Tu na nge vè buéne de cape
La frase nel titolo, in dialetto ostunese letteralmente tu non stai bene di testa, può indicare un bonario sfottò tra amici oppure un’offesa. In ogni caso, si riferisce al funzionamento della mente, del cervello e delle relative funzioni. Se queste non rientrano in determinati criteri di “normalità”, entro precisi canoni di comportamento dettati anche dalle mode del periodo storico, scatta l’infausta diagnosi che marchia l’altro di un certo deficit mentale. Mai che qualcuno sia deriso o guardato con sospetto per un’ingessatura a un braccio o se indossa gli occhiali o ha denti finti. È il cervello l’organo più ambito, il più misterioso, il depositario dei nostri segreti, dei lati più intimi e di quelli meno confessabili e che, dunque, solo noi ci illudiamo di controllare, correggere e “riparare”. Forse, anche questa ipotetica padronanza della propria mente, fa ritenere alcuni di essere superiori ad altri ai quali si possono appioppare epiteti che riguardano disturbi psichici più o meno gravi, allo scopo di sottolineare la propria superiorità, che in realtà nasconde grandi fragilità. Così, alle persone oggetto delle insulse attenzioni dei drittoni di turno, si può affibbiare uno dei tanti termini che oggi vanno per la maggiore: ansioso, emotivo, depresso, pazzo, narcisista, malato di mente, ossessivo, bipolare, psicotico, schizofrenico, down e così via. Sono tutti termini scientifici abusati e tratti dal linguaggio psichiatrico, che rappresentano patologie anche gravi. Con l’utilizzo di questi termini, più o meno inconsciamente, si tenta di porsi in una situazione di vantaggio, di superiorità psicologica, di far parte di un gruppo elitario che ha bisogno di catalogare altre persone come “inferiori”, per confermare la propria illusoria perfezione. In realtà le psicopatologie su elencate, spesso poco o niente hanno a che vedere con l’intelligenza della “vittima”, ma sicuramente hanno a che fare con le limitazioni di chi usa queste parole.
Le parole sono importanti
Le parole sono davvero importanti e non mi riferisco a quante ne conosciamo o a come le pronunciamo, ma al modo in cui le utilizziamo e a quale peso hanno sull’altro, quanto male possono fare.
Ansioso è il termine forse più diffuso per indicare qualsiasi variazione dello stato d’animo di una persona. L’ansioso sarebbe estremamente fragile, in balia della propria emotività, non in grado di affrontare la vita a “muso duro”, e già questa frase rivela una mentalità da far west, da uomini rudi. Niente di più errato, ovviamente, poiché, come per tutto il resto, dipende dalla gravità del problema non certo determinabile a occhio.
Anche trauma è molto utilizzato, magari non per offendere ma sempre a casaccio, poiché i reali traumi psicologici sono questione delicata, così come tanti altri problemi della mente. Un trauma è in relazione a un evento gravissimo, uno choc particolarmente violento che produce risultati a sua volta pesanti sulla persona che ne è vittima.
Sei depresso è un’altra sparata che i “laureati della strada” adoperano senza parsimonia. Se si è pensierosi o tristi per un qualsiasi motivo, scatta immediatamente la diagnosi del conoscente o amico di turno. Sì, lo so che spesso lo si fa a “fin di bene”, ma eviterei di confondere normalissimi cali dell’umore (se dovuti a cause reali), con le sindromi depressive che, soprattutto nelle forme più gravi, sono ben altra cosa.
C’è poi il narcisista, questa figura che sembra di colpo essersi riprodotta in milioni di copie e che è presente praticamente ovunque. Nell’era dell’apparire, figuriamoci se maldestri tentativi a emergere, a farsi notare, non siano considerati narcisistici. Il narcisismo, in particolare nella sua forma più grave, quello patologico, è tutt’altra cosa rispetto ad atteggiamenti magari un po’ sopra le righe, ma tutto sommato innocui.
Uno dei vocaboli che più mi fa indignare è mongoloide rivolto alle persone Down. Il disprezzo celato, magari dietro una risatina idiota, mentre si utilizza questo termine, rispecchia una personalità con grossi problemi di maturazione intellettiva e umana.
In Ostuni, come più o meno in tutte le altre città, allo scemo del villaggio si è sostituito negli anni, il pazzo del villaggio e, a differenza di prima, ora i social ne garantiscono una diffusione capillare che raggiunge e fa aggregare tanti altri neofiti che assistono e ridono dei problemi altrui. Potrei continuare a elencare altri termini del linguaggio psichiatrico abusati e utilizzati a sproposito, ma credo che il concetto sia chiaro. Esistono grosso modo due categorie di fruitori di questo linguaggio: la prima comprende chi deride l’altro e condivide volentieri l’irrisione con il “branco”; l’altra, sembra più disponibile al dialogo e all’aiuto, pur continuando ad abusare di vocaboli psichiatrici e a dare consigli spesso sbagliati, come: vinci le tue paure; reagisci; tutti hanno i loro problemi; c'è chi sta peggio di te; devi sforzarti di più e via dicendo... Benché a volte si riesca a comprendere il disagio altrui solo se lo si è provato anche solo in parte, sono convinto della buonafede di chi pronuncia queste frasi, così come della presenza di una persona cara nel momento opportuno, perché aiuta l’altro ad aprirsi diluendo così parte del suo dolore. Sarebbe comunque meglio cercare di comprendere che, se per l’altra persona fosse così facile reagire, semplicemente non starebbe male. Dunque va bene stargli vicino, parlare con il solito tono e soprattutto sapere ascoltare.
Chi ha iniziato?
Com’è nata questa cattiva abitudine? Alcuni termini sono molto datati. Altri, la maggior parte, si sono diffusi grazie al tamtam dei social, per mezzo degli influencer, sorta di guru nostrani i quali sembra che più ignoranti sono, maggiore seguito hanno. I social media offrono la possibilità a molte persone di interagire, ma a tante altre di mimetizzarsi e dar sfogo, così, ai propri deliri razzisti, omofobi e di insofferenza verso i presunti “diversi”. Sono noti grazie alle denunce, tra gli altri, di Amnesty International, i continui tentativi, spesso riusciti, di manipolazione dell’opinione pubblica da parte di grandi gruppi politici.
Il concetto è abbastanza ovvio: creare diffidenza, paura, disinformazione, contrapposizione, sospetto e così via, in modo che la gente chieda durezza, abbandonando compassione e dialogo. È, infatti, più semplice inculcare la voglia di repressione che distoglie dai reali bisogni, un po’ come nel gioco delle tre carte.
Una lancia la spezzerei, questa volta in testa, ad alcuni colleghi psicologi e psichiatri che, letteralmente dappertutto, si esibiscono nel famoso gioco “chi riesce a capirmi è bravo”, sdoganando intanto l’utilizzo dei termini in questione. Ironia a parte, la consuetudine ad abusare di termini psicologici e psichiatrici, serve a creare una linea di demarcazione netta tra i migliori e i peggiori, i furbi e gli sprovveduti, i forti e i deboli. Si sta irrobustendo negli ultimi anni l’incapacità di guardare l’altro senza pregiudizi, come egli è, cioè un essere umano e questo al di là del proprio credo politico e religioso. Stare dalla parte giusta, significa considerare alcune anomalie e stranezze, vere o presunte, una risorsa e non un’offesa all’ipotetica, scialba perfezione.
Sereno 2024.