Dott. Franco Sponziello
Psicologo

Articoli e pubblicazioni - Anno 2024

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Tu na nge vè buéne de cape
La frase nel titolo, in dialetto ostunese letteralmente tu non stai bene di testa, può indicare un bonario sfottò tra amici oppure un’offesa. In ogni caso, si riferisce al funzionamento della mente, del cervello e delle relative funzioni. Se queste non rientrano in determinati criteri di “normalità”, entro precisi canoni di comportamento dettati anche dalle mode del periodo storico, scatta l’infausta diagnosi che marchia l’altro di un certo deficit mentale. Mai che qualcuno sia deriso o guardato con sospetto per un’ingessatura a un braccio o se indossa gli occhiali o ha denti finti. È il cervello l’organo più ambito, il più misterioso, il depositario dei nostri segreti, dei lati più intimi e di quelli meno confessabili e che, dunque, solo noi ci illudiamo di controllare, correggere e “riparare”. Forse, anche questa ipotetica padronanza della propria mente, fa ritenere alcuni di essere superiori ad altri ai quali si possono appioppare epiteti che riguardano disturbi psichici più o meno gravi, allo scopo di sottolineare la propria superiorità, che in realtà nasconde grandi fragilità. Così, alle persone oggetto delle insulse attenzioni dei drittoni di turno, si può affibbiare uno dei tanti termini che oggi vanno per la maggiore: ansioso, emotivo, depresso, pazzo, narcisista, malato di mente, ossessivo, bipolare, psicotico, schizofrenico, down e così via. Sono tutti termini scientifici abusati e tratti dal linguaggio psichiatrico, che rappresentano patologie anche gravi. Con l’utilizzo di questi termini, più o meno inconsciamente, si tenta di porsi in una situazione di vantaggio, di superiorità psicologica, di far parte di un gruppo elitario che ha bisogno di catalogare altre persone come “inferiori”, per confermare la propria illusoria perfezione. In realtà le psicopatologie su elencate, spesso poco o niente hanno a che vedere con l’intelligenza della “vittima”, ma sicuramente hanno a che fare con le limitazioni di chi usa queste parole.
Le parole sono importanti
Le parole sono davvero importanti e non mi riferisco a quante ne conosciamo o a come le pronunciamo, ma al modo in cui le utilizziamo e a quale peso hanno sull’altro, quanto male possono fare.
Ansioso è il termine forse più diffuso per indicare qualsiasi variazione dello stato d’animo di una persona. L’ansioso sarebbe estremamente fragile, in balia della propria emotività, non in grado di affrontare la vita a “muso duro”, e già questa frase rivela una mentalità da far west, da uomini rudi. Niente di più errato, ovviamente, poiché, come per tutto il resto, dipende dalla gravità del problema non certo determinabile a occhio.
Anche trauma è molto utilizzato, magari non per offendere ma sempre a casaccio, poiché i reali traumi psicologici sono questione delicata, così come tanti altri problemi della mente. Un trauma è in relazione a un evento gravissimo, uno choc particolarmente violento che produce risultati a sua volta pesanti sulla persona che ne è vittima.
Sei depresso è un’altra sparata che i “laureati della strada” adoperano senza parsimonia. Se si è pensierosi o tristi per un qualsiasi motivo, scatta immediatamente la diagnosi del conoscente o amico di turno. Sì, lo so che spesso lo si fa a “fin di bene”, ma eviterei di confondere normalissimi cali dell’umore (se dovuti a cause reali), con le sindromi depressive che, soprattutto nelle forme più gravi, sono ben altra cosa.
C’è poi il narcisista, questa figura che sembra di colpo essersi riprodotta in milioni di copie e che è presente praticamente ovunque. Nell’era dell’apparire, figuriamoci se maldestri tentativi a emergere, a farsi notare, non siano considerati narcisistici. Il narcisismo, in particolare nella sua forma più grave, quello patologico, è tutt’altra cosa rispetto ad atteggiamenti magari un po’ sopra le righe, ma tutto sommato innocui.
Uno dei vocaboli che più mi fa indignare è mongoloide rivolto alle persone Down. Il disprezzo celato, magari dietro una risatina idiota, mentre si utilizza questo termine, rispecchia una personalità con grossi problemi di maturazione intellettiva e umana.
In Ostuni, come più o meno in tutte le altre città, allo scemo del villaggio si è sostituito negli anni, il pazzo del villaggio e, a differenza di prima, ora i social ne garantiscono una diffusione capillare che raggiunge e fa aggregare tanti altri neofiti che assistono e ridono dei problemi altrui. Potrei continuare a elencare altri termini del linguaggio psichiatrico abusati e utilizzati a sproposito, ma credo che il concetto sia chiaro. Esistono grosso modo due categorie di fruitori di questo linguaggio: la prima comprende chi deride l’altro e condivide volentieri l’irrisione con il “branco”; l’altra, sembra più disponibile al dialogo e all’aiuto, pur continuando ad abusare di vocaboli psichiatrici e a dare consigli spesso sbagliati, come: vinci le tue paure; reagisci; tutti hanno i loro problemi; c'è chi sta peggio di te; devi sforzarti di più e via dicendo... Benché a volte si riesca a comprendere il disagio altrui solo se lo si è provato anche solo in parte, sono convinto della buonafede di chi pronuncia queste frasi, così come della presenza di una persona cara nel momento opportuno, perché aiuta l’altro ad aprirsi diluendo così parte del suo dolore. Sarebbe comunque meglio cercare di comprendere che, se per l’altra persona fosse così facile reagire, semplicemente non starebbe male. Dunque va bene stargli vicino, parlare con il solito tono e soprattutto sapere ascoltare.
Chi ha iniziato?
Com’è nata questa cattiva abitudine? Alcuni termini sono molto datati. Altri, la maggior parte, si sono diffusi grazie al tamtam dei social, per mezzo degli influencer, sorta di guru nostrani i quali sembra che più ignoranti sono, maggiore seguito hanno. I social media offrono la possibilità a molte persone di interagire, ma a tante altre di mimetizzarsi e dar sfogo, così, ai propri deliri razzisti, omofobi e di insofferenza verso i presunti “diversi”. Sono noti grazie alle denunce, tra gli altri, di Amnesty International, i continui tentativi, spesso riusciti, di manipolazione dell’opinione pubblica da parte di grandi gruppi politici. Il concetto è abbastanza ovvio: creare diffidenza, paura, disinformazione, contrapposizione, sospetto e così via, in modo che la gente chieda durezza, abbandonando compassione e dialogo. È, infatti, più semplice inculcare la voglia di repressione che distoglie dai reali bisogni, un po’ come nel gioco delle tre carte.
Una lancia la spezzerei, questa volta in testa, ad alcuni colleghi psicologi e psichiatri che, letteralmente dappertutto, si esibiscono nel famoso gioco “chi riesce a capirmi è bravo”, sdoganando intanto l’utilizzo dei termini in questione. Ironia a parte, la consuetudine ad abusare di termini psicologici e psichiatrici, serve a creare una linea di demarcazione netta tra i migliori e i peggiori, i furbi e gli sprovveduti, i forti e i deboli. Si sta irrobustendo negli ultimi anni l’incapacità di guardare l’altro senza pregiudizi, come egli è, cioè un essere umano e questo al di là del proprio credo politico e religioso. Stare dalla parte giusta, significa considerare alcune anomalie e stranezze, vere o presunte, una risorsa e non un’offesa all’ipotetica, scialba perfezione.
Sereno 2024.


Viata a cce téne pacienza...
ca lu tiembe ì jalantomme (beato chi ha pazienza, perché il tempo è galantuomo) recita un vecchio adagio ostunese1. L’immagine che accompagna il proverbio, rende molto bene l’idea anche se non si conosce il dialetto: sapere aspettare è la prerogativa per ottenere i migliori risultati. Ne riviene che volere tutto subito, spesso comporta risultati limitati.
Tutto subito: la gratificazione istantanea
Il desiderio umano di ottenere gratificazioni immediate anziché attendere i tempi dovuti, influenza comportamenti e decisioni. Quante volte ci facciamo prendere dalla smania di ottenere qualcosa a tutti i costi, per poi rimpiangere di non aver atteso un po’ per meditare e vagliare i pro e i contro? Un comportamento così “affrettato” è probabilmente maturato con l’era industriale. Volere una gratificazione immediata senza valutare le possibili controindicazioni e i rischi, è una distorsione della realtà, un bias, dovuto anche al flusso continuo di informazioni e stimoli cui siamo sottoposti. Questa costante ricerca di novità e la disponibilità immediata di risorse pressoché illimitate, possono avere impatti sulla psiche umana, ad esempio contribuendo all’insorgenza di fenomeni come attenzione limitata, ansia, dipendenza da dispositivi digitali, giusto per citarne alcuni. Inoltre, nella società dei consumi, il desiderio di ottenere immediatamente qualcosa, fa parte delle stimolazioni cui siamo sottoposti, della pubblicità, delle mode che cambiano ogni tot e che riguardano sempre la spinta a modificare gli abiti, i cellulari, l’auto, le “cose” insomma, nell’illusione di essere noi a decidere i cambiamenti.
E chi resiste?!
Lo psicologo Walter Mischel, dell’Università di Stanford, intorno alla fine degli anni Sessanta mise a punto un famoso esperimento, il “Test del marshmallow” (un dolce tipico americano) o “Test della gratificazione differita”. A bambini tra i tre e i sei anni si faceva scegliere un bocconcino prelibato, di solito un dolce, dicendogli che dovevano resistere per quindici-venti minuti prima di mangiarlo. Come ricompensa avrebbero ricevuto un secondo dolce. Le reazioni di alcuni bimbi variava dal cantare una canzoncina all’impegnarsi in un gioco inventato lì per lì, pur di cercare di far passare il tempo. Altri non ce la facevano ad aspettare e, pur con differenti tempistiche, mangiavano il dolce prima dello scadere del tempo. Secondo l’ideatore, il comportamento dei bambini durante il test forniva un profilo di come sarebbero stati da adulti nelle professioni, nell’economia e in altri ambiti della vita a venire. Dopo alcuni anni altri psicologi, con la collaborazione di Mischel, hanno sottoposto gli stessi bambini, ormai diventati adulti, ad alcuni test di verifica: chi da piccolo era riuscito ad aspettare il secondo dolce, dopo dieci e anche quarant’anni, riusciva meglio degli altri a superare i test cui era sottoposto, oltre a presentarsi fisicamente più in forma. Sia ben chiaro che il futuro di un bambino non dipende dall’avere o no saputo resistere a un cioccolatino, e questo i ricercatori lo sapevano bene. Ciò che volevano evidenziare, a loro dire, è che l’autocontrollo si può allenare come fosse un bicipite offrendo più possibilità di scelta grazie al tempo che ci si prende per riflettere e valutare le varie opportunità.
Una via di mezzo
Ci sono due sistemi che interagiscono strettamente tra di loro all’interno del cervello umano: uno ‘caldo’ - emotivo, reattivo, inconscio - e uno ‘freddo’ - cognitivo, riflessivo, più lento e laborioso -” scrive Walter Mischel nel suo saggio sul test2. Con “caldo” si riferisce al sistema limbico, una parte del nostro cervello sede, tra gli altri, delle reazioni emotive, mentre con “freddo” intende la razionale corteccia cerebrale, di relativamente recente formazione, che fa da filtro, da “censore” alle istanze più ancestrali. Insomma, la risposta sarebbe in relazione a quale zona del cervello elabora le situazioni che si presentano: nel caso sia il sistema limbico, non sapremo resistere alle tentazioni e affronteremo le situazioni senza riflettere tanto, e senza darci un limite, uno stop come accade, ad esempio, nelle dipendenze da sostanze, il tabagismo o l’obesità. Al contrario, se l’input è elaborato dalla corteccia prefrontale, saremo più attenti e riflessivi, sapendoci fermare al momento giusto. Il test, molto diffuso, è stato condotto in America e in altri stati, molti di questi europei. Si potrebbe obiettare che la ricchezza propria di queste nazioni abbia in qualche modo influito sui risultati e le aspettative: avendone in abbondanza, i piccoli fanno meno fatica ad attendere il tempo necessario prima di mangiare i dolcetti. Sicuramente è così, ma va detto che nel campione rappresentativo impiegato per lo svolgimento del test, c’erano anche bambini provenienti da famiglie povere e proprio tra questi si rilevava la maggiore percentuale (il 70%) di chi aveva resistito fino allo scadere del termine. Questo dato farebbe pensare a un adeguato autocontrollo, ma probabilmente è più in funzione alla necessità che questi bimbi hanno di adeguarsi al particolare stato di bisogno in cui versa il nucleo familiare. La verità sta nel mezzo, poiché ogni bambino risponde in relazione alle proprie caratteristiche fisiologiche innate, amalgamate con il prodotto dell’educazione ricevuta, dell’ambiente e del momento storico-culturale in cui vive: un “impianto” che è suscettibile di variazioni (l’allenamento dei bicipiti di cui sopra).
Quando tutto è troppo
L’autocontrollo, ossia la capacità di sapere attendere i tempi necessari, gestendo gli impulsi emotivi che spingono all’azione, è sempre meno presente nella nostra società. Accade che si pretenda di insegnare ai bambini a rinunciare o a ritardare la gratificazione, senza che essi comprendano il significato di ciò che gli si propone, anche e soprattutto perché manca l’esempio da parte degli adulti. E l’esempio troppo spesso stenta ad arrivare, presi come ormai siamo, dai ritmi di vita incalzanti e che lasciano ormai poco spazio alla consapevolezza del tempo, alla condivisione delle emozioni, all’educazione consapevole che insegni il valore degli affetti e delle cose, dunque a sapere attendere e godere dei giusti tempi. Per tutto. Tornando al test, alcuni scienziati hanno obiettato che questo strumento non misura in realtà l’autocontrollo, ma la fiducia che i bambini hanno nell’autorità (intesa come affidabilità genitoriale): più credibili sono gli adulti - di solito i genitori - maggiore sarà la disponibilità a non farsi prendere dalla smania di avere subito l’oggetto del desiderio, grazie alle precedenti esperienze positive. In altri termini, aspetto a mangiare il dolcetto perché so che l’adulto (papà, mamma, ecc.) manterrà ciò che ha promesso. Nonostante sia spiacevole, ciò vale anche quando l’adulto dice “no”, ma lo motiva e mantiene questa linea. Al contrario, un ambiente in cui regni l’incertezza e promesse e negazioni sono elargite alla rinfusa, sempre in bilico tra “sì” e “no”, disorienta il bambino facilitando uno sviluppo in cui l’insicurezza predominerà a scapito dell’autocontrollo, anche per la scarsa fiducia nell’autorità genitoriale. Resistere a una tentazione non significa rinunciare obbligatoriamente alla ricompensa. Anzi, spesso è proprio il tempo che abbiamo lasciato trascorrere ad aumentare il valore del premio che ci attende. Gestire le emozioni, non significa bloccarle, bensì coltivarle al meglio traendone il maggior beneficio.
È il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha reso la tua rosa così importante3
1Grazie a Rosario Santoro, uno dei più competenti cultori della tradizione linguistica di Ostuni.
2Il test del marshmallow - Padroneggiare l’autocontrollo, 2019 - Carbonio Editore.
3Dal libro Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry.


Eccellenze ostunesi...
L’Italia ha, tra gli altri, il grande problema dei “cervelli” in fuga verso Stati che valorizzano al meglio quella ricchezza. Eppure le università italiane sono all’avanguardia in quanto a preparazione dei futuri laureati i quali, però, terminati gli studi non trovano le condizioni idonee per esprimere le proprie potenzialità. È un danno anche economico, poiché la preparazione universitaria e specialistica ha un costo che gli altri Stati non dovranno sostenere. Raramente succede l’inverso: il “cervello” va all’estero per specializzarsi e poi torna in Italia per prestare la sua preziosa opera. È il caso del dott. Marco Colizzi1, Professore aggregato di Psichiatria presso l’Università di Udine, una mente giovane e brillante che dopo essersi perfezionato al prestigioso King’s College London, è voluto tornare in Italia. Ad oggi ha pubblicato più di cento studi scientifici e proprio in questo periodo sta lavorando a un progetto che potrebbe rivoluzionare il concetto di terapia dei disturbi mentali. Sono davvero lieto di fare questa chiacchierata con lui.

Io - Marco, leviamoci subito il pensiero: quanto e se ha influenzato le tue scelte professionali, la figura di tuo padre Franco Colizzi il noto psichiatra ostunese?
Marco - Direi molto. Il lavoro che svolgo è, per certi versi, a metà strada tra quello di entrambi i miei genitori. Da una parte la clinica, attività imprescindibile anche per sviluppare nuove idee e mettere la propria ricerca al servizio dei pazienti. Dall’altra la didattica, portata avanti con grande impegno e rigore dall’ateneo a cui afferisco, e che ci ha consentito di scalare la classifica Censis delle Università italiane, piazzandoci al secondo posto dei medi atenei statali. Durante gli studi di medicina all’Università di Bari è stato per me determinante lo svolgimento del progetto Erasmus presso l’Università di Nancy, in Francia. Ero convinto, forse per differenziarmi da mio padre ma rimanergli abbastanza vicino, che potessi fare il neurologo. Il medico di turno mi commissionava di misurare il “perimetro di marcia” di pazienti con diverse forme di sclerosi. Settimana dopo settimana vedevo ridursi le loro capacità motorie a fronte di una sofferenza psichica crescente, a volte in maniera reattiva alla malattia, a volte anche per i danni cerebrali della malattia stessa. Mi trovavo così sempre più interessato al mondo psichico di questi pazienti, pur riconoscendo la matrice neurobiologica di molte condizioni psichiatriche. Un giorno venni a conoscenza del confronto scientifico di Charcot, tra i padri della neurologia moderna, con la scuola di Nancy sul tema dell’isteria. Charcot, dapprima convinto che l’isteria fosse un disturbo neurologico ereditabile, successivamente ne riconobbe la natura psicologica. Anch’io, nel mio piccolo, chiusi il cerchio psichiatria-neurologia e, una volta rientrato a Bari, chiesi di fare la tesi di laurea in psichiatria sull’ereditarietà della schizofrenia. Penso che la psichiatria, e ancor meglio la salute mentale, sia un eccezionale finestra per interfacciarsi con l’altro, tenendo insieme la matrice umanistica del lavoro medico e la spinta biologica che ci porta nel futuro della professione.
Io - Vero, il binomio clinica-didattica è sicuramente dovuto a tuo padre e a tua madre, Elena Narracci, in quanto docente, i quali ti hanno trasmesso anche l’indispensabile curiosità, ad esempio per lo studio cui ti stai dedicando ora e che riguarda le conseguenze dei processi infiammatori e della relativa risposta dell’organismo, in particolare del cervello. Ce ne puoi parlare?
Marco - Negli ultimi 20-30 anni, l’innegabile contributo delle neuroscienze ha permesso che quella che alcuni consideravano la cenerentola della medicina si (ri)appropriasse delle proprie basi scientifiche. La psichiatria adesso abita stabilmente il cervello, nella sua complessità bio-comportamentale. Ma non è finita qui. Nell’ultimo decennio, diversi studi hanno dimostrato quanto altri distretti corporei siano fondamentali per il benessere psichico. Alcune funzioni vitali del nostro organismo attraversano i diversi distretti, motivo per cui le patologie, specialmente se croniche, vengono sempre più considerate multi-sistemiche, obbligando i diversi specialisti a confrontarsi tra loro. Una di queste funzioni è la risposta infiammatoria con cui il nostro organismo si difende da insulti esterni che ne minano la salute. L’infiammazione non è di per sé un evento patologico, ma una risposta fisiologica che accompagna molteplici eventi biologici della nostra vita. È un evento che le ricerche scientifiche hanno dimostrato essere molto più complesso di quanto si credesse in passato, con precise e limitate fasi di attivazione e risoluzione. Quando si altera, può verificarsi una risposta eccessiva o protratta da parte dell’organismo, che a quel punto diventa patologica e può causare malattie. Nel momento in cui l’infiammazione si estende al cervello - neuro-infiammazione -, vi sono rischi elevati per il funzionamento psichico e cognitivo. Tra i termini scientifici che spiegano questo fenomeno vi è “sickness behavior”, comportamento di malattia. Immaginate di sentirvi affaticati, giù di umore, meno capaci di avere relazioni sociali, meno performanti sul lavoro ed in difficoltà con compiti mentalmente impegnativi. È come quando si ha l’influenza, ma la situazione non si risolve e sembra peggiorare. Questo fenomeno sembrerebbe spiegare, almeno in parte, anche il cosiddetto “long-COVID” - di cui pure si è occupato il nostro gruppo di ricerca -, dove si presuppone un ruolo dell’infiammazione nel perdurare di sintomi di questo tipo anche diversi mesi dopo l’infezione acuta.
Io - Nel tuo studio indichi una probabile soluzione per le psicosi, attraverso sostanze che già produciamo, quali la palmitoiletanolamide, una molecola dal nome pressoché impronunciabile, abbreviato con PEA. Qual è l’azione di questa molecola sui disturbi mentali come, appunto, le psicosi?
Marco - Le psicosi hanno un picco di esordio tra la tarda adolescenza e la prima età adulta, riguardando fino al 3% della popolazione. Tra i primi segni di malattia possono verificarsi proprio quelli di “sickness behavior”, come ritiro sociale, calo di performance scolastica o lavorativa e sensazione di minore efficienza nelle capacità di pensare ed esprimersi. Si tratta di sintomi che possono durare tutta la vita, indipendentemente dalle fasi acute di malattia. Questi sintomi sono quelli attualmente meno trattabili e maggiormente responsabili della gravità della malattia nel lungo termine. Per farla breve, studi scientifici suggeriscono che l’infiammazione possa spiegare questi sintomi. In questa prospettiva, è interessante che il nostro organismo, in risposta a stimoli infiammatori, produca questo acido grasso impronunciabile ma eccezionale, in quanto in grado di “riparare” le alterazioni a cui l’organismo va continuamente incontro. Da una recente revisione della letteratura effettuata dal nostro gruppo di ricerca, questo meccanismo risulta attivarsi anche nelle psicosi: i livelli della PEA nel sangue e nel sistema nervoso centrale aumentano nelle prime fasi di malattia, come tentativo di contrastare i processi patologici. Purtroppo, questo meccanismo di difesa si perde nel lungo periodo, indicando che l’organismo esaurisca la capacità di contrastare l’infiammazione quando questa è cronica, lasciando il passo alla malattia.
Io - Una scoperta di enorme valore scientifico e dai risvolti pratici destinati a rivoluzionare la terapia e dunque la qualità della vita dei pazienti. Immagino ci siano altre ricerche cui stai lavorando o che ti impegneranno a breve.
Marco - La buona notizia è che è possibile aumentare l’apporto nutrizionale della PEA, come con la vitamina D o gli omega 3. La PEA è considerata un alimento a fini medici speciali ed acquistabile senza ricetta medica, in quanto scevra da effetti collaterali significativi. È commercializzata in varie forme, ma nella sua versione ultra-micronizzata sembra avere effetti più marcati sull’infiammazione, dovuti al miglior assorbimento. Dalla revisione della letteratura emerge che la supplementazione orale della PEA riduca proprio quei sintomi di sickness behavior che i farmaci antipsicotici non riescono a trattare efficacemente. Tra gli studi in cantiere vi è la supplementazione della PEA nelle fasi precocissime di psicosi per verificare se possa modificare positivamente l’andamento della malattia. Al momento, non esiste ancora una valida strategia terapeutica che sia in grado di mitigare il rischio di progressione alla patologia conclamata. È vitale comprendere se la PEA possa riuscirci. Rimanete sintonizzati.

Si avverte subito la grande passione che anima Marco Colizzi, questo giovane scienziato impegnato in ricerche che potrebbero cambiare radicalmente l’approccio con alcune gravi patologie psichiche. Sicuramente anche a nome di chi legge questo articolo, mi congratulo con lui e non solo per le sue alte competenze, ma anche per aver scelto di rimanere in Italia. Purtroppo in questi ultimi anni si assiste alla sistematica denigrazione della Scienza, soprattutto quella medica, e dei suoi operatori da parte di gruppi di persone impegnate in accuse assolutamente infondate sui social, ma che a volte passano poi alle vie di fatto. Non voglio entrare, qui, nel merito, limitandomi a osservare come l’unico punto di riferimento valido per la nostra salute fisica e mentale, rimanga appunto la Scienza, con le sue inevitabili contraddizioni, ma soprattutto con i suoi meriti di gran lunga superiori: ecco un ottimo motivo per rimanere sintonizzati, Marco, perché sono queste le “trasmissioni” che ci interessano davvero! Se poi a condurle sono nostri compaesani, beh un pizzico di campanilismo ce lo possiamo pure concedere.

1Visiting Senior Lecturer presso il King's College di Londra, dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Neuroscienze per lo studio degli effetti neurocognitivi e neurochimici dei cannabinoidi sul cervello umano. All'inizio della sua carriera scientifica, il suo lavoro si è concentrato prevalentemente sulla neuropsicofarmacologia e sul funzionamento neurocognitivo delle psicosi, con un interesse particolare per il ruolo dei cannabinoidi. Più recentemente, la sua attività di ricerca clinica si è concentrata sull'implementazione di strategie preventive psicosociali e psicofarmacologiche durante le fasi di neurosviluppo della vita, con l'obiettivo finale di modificare positivamente il decorso dei disturbi psichiatrici nelle popolazioni giovanili.

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