessun senso fisico, non è un'amplificazione di un senso come può essere il microscopio o il cannocchiale per la vista; il microfono della voce e l'amplificatore dell'udito. Il tempo è un costrutto sociale, culturale, l'unica maniera per rappresentarlo è nello spazio, come una retta. La musica è una nuova emozione, una vera e propria ghiottoneria uditiva. Il punto di vista prospettato è che sia legata al linguaggio e alla nascita non solo di nuovi concetti ma anche di nuove emozioni. Per quanto attiene al linguaggio, se c'è una facoltà veramente esclusiva dell'uomo questa è l'uso delle parole. Altri animali emettono segnali, per esempio di avviso di pericolo, ma nessuno fa un discorso. Le parole sono un miracolo dell'evoluzione ma niente al di fuori della natura. Miracolo è pure l'ecolocalizzazione dei pipistrelli, l'acuità visiva dell'aquila o l'agilità del ghepardo. Ma nel caso della parola e del linguaggio la trasformazione della specie umana è stata straordinaria ed ha rivoluzionato tutto il pianeta, che da allora in poi non sarà più lo stesso. L'eccezionale funzione della metafora è di produrre nuovi termini e concetti, man mano che la cultura umana diventa più complessa. Le metafore creano l'astratto partendo dal concreto. Si partì dalla cosa più a portata di mano, ecco giusto per usare una metafora: il corpo. "La testa" ad esempio diventa metafora della testa di un esercito, del chiodo, di uno spillo, della pagina, del letto. Il "capo" è metafora del capo famiglia, capo gabinetto, capo del filo, dell'azienda. Infine il computer. Il paragone tra l'hardware e il software è interessante, e da li che è nata una corrente di pensiero chiamata funzionalismo, che afferma che è la funzione che è importante, la funzione di sentire, ascoltare ad esempio è svolta da noi, dal leone, da un delfino e anche dai registratori meccanici; ma ognuno usa tecniche diverse per farlo." Dialogo tra il cervello e il suo Io, sarà presentato il 16 aprile alle ore 18,30 presso la biblioteca comunale di Ostuni. Grazie Luciano e complimenti per il bellissimo libro che sarò lieto di presentare con te, il 16 aprile prossimo.


Amore vuol dir gelosia?
Se amore vuol dir gelosia, cantava Ilda Tulli (poi diventata Nilla Pizzi), nel lontano 1946, in riferimento alla gelosia nei rapporti affettivi, da non confondersi con l'invidia tipica delle relazioni lavorative, sociali e così via. Dall'epoca, poco è cambiato nell'immaginario collettivo: la gelosia deve far parte del rapporto amoroso. Innanzitutto cerchiamo di dare una definizione della gelosia. Direi, schematicamente, che è la reazione al pensiero-eventualità, di perdere la considerazione-stima da parte delle persone che più contano per noi. Ovvio che ci debba essere qualcun altro preferito al posto nostro e che, dunque, noi retrocediamo nella classifica affettiva. Fin qui tutto normale: essere gelosi, a patto che la minaccia sia reale, è per così dire fisiologico. Freud definiva questo tipo di gelosia competitiva. Altro discorso implica la gelosia che non ha nessun riscontro oggettivo. Questa perniciosa modalità, ahimè molto più frequente di quello che si pensi, in psicopatologia viene definita gelosia delirante. È comune a molte psicosi e classica degli alcolisti. Una classe intermedia è rappresentata da quella che Freud definì gelosia proiettiva che "deriva, sia nell'uomo che nella donna, dall'infedeltà che essi stessi hanno attuato nella vita o da spinte verso l'infedeltà che sono state rimosse." In altri termini, le pulsioni inconsce a tradire, vengono 'mascherate' con le accuse rivolte al partner. Si proietta, appunto sull'altro, la propria insicurezza di restare fedeli, addossandogliene la responsabilità. Non c'è bisogno di aver realmente tradito né, magari, si tradirà mai. Basta l'inconscio timore di poterlo fare.
Le cause della gelosia
Ognuno di noi nasce con l'esigenza di avere un rapporto unico e privilegiato con i propri genitori, in primis con la madre. Tutto va bene se il passaggio da questo stadio esclusivistico al prossimo, che potremmo definire socializzante, avviene senza particolari problemi. Il discorso cambia quando alcune concause interferiscono con l'equilibrato sviluppo e sono davvero tante e diverse tra loro. Per esempio, Una madre troppo possessiva non faciliterà il 'distacco' graduale e naturale, lasciando comunque impressa una sorta di impronta invasiva della propria presenza. Il bambino crescerà così nel timore di tradire la fiducia e l'amore riposti in lui. Crescendo, prima o poi si innamorerà e dovrà fare i conti con le sue paure, solo temporaneamente rimosse, di tradire l'affetto della madre. Qui avviene la trasposizione: non potendo ammettere il proprio 'tradimento', vedrà nel partner gli atteggiamenti tipici di chi tradisce o potrebbe farlo. Un'altra situazione di genesi della gelosia 'fuori misura', è data dalla nascita di un fratello o di una sorella, indipendentemente dal grado di possessività dei genitori. Fino a quel momento il bambino era stato al centro delle attenzioni. Di colpo, un 'intruso' gli ruba la scena e il ruolo di preferito. Tutte le attenzioni, i complimenti, i vezzeggiativi che solo fino a pochissimo tempo addietro erano riservati esclusivamente a lui, ora sono destinati a un altro. In sé, questo non comporta grandi disagi se i genitori riescono a 'calibrare' bene l'attenzione e la cura tra tutti i figli. In effetti, non è automatico che la nascita di un altro figlio, comporti per forza un danno al primogenito, anzi spesso serve a riconsiderare, ridimensionandolo opportunamente, il senso di onnipotenza proprio di chi non ha rivali. Il bambino dovrebbe essere coinvolto nelle fasi di 'accoglienza' del nuovo arrivato così da non percepirlo come un'entità nemica: un cliché negativo per il futuro. Trattare il primogenito con la stessa considerazione di sempre e spiegare bene i motivi per cui è nato l'altro fratellino, serve a coinvolgerlo e creare una complicità positiva con i genitori. Il bambino avrà così maggiori probabilità di vivere tranquilli rapporti di relazione anche da adulto.


Sere fa (siamo a fine aprile), Ferdinando Sallustio mi propone di scrivere qualcosa sulle prossime elezioni amministrative. Gli ricordo che in questo spazio scrivo argomenti che riguardano la psiche e i disturbi psicologici. Lui sorride sardonico, io intuisco l'ironia e accetto. In realtà le elezioni, anche quelle amministrative, dovrebbero essere prese molto più sul serio di quanto negli ultimi anni siamo stati abituati a fare. Si tratta di un diritto-dovere che molti di noi, però, vivono sempre più solo come dovere. Ci aspettiamo che le cose cambino in maniera netta: niente più favoritismi e nepotismi; una giustizia allo stesso tempo imparziale e incisa; stop alle 'ruberie' da parte dei politici; benessere economico e vivibilità decente (meno criminalità, soprusi, ecc.). Insomma, se da una parte questi elementari principi del vivere in comunità sembrano scontati, d'altro canto ogni giorno sono calpestati. Ci prende un senso d'inadeguatezza e di sopraffazione, affossando qualsiasi speranza di cambiamento, per cui meglio disinteressarsi e astenersi dal votare. Oppure, votare uno qualsiasi, magari perché è un conoscente o un parente più o meno prossimo o è simpatico o perché lo fa qualcuno della mia famiglia o… Quello dell'astensione, è un atteggiamento mentale che mi ricorda cosa ci poteva capitare quando eravamo piccoli: sarà successo a molti di non essere scelti, se non addirittura rifiutati, per un certo gioco di gruppo. Le aspettative erano di partecipare come tutti gli altri e si poteva vivere quell'esclusione come completa disfatta, una riprova della nostra inadeguatezza. Alcuni reagivano e facevano di tutto per essere reintegrati, molti altri si convincevano di non essere all'altezza e rimuginavano sull'ingiustizia subita: meglio disinteressarsi, tanto… Appartenere a un altro mondo, rispetto a chi ci governerà o affidarsi a un leader che fa e provvede, è una forma di delega comune a molti. È un po' come se ammettessimo di non essere in grado di gestirci e demandassimo ad altri questo compito.
Lo voto perché mi è simpatico…
In Italia, in particolare, vige una strana abitudine che è talmente radicata da apparire scontata: affidarsi a una persona solo perché simpatica o apparentemente sicura di sé o, ancora, simbolo di potenza. Spesso, infatti, votiamo per simpatia più che per ponderata valutazione delle reali capacità del candidato e, soprattutto, della fattibilità delle proposte. Chi si candida lo sa bene e, anche in buona fede, sorride e si rende disponibile al di là del verosimile. Non è quello che più o meno consciamente, ci aspettavamo dai nostri genitori o da chi rappresentava l'autorità? Benevolenza e attenzione ci facevano (e ci fanno tuttora) sentire meno anonimi, più unici e valorizzati, salvo poi rimanere delusi per la nostra fiducia mal riposta. Superfluo sottolineare che non mi riferisco a nessuno degli attuali candidati che personalmente stimo, benché anch'io abbia le mie ben precise preferenze. Il consiglio è di fare un piccolo sforzo per votare consapevolmente, da persone mature che, almeno in queste occasioni, non si fermano all'apparenza. Trascuriamo, per quanto possibile, l'aspetto esteriore, le simpatie parentali, il piacere a 'pelle'. Se non siamo sicuri, perché non conosciamo le capacità e la professionalità (in una parola la storia) di chi votiamo, cerchiamo di leggere attentamente le proposte e valutarne la fattibilità. Insomma, teniamo bene a mente che chi ci rappresenterà deve possedere le qualità adatte e il giusto senso della democrazia, tale da non farci sentire ancora una volta esclusi dal… gioco.


È difficile stabilire quali debbano essere le qualità di un buon sindaco. Ancor più complesso è capire o spiegare, perché si è scelto un candidato anziché l'altro. Tralasciando amici e parenti, alcuni di noi votano per una sorta di empatia esteriore, dunque irrazionalmente, in un certo senso affascinati dal modo di fare del candidato più che dai contenuti proposti. Altri confidano di trarre un certo tornaconto che, nella maggior parte dei casi, è di natura economica e che riguarda sia minimi traguardi, che mire ben più alte e, a volte, ambigue. Per altri ancora, il futuro sindaco sarà uguale a tutti gli altri, cioè continuerà a fare i propri interessi infischiandosene dei problemi dei concittadini. Quest'ultima visione delle cose, è molto diffusa e rispecchia non tanto un dato di fatto, quanto una dichiarazione di resa spesso accompagnata da 'brontolii' che non riguardano solo le elezioni, ma un po' tutta la vita (anche) sociale. Vorrei soffermarmi su quest'ultimo aspetto, ben consapevole dell'eccessiva semplificazione cui inevitabilmente incorrerò definendolo atteggiamento rinunciatario. La convinzione che niente possa cambiare, anzi, le cose peggioreranno, trova nelle elezioni un terreno fertile per convalidare il proprio pessimismo. Anche particolari di relativa importanza (una buca nell'asfalto, una multa per divieto di sosta), sono la riprova che le cose non vanno e non andranno mai bene. Per un verso, quest'atteggiamento ha delle note persecutorie e, sicuramente, è presente a prescindere dagli appuntamenti elettorali; d'altro canto, fa pensare a una sorta di stato depressivo nel quale predomina la convinzione che il futuro sarà comunque nero e niente potrà mai modificare la decadenza in cui si vive. Non è patologia nel senso clinico del termine, ma è sicuramente una modalità, comune a molte persone, che determina una visione della realtà estremamente pessimistica, di conseguenza, ne risente la qualità della vita. Mi rendo conto della 'rigidità' di questa analisi, peraltro semplicemente speculativa e utile solo a tracciare per grandi linee lo stato d'animo di quella parte cospicua di ostunesi che si sentono esclusi dalla gestione della cosa pubblica.
L'esempio
L'esclusione, presunta o reale, è anche (se non soprattutto), da attribuirsi a chi governa la città. Magari inconsapevolmente, di sicuro in buona fede, insomma, facendo tara di qualsiasi atteggiamento doloso, rimane il fatto che chi è eletto, dovrebbe in primis dare l'esempio. In realtà, il sindaco assume l'identità del capofamiglia o, a volerla buttare in antropologia, del capo tribù, dunque di colui che rappresenta anche l'anima dei concittadini. L'esempio non si dà solo con il corretto comportamento amministrativo (che già ha la sua grande importanza), né andando a 'spalare neve' per esibire la propria umiltà, ma con la coerenza quotidiana: se un genitore fuma, è difficile che risulti autorevole, dunque coerente, quando dice al figlio di non farlo. È solo un'imposizione e al bambino, crescendo, rimarrà la convinzione che alcune cose si possono richiedere, aggirando le regole che non sono uguali per tutti… Mentre scrivo questo articolo, non si sa chi sarà il nuovo sindaco tra i due 'finalisti' del ballottaggio. Premetto che, conoscendo entrambi sin dall'infanzia, li stimo al di là dell'appartenenza politica. Senza nulla togliere ai sindaci degli ultimi cinquant'anni (giusto per definire un termine temporale), esorterei il prossimo primo cittadino a lavorare costantemente sull'esempio da dare alle tante persone sfiduciate, con la coerenza, la presenza costante nel territorio, la vicinanza ai reali problemi della gente, l'equanimità, il rigetto delle tentazioni nepotiste. Insomma, padre e non padrone!


Luglio col bene che mi voglio…
Quand'ero bambino, associavo la preparazione della parmigiana di melanzane al mare. Era di solito il sabato in quanto, il giorno successivo, era il pasto d'obbligo da consumare sotto l'ombrellone o in cabina. A distanza di tanti decenni, quest'associazione ancora permane insieme al profumo, ormai solo nella memoria olfattiva, dell'ambra solare che mia madre si spalmava, chissà perché, subito prima di partire per una giornata sulla spiaggia. Benché non certo magrissima, non la ricordo, però, alle prese con bilance, palestre e diete particolari, nelle settimane precedenti la bella stagione. Ora, parmigiane e manicaretti vari sono praticamente spariti, soppiantati da diete più o meno ferree sottoposte all'infausto, continuo giudizio delle bilance, controllori austeri e inflessibili dei nostri peccati di gola... Si deve essere magri a tutti i costi e in poco tempo, perché è così che deve essere! Già, ma chi decide come dobbiamo essere? O meglio, perché dovremmo piacere solo in estate? Se è vero (come è vero!), che un'alimentazione sana ed equilibrata è da preferire sempre e a prescindere, per quale motivo farlo solo in prossimità delle vacanze estive? Paradossalmente, il movimento che facciamo al mare e l'attenuazione dello stress della routine quotidiana, dovrebbero aiutare a smaltire le calorie in eccesso. In altri termini, non è lo stesso meccanismo del 'dopo festa', quando si sta un paio di giorni a 'stecchetto', dopo le abbuffate post-natalizie e pasquali: lì i sensi di colpa giungono dopo… Insomma, molti di noi non sembrano rendersi conto dell'effetto 'Farfisa' (nota marca di fisarmoniche…), cui sottopongono il proprio fisico e la propria mente, nell'arco dell'intero anno. Personalmente non credo che questo comportamento costituisca, entro certi limiti, un vero e proprio disturbo psicologico. L'importante è chiedersi, e possibilmente capire, perché siamo 'costretti' a sembrare attraenti a tutti i costi. È qui la chiave: se riuscissimo a comprendere anche solo in parte quei meccanismi che ci obbligano, probabilmente risolveremmo i conflitti che sono alla base del problema stesso. Credo che un ruolo fondamentale sia giocato dai modelli proposti da Tv e riviste: corpi scolpiti e bellezze paradisiache ci impongono un continuo, estenuante confronto il cui risultato è sempre a nostro sfavore! Per contro, sono proliferate le trasmissioni che riguardano la cucina, il cui messaggio apparente è anche quello di mangiar sano, ma la continua esposizione a quegli stimoli, sollecita inevitabilmente il nostro appetito… E poi c'è l'happy hour, 'l'ora felice', appuntamento che inizia a dover essere scimmiottato anche qui dove la dieta mediterranea dovrebbe farla da padrona. Insomma, il nostro star bene sembra dovuto a ciò cui dobbiamo somigliare, più che a come che realmente siamo. E se riuscissimo a prolungare il momento magico dell'estate? Non intendo dire che si debba mantenere la tintarella magari facendosi le 'lampade', ma proprio l'atteggiamento mentale: proviamo a mantenere la linea, magari recandoci in piscina. Oppure iniziamo con un minimo di sport, o a camminare. Insomma, perché non volerci bene tutto l'anno? Ovviamente se lo stile 'Farfisa' non è solo un'abitudine, per quanto deprecabile, ma un vero è proprio problema, il consiglio è di rivolgersi a uno specialista.


Chi ha non paura del lupo cattivo?
A partire da questo numero, saranno trattati alcuni tipi di paure che, a volte, possono degenerare in vere e proprie fobie. Una 'normale' paura è utile in quanto rappresenta una reazione naturale a uno stimolo esterno potenzialmente dannoso. È un meccanismo che ci aiuta a difenderci, dunque è del tutto normale, anzi necessario. Senza la paura di cadere, per esempio, ci avvicineremmo troppo al ciglio di un burrone fino a rischiare davvero di precipitare. La fobia è, invece, una risposta inconsulta ed 'esagerata', che si manifesta spesso anche senza alcuno stimolo esterno. Sempre per rimanere all'esempio del burrone, la fobia potrebbe spingere addirittura a controllare i propri passi per non cadere, pur consapevoli di essere a chilometri di distanza dalla più vicina altura.
Non ci vedo chiaro…
Tutti noi ci siamo trovati almeno una volta in assenza di energia elettrica. Per un black-out o per altri motivi, abbiamo potuto sperimentare quanto sia importante il senso della vista, della cui indispensabilità ci si accorge, appunto, proprio quando non se ne ha la momentanea disponibilità: procediamo a tentoni, delegando al tatto, all'udito e anche all'olfatto, il compito di provvedere alla precaria situazione. Eppure con il buio condividiamo circa tre quarti della nostra vita, a meno di non averne tanta paura da dormire con una luce di cortesia o, addirittura, con il lampadario acceso. La paura del buio è comune a tutti e non è la mancanza di luce in sé a provocare il disagio, ma la limitata e distorta percezione degli stimoli esterni. È la paura dell'ignoto, della minaccia nascosta, che sin dalla sua comparsa sulla Terra, ha seguito l'uomo nella sua evoluzione, accompagnandolo di notte per mantenere alta la vigilanza verso le possibili aggressioni e i costanti pericoli. Nei bambini la paura del buio è normale e insorge intorno ai due anni e, come la paura del fuoco piuttosto che dell'acqua o di essere aggrediti, di ciò che è ignoto, comunemente scompare nell'età che va dai quattordici ai diciotto anni, dunque in concomitanza con la completa maturazione psico-fisica.
L'acluofobia
Quando, però, questa paura comune a uomini e animali (gli etologi la definiscono primaria), limita le normali attività quotidiane, ossessionando e terrorizzando l'individuo, allora siamo in presenza di una vera e propria fobia che, nel caso del buio, si chiama acluofobia (dal greco aclus oscurità e phobos fobia, appunto). I sintomi variano secondo la gravità e sono comuni ad altri tipi di fobie: sudorazione, tachicardia, difficoltà a respirare, stato di grande disagio generalizzato. Le cause dell'acluofobia, si fanno risalire alla prima infanzia. Il buio, di solito, inizia a far paura da piccoli quando è associato al distacco o all'assenza delle figure affettive: il bambino viene messo nel suo lettino, separato senza un motivo plausibile per lui. Ha la percezione di rimanere solo ed è impaurito, ma nel tempo si abitua all'idea che quell'abbandono è solo temporaneo e, con l'età tutto si risolverà. A volte, però, particolari condizioni ambientali, affettive, educazionali, amplificano il disagio e consentendo alla situazione di 'allarme' di protrarsi patologicamente aumentando nel tempo di intensità e frequenza. Purtroppo si è soliti trascurare questo tipo di disturbi, considerati 'fisime che passeranno …' quando, invece, potrebbero essere affrontati e risolti. Ovviamente esistono molte scuole di pensiero sulla genesi delle fobie e, sicuramente, vi possono essere cause e concomitanze diverse da quelle fin qui esposte che richiederebbero una più ampia trattazione.


Sto bene, ma sono grave...
Ognuno di noi ha avuto a che fare con la 'malattia': propria o di un parente, lieve o più o meno grave che fosse, abbiamo sperimentato l'eventualità di non stare bene. Ci siamo imbattuti in qualcosa di concreto, di realmente tangibile. I sintomi si sono attenuati dopo aver seguito la terapia che il medico ci ha prescritto e, quando tutto si è risolto, siamo tornati alle normali attività di tutti i giorni, dimenticando l'evento col tempo. Per alcuni, però, la malattia (meglio ancora, il timore di essere ammalati), può diventare un problema molto importante.
Ipocondria e patofobia
Quando la paura di essere affetti da una grave patologia, diventa una 'certezza', nonostante le rassicurazioni del medico (spesso più di uno), le ripetute analisi e indagini cliniche negative, allora siamo di fronte a una vera e propria fobia ossessiva: l'ipocondria. Chi ne è affetto, non può fare a meno di sentirsi malato e ne è davvero convinto, confondendo banali e comuni sintomi, con quelli di un oscuro e fatale male. La vita lavorativa, affettiva e sociale, vengono coinvolte nel 'delirio' che impone continue domande e argomentazioni frequentissime, sul proprio stato di salute. La vita, così, è totalmente pervasa e avvelenata dal dubbio assillante e dalla concomitante sicurezza di essere gravemente ammalati. I medici di famiglia conoscono bene questo tipo di pazienti: petulanti e insistenti, ripetono allo sfinimento (anche del medico…), le lamentele sulla propria condizione. L'attenzione è quasi esclusivamente assorbita dall'osservazione e dalla preoccupazione per il proprio corpo, così che anche un semplice raffreddore, piuttosto che una banale abrasione, diventano l'ennesima prova del precario stato di salute. Come si diceva, le rassicurazioni degli stessi medici, dei familiari e degli amici, non servono a nulla. Anzi, addirittura possono rappresentare una conferma della gravità: "cercano di rassicurarmi proprio perché sanno cosa ho". L'ipocondria è certamente un disturbo che tende a cronicizzare, ma non è impossibile da curare, a patto di rivolgersi per tempo a un esperto. Un equilibrato timore nei riguardi delle malattie è senza dubbio normale se non auspicabile. I controlli periodici (per esempio il semplice esame del sangue), costituiscono spesso un'efficace prevenzione. Per alcuni, però, anche il solo pensiero di sottoporsi a un colloquio medico, procura estrema paura. Si tratta di patofobia, una condizione meno grave dell'ipocondria, ma altrettanto debilitante. Anche in questo caso, il soggetto vive le medesime paure dell'ipocondriaco, ma a differenza di quest'ultimo, tende a non parlare del problema, evita meticolosamente qualsiasi contatto con i sanitari, proprio per il terrore di vedere concretizzati i propri dubbi/certezze. L'insorgenza può avvenire in qualsiasi età, benché sia più frequente negli adulti e tocca il 5% della popolazione. I disturbi devono durare almeno sei mesi, prima di emettere una diagnosi certa. Patofobia e ipocondria sembrano aumentare, paradossalmente, proprio nell'era di maggior diffusione dell'informazione scientifica e delle relative scoperte in campo medico. Al di là delle cause (probabilmente riconducibili a una distorta e amplificata attenzione verso il proprio corpo, unite a uno stato fondamentalmente depresso), proprio la possibilità di reperire facilmente tante (troppe e molto spesso errate, aggiungo io), nozioni sulle varie malattie, aggrava un quadro che di per sé potrebbe essere meno complesso. Non intendo con questo demonizzare Internet e altre fonti di facile consultazione, ma presterei molta più attenzione a prendere per buone e, soprattutto a far proprie, le innumerevoli notizie reperite qua e là. Il consiglio è di non indugiare e di rivolgersi subito a uno specialista.


Paura… strisciante
Nello scorso numero si è parlato di ipocondria e patofobia, paure ossessive di essere affetti da una o più malattie. Sono molto frequenti e hanno in comune con le altre fobie il terrore immotivato verso 'qualcosa' o 'qualcuno', cioè in assenza di una causa diretta e di un motivo reale. Molte fobie appartengono, per così dire, al nostro dna: sono paure ancestrali con le quali l'uomo ha convissuto dalla sua comparsa sulla Terra. La pirofobia (paura del fuoco) e l'astrafobia (paura degli agenti atmosferici e, in particolare, dei tuoni e dei fulmini), sono due validi esempi per comprendere quanto il nostro vissuto atavico, conviva con il presente. Altre, invece, appartengono alla nostra storia più recente e alle paure a essa legate come, per esempio, l'electrofobia, la radiofobia, la pharmacofobia, l'obesobofobia (nell'ordine, paura dell'elettricità, delle radiazioni, dei farmaci, di ingrassare). Tra le tante fobie 'ancestrali', ve n'è una in particolare:
l'erpetofobia
il terrore nei riguardi di qualsiasi rettile (la paura immotivata solo dei serpenti è, invece, l'ofidiofobia). È sicuramente una delle fobie più comuni e, come s'è detto, nella sua forma meno grave e 'fisiologica', fa parte della storia stessa dell'uomo. Non è un caso che il serpente sia diventato il simbolo del male, della tentazione. Un po' in tutto il Sud Italia, esiste una particolare paura, spesso molto accentuata, nei riguardi di un rettile in particolare:
il geco
Non esiste nella letteratura scientifica il termine 'gecofobia'. Mi permetterò di coniarlo solo per l'occasione, proprio per la peculiarità del fenomeno. Chiaro è che in genere non si tratta di una fobia 'invalidante', nel senso che raramente costringe, per esempio, a non uscire da casa o a non svolgere le normali attività quotidiane, per cui il termine fobia va letto come 'paura consistente' o, meglio ancora, come 'ribrezzo repulsivo'. L'ipotesi psicanalitica secondo la quale, appunto, la paura dei rettili è connaturata all'esperienza umana, potrebbe trovare un'eccezione nella 'gecofobia' che sembrerebbe più legata a una sorta di 'contaminazione' generazionale: i bambini guardano i genitori 'inorridire' alla presenza di un geco, con relative imprecazioni e atteggiamenti conseguenti. Sì, perché in altre culture e anche in altre regioni italiane (in Abruzzo, per esempio), i gechi sono simbolo di fortuna o, comunque, considerati innocui. Tra le cause, le leggende sulla 'pericolosità' del geco giocano un ruolo importante: causerebbero l'aborto se camminano sulla pancia di una donna incinta o la caduta immediata di una parte del corpo se da essi toccata. Ancora, spaventa la possibilità dei gechi di camminare sui muri senza cadere, quasi si attribuendo a questa 'eccezione alla forza di gravità' (una vera e propria sfida!) e all'apparente indifferenza alla presenza degli umani, un potere magico-malefico. Se la paura dei gechi, o di qualsiasi altro rettile, è gestibile e non sconvolge più di tanto la nostra vita 'normale', provvediamo comunque a non trasmetterla ai nostri figli, cercando di fare insieme ricerche sui rettili (in Rete è possibile trovare siti in cui gli erpetologi aiutano a conoscere questi innocui animali). Nel caso in cui la fobia fosse ingestibile, allora vale la solita raccomandazione: rivolgersi a un esperto.


Nel numero di marzo di quest’anno, avevamo già parlato del libro del dott. Luciano Peccarisi Dialogo tra il cervello e il suo Io, che ebbi l’onore di presentare con l’autore presso la Biblioteca Comunale di Ostuni il 16 aprile. Forse qualcuno ricorderà che era un giorno insolitamente freddo per la stagione. Nonostante la pioggia e la gelida tramontana, la grande sala della Biblioteca era completamente piena. Ho riportato questo dato non certo per un narcisistico omaggio autoreferenziale, quanto per una sorta di autocritica che ogni tanto ci sta proprio bene e sulla quale tornerò più avanti. Il dott. Peccarisi, medico e neurologo di Ostuni, scrive saggi e articoli da diversi anni per riviste e pubblicazioni di notevole autorevolezza scientifica. Solo per fare qualche esempio: PsicoLAB - Laboratorio di ricerca e sviluppo in Psicologia; Sistemi intelligenti - Rivista quadrimestrale di scienze cognitive e di intelligenza artificiale; Chora - Laboratorio di attualità, scrittura e cultura filosofica; L’unità del pensiero - Rivista di Filosofia. Cura, per il sito Riflessioni.it, la rubrica “Della mente”. Gli articoli sono emblematici della vastità e varietà di interessi e competenze che il dott. Peccarisi coltiva e spaziano nell’affascinante area tra scienza e filosofia. Nel 2008 scrive il libro Il miraggio di “conosci te stesso” - coscienza, linguaggio e libero arbitrio (Armando Editore), dove immagina un improbabile congresso in cui partecipano autori di epoche diverse. Poi l’attuale Dialogo tra il Cervello e il suo Io che l’autore così descrive: “Ho immaginato un ipotetico dialogo tra un cervello, Cervi, e il suo io, Iuccio. Il viaggio si snoda attraverso i rapporti tra queste due presunte entità della persona, sulla realtà dell’anima, della mente e su certe particolari condizioni del cervello. Cervi interpreta il ruolo dello scienziato e Iuccio quello del filosofo: non è uno scontro ma, appunto, un dialogo”. Perché dicevo prima dell’autocritica? Ebbene, nonostante personalmente conoscessi il valore del contenuto del libro e del suo autore, mi stupii di come l’aula della Biblioteca fosse colma. Insomma, il nemo profeta in patria aveva colpito anche me! Spesso siamo così abituati a ‘osannare’ i meriti di personaggi sparsi qua e là per il mondo, che tendiamo quasi a sottovalutare chi, invece, rimane qui a condividere la propria quotidianità con noi ‘comuni mortali’. La mia autocritica sta proprio nel non aver saputo valutare che non per tutti è così. In quell’occasione, infatti, chi partecipò volle farlo proprio perché l’argomento era davvero stimolante e l’autore degno di essere ascoltato, nonostante il tempo inclemente. Qualche giorno addietro, il dott. Luciano Peccarisi si vede notificare la notizia: “Desidero informarla che, a seguito dei pareri della giuria, il libro "Dialogo tra il cervello e il suo io" è tra i libri che accedono alla fase finale dell'edizione 2014 del Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica. Nel rinnovarle i nostri complimenti le inviamo i nostri più cari saluti. Dr. Giancarlo Dosi. ” Beh, non capita certo tutti i giorni, soprattutto se non si appartenga a determinate lobbie cattedratiche. Questa è la dimostrazione che il concorso non è taroccato e che l’intento è meramente quello di premiare chi è riuscito a tradurre in un linguaggio comprensibile, complesse architetture scientifiche. Essere stati scelti tra 667 autori, la maggior parte dei quali validissimi e noti scienziati, è già una straordinaria vittoria!

Altri anni:

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