Dott. Franco Sponziello
Psicologo

Articoli e pubblicazioni - Anno 2012

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Internet è entrata ormai di fatto nelle nostre abitudini già da diversi anni. Non va demonizzata, in quanto contribuisce a veicolare cultura e informazione, a facilitare la comunicazione, a dar voce a chi altrimenti non ne avrebbe. Ma è anche, purtroppo, terreno fertile per nuovi tipi di dipendenze psicologiche. Siamo (e in quale misura), dipendenti da Internet? Parrebbe proprio di si. Non tutti, ovviamente. Nemmeno la maggior parte di noi, è chiaro. Ma per alcuni sembra che la Rete sia diventata ormai una vera e propria ossessione, dalla quale è impossibile fare a meno. La prima indagine scientifica sulle dipendenze da Internet, risale al 1996-98 e si deve a Kimberly Young, psicologa canadese, ma fu un suo connazionale, lo psichiatra Ivan Goldberg che nel 1995, per fare uno scherzo ad alcuni suoi colleghi che si scambiavano opinioni scientifiche in un sito web, individuò i criteri per la diagnosi dell'Internet Addiction Disorder (IAD, disordine o disturbo da dipendenza da Internet). Il dr. Goldberg venne letteralmente subissato da richieste di aiuto da parte di moltissime persone che si erano riconosciute nella descrizione dei sintomi che qui riassumo: - Tolleranza, la necessità di aumentare il tempo di collegamento in Internet
- Astinenza, dopo la cessazione o la diminuzione si sviluppano, in un arco di tempo variabile da diversi giorni a un mese, due o più dei seguenti sintomi:
- Fantasie e sogni su Internet
- Pensieri ossessivi focalizzati su cosa sta succedendo in Internet
- Ansia- Agitazione psicomotoria
- Movimenti volontari e involontari di typing con le dita
- Uso di Internet per alleviare la sindrome di astinenza
Questi sintomi causano danni a carico della sfera sociale, occupazionale e/o in altri importanti ambiti della vita di relazione e sono spesso sottovalutati e minimizzati («posso smettere quando voglio»). In Italia fu lo psichiatra Tonino Cantelmi (2000), a studiare per primo la IAD È da sottolineare che al tempo della ricerca effettuata dalla Young e da Cantelmi, il fenomeno era, per così dire, limitato ai computer fissi, quelli di casa o dell'ufficio per intenderci. Il boom di Internet anche sui telefonini e il proliferare dei social networks (Facebook, Twitter), ha fatto sicuramente aumentare il rischio di dipendenza, in quanto ci si può connettere in qualsiasi momento e ovunque. Ciò può comportare una sorta di falsa attribuzione positiva, associando l'assenza di cavi, a un senso di libertà, dunque di mancanza di vincoli e di negatività. Inoltre, il conformismo tipico dell'era che stiamo vivendo, può condurre a giustificare aprioristicamente l'attaccamento morboso al cellulare («tanto ce l'hanno tutti») e a ragionare per schemi tribali (ricordo con simpatia l'espressione strabiliata di una cliente, quando venne a conoscenza che non posseggo un profilo su Facebook). Un interessante quesito è: l'uso di internet è più "nocivo" nelle grandi città, o nei piccoli centri, proprio a causa della carenza in questi ultimi, di occasioni di incontro? Continueremo ad analizzare il problema nelle sue diverse implicazioni:
- dipendenza da ciber-relazioni (chat, social networks)
- da gioco d'azzardo (cyber-gamblyng)
- da shopping compulsivo
- information overloaded (eccesso di informazioni)
- cyber-sesso.


Molte persone che mi hanno contattato via e-mail si riconoscono, anche se in parte, nel profilo dell'internet-dipendente sommariamente accennato nel numero precedente. Premettendo che non è possibile, oltre che deontologicamente scorretto, formulare diagnosi via e-mail, in ogni caso vorrei anche qui tranquillizzare chiunque: la dipendenza da internet, quella davvero patologica, ha un'incidenza per così dire, fisiologica. Ciò significa che all'incirca il 4-5% degli individui che navigano in internet, potrebbe essere a serio rischio. Statistiche ufficiali e autorevoli non ne esistono e le percentuali sono destinate a variare poichè il fenomeno internet è ancora agli albori.
Le chat-line
Ricordo la grande meraviglia che provai quando all'università, ormai decine di anni fa, un amico radioamatore, mi consentì di parlare con i miei a Ostuni a oltre ottocento chilometri di distanza: niente telefono né spese correlate, straordinario! Analogo stupore provai quando, una ventina di anni dopo, scoprii le chat: non si poteva parlare ma, scrivendo, era possibile interloquire in tempo reale con chiunque in tutto il pianeta. Infine arriva Facebook, un'evoluzione (a mio parere, più dovuta a ragioni di marketing), nata quasi per gioco in un campus statunitense. Il suo compito iniziale era di mettere in contatto tra loro gli studenti di quell'università. Oggi si collegano milioni di persone nel mondo. In un articolo della rivista specializzata "Psicologia Contemporanea", si legge: Prima di qualificare Faccbook come "buono" o "cattivo" è bene comprendere quali siano le principali motivazioni sottese al suo uso. In generale, questo social network propone ai suoi utenti un ampio ventaglio di opportunità: comunicare, ma anche esplorare, conoscere, definirsi, mettersi alla prova, affiliarsi… lo spazio virtuale diviene ambiente percettivo dove icone e bottoni rimandano intuitivamente alla loro funzione. Di conseguenza, accessibilità e controllo, insieme alla varietà delle operazioni possibili, ne rendono l'uso piacevole e gratificante. Il problema è che a questi aspetti sono immediatamente legate altre importanti questioni psicologiche. Guardando, infatti, all'altro lato della medaglia, accessibilità, controllo ed eccitazione per la mole di input a disposizione sono anche i tre fattori che facilitano l'insorgenza di comportamenti di dipendenza. Altrettanto singolare è l'ipotesi di una friendship addiction, intesa come la spasmodica ricerca di contatti che "obbliga" alcuni utenti a collezionare un numero sempre maggiore di nuovi amici. Soffermiamoci sulla definizione di amicizia (al di là dai vari livelli, alcuni presupposti sono validi per qualsiasi grado): conoscersi da un po' di tempo perchè non basta la semplice simpatia occasionale, sentirsi a proprio agio, condividere situazioni allegre e spiacevoli, 'fare' qualcosa insieme, confidarsi reciprocamente e così via. Questo non coincide con il significato di amicizia che si dà in Facebook. Lì è mera conoscenza virtuale, 'accaparramento' di quantità, più che di qualità, degli 'amici' fino a diventare una vera e propria gara a chi ne 'raccoglie' il maggior numero: "più amici ho, più valgo". Ricordo che questo atteggiamento non è per sé patologico. L'importante è valutarlo per quel che è, una sorta di gioco di società da tenere ben distinto dalla vita reale. In una e-mail che mi ha inviato la signora Angela, traspare con molta chiarezza quanto detto: "… non riesco a fare a meno di entrare in Facebook e di fare nuove amicizie. Così mi sento protetta e valorizzata… ". Rifugiarsi in un mondo irreale e protettivo, fa parte di ognuno di noi sin da piccoli. Il periodo dell'adolescenza (lo 'svezzamento' dalla famiglia), è spesso caratterizzato da atteggiamenti di contrasto netto e apparentemente ingiustificato da parte dei ragazzi. È la 'dura' realtà che si sovrappone all'ovattato nido cui si era abituati fino ad allora. La ricerca del 'gruppo' in cui rifugiarsi, non è altro che il tentativo di ricreare, nella nuova realtà, un ambiente protettivo e, al contempo, gratificante. Nessuno compie questo cruciale passaggio senza un minimo di attrito. Per molti di noi rimangono insoluti alcuni nodi che ci portano a ritagliare un pezzo di infanzia laddove ci è possibile. Insomma, è probabile che la signora Angela, come tanti altri, fosse già alla ricerca, più o meno inconscia, di un ambito ottimale in cui rifugiarsi. Se non avesse trovato Facebook, probabilmente avrebbe rivolto la sua attenzione verso altri modi, sempre illusori, di realizzazione. In conclusione, va bene utilizzare internet e i vari servizi offerti, ma cercare il più possibile di avere una vita di relazione piena: uscire, frequentare persone vere, parlare anziché scrivere sulla tastiera, inserirsi in gruppi d'interesse (volontariato, civile, culturale, ecc.), insomma di vivere la propria esistenza concretamente. Quando ciò non è possibile e internet – come qualsiasi altro mezzo – diventa ossessione, solo allora sarà bene parlarne con uno specialista per fare il punto della situazione e cercare di risolvere il problema.


Gratta… ci cova
In ogni paese o città, c'è stato in passato almeno un locale frequentato dalla gente bene del posto, che si riuniva per trascorrere le serate, spesso a giocare a carte. Dove risiedo io, sì e si chiamava 'Circolo cittadino'. Correva voce che si giocasse d'azzardo ma, a chi come me non faceva parte del jet set, poco interessava se fosse o no vero che lì si puntassero somme di denaro anche ingenti. Comunque, nessuno avrebbe mai immaginato che il gioco d'azzardo avrebbe raggiunto le dimensioni attuali: una piaga planetaria con un giro di affari stratosferico che coinvolge trasversalmente tutti i ceti sociali. Recenti studi a cura del Codacons (Coordinamento delle associazioni per la difesa dell'ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori), hanno rilevato che gli italiani coinvolti nell'industria del gioco, sono oltre 35 milioni e il 3% di essi sono giocatori compulsivi (cifre approssimate per difetto), vale a dire affetti da ludopatia. La differenzazione che lo legge italiana fa tra gioco d'azzardo e 'gioco pubblico' (quello 'lecito'), risulta, a mio parere, un tantino artificiosa, visto che anche del gratta e vinci si può diventare dipendenti (eccome!). Riporto di seguito i criteri fissati dal DSM-IV-TR, l'autorevole manuale dei disturbi mentali cui devono riferirsi psichiatri e psicologi per la diagnosi di disturbo del controllo degli impulsi (categoria cui fa capo, appunto, il gioco d'azzardo patologico). La persona:
-1. è eccessivamente assorbita dal gioco d'azzardo (per es., nel rivivere esperienze passate di gioco d'azzardo, nel soppesare o programmare la successiva avventura, o nel pensare ai modi per procurarsi denaro con cui giocare);
-2. ha bisogno di giocare d'azzardo con quantità crescenti di denaro per raggiungere l'eccitazione desiderata;
-3. ha ripetutamente tentato senza successo di controllare, ridurre, o interrompere il gioco d'azzardo;
-4. è irrequieta o irritabile quando tenta di ridurre o interrompere il gioco d'azzardo;
-5. gioca d'azzardo per sfuggire problemi o per alleviare un umore disforico (per es., sentimenti di impotenza, colpa, ansia, depressione);
-6. dopo aver perso al gioco, spesso torna un altro giorno per giocare ancora (rincorrendo le proprie perdite);
-7. mente ai membri della famiglia, al terapeuta, o ad altri per occultare l'entità del proprio coinvolgimento nel gioco d'azzardo;
-8. ha commesso azioni illegali come falsificazione, frode, furto, o appropriazione indebita per finanziare il gioco d'azzardo;
-9. ha messo a repentaglio o perso una relazione significativa, il lavoro, oppure opportunità scolastiche o di carriera per il gioco d'azzardo;
-10. fa affidamento su altri per reperire il denaro per alleviare una situazione finanziaria disperata causata dal gioco d'azzardo.
Devono essere presenti almeno cinque o più dei precedenti criteri. È bene sottolineare che di per sé giocare d'azzardo non è patologico. Se, invece, giocare diventa una necessità insopprimibile, allora è bene correre ai ripari rivolgendosi a uno specialista benché, purtroppo, il giocatore patologico spesso rifugga da qualsiasi tipo d'intervento, negando il problema (un aiuto si dovrebbe chiedere anche se vi fosse un numero inferiore di punti in cui ci riconosciamo, proprio perché questo disturbo non si instaura di colpo, ma si aggrava fino a cronicizzare, col trascorrere del tempo). Il dilagare dei casinò on line (col bene placido, ahimè, di chi ne consente la massiccia pubblicità a ogni livello), non fa che aggravare il problema già per sé consistente, facendo lievitare le percentuali esposte all'inizio. Un consiglio ai giocatori: iniziare ad ammettere l'ipotesi di aver bisogno di un sostegno. Un consiglio ai familiari: è assolutamente inutile e controproducente dire di smettere e, se il proprio caro non ne vuol sapere di chiedere aiuto, fatelo voi rivolgendovi a un professionista perché anche piccole modifiche all'interno delle dinamiche familiari, possono indirettamente giovare anche all'interessato.


Macho… virtuale
Ricordo il turbamento che provavo, nella mia prima adolescenza, guardando le immagini su Postalmarket, la rivista di abbigliamento femminile, che un tempo arrivava regolarmente a casa mia così come, credo, in quella di tanti ostunesi. A undici anni non mi spiegavo come mai mia madre visionasse con assoluta tranquillità quelle foto che ritraevano modelle con ingombranti e castigati reggiseno, mentre a me facevano un effetto così 'strano': il massimo della trasgressione sessuale! Ogni momento storico ha i suoi livelli di moralità che spesso sono considerati un'evoluzione rispetto ai precedenti, ma che molto più realisticamente riguardano il moralismo. Wilhelm Reich, psicanalista allievo di Freud, asseriva che "nonostante l'apparente libertà o liberalizzazione sessuale che sembra contraddistinguere la nostra epoca (da fine '800 fino a metà '900, n.d.r.), sta di fatto che la regolamentazione sociale, reprime e impedisce il soddisfacimento dei bisogni biologici naturali; a sua volta questa repressione dà vita ad impulsi secondari, patologicamente antisociali e che pertanto devono essere necessariamente inibiti." Da qui, in larga misura, il diffondersi delle sindromi e alterazioni sessuali che, comunque, per lo più sono espressione di un quadro nevrotico di base. In realtà la "libertà sessuale" è solo apparente, riducendosi alla proposizione di stereotipi cui, purtroppo, ci abituiamo e cerchiamo di imitare: il macho e la donna fisicamente, e spesso artificialmente, perfetta. Gli elementi essenziali, invece, sono assolutamente irrilevanti: il vissuto individuale, le capacità intellettive, i sentimenti. Insomma, l'apparire è fondamentale; l'essere è del tutto secondario. La pornodipendenza è la patologica assuefazione a questi schemi. Chi ne è affetto (molto più gli uomini 10% circa, che le donne, 5% circa della popolazione), "fugge" dalla propria realtà frustrante per calarsi in un'altra dimensione in cui, solo apparentemente, trova sollievo. Televisione, giornali, moda, ecc., spesso sono i veicoli principali dell'informazione "malata". Con l'avvento di Internet il fenomeno, che, ripeto, non va assolutamente demonizzato, si è notevolmente aggravato: i siti pornografici si sono moltiplicati in funzione esponenziale ed entrarvi non è certo un problema. Lì si può essere chi si vorrebbe, anche grazie all'anonimato: forti, virili, vamp. La patologia si aggrava ulteriormente ("dipendenza da cybersesso"), sconvolgendo letteralmente la propria vita: pensiero quasi sempre rivolto al sesso on line con il vano sforzo di controllarsi o eliminare questa pratica; agitazione e irritabilità. Il ripetersi costante di questa pratica sessuale, porta a disperazione, senso di colpa, ansia o depressione, occupati come si è alla ricerca di un'esperienza sempre più intensa e/o rischiosa. Di conseguenza si mente ai familiari, alle persone vicine con gravi conseguenze per il lavoro, lo studio e la situazione economica. Insomma, si nega la dipendenza, nonostante l'evidenza dei risultati negativi a tutto campo. Inutile dire di smettere: chi è affetto da questa patologia, non sente ragioni almeno finché la situazione non degenera o qualche evento rilevante lo porti a consultare uno specialista. Chi avverte i primi sintomi, così come i familiari e le persone vicine, devono prendere in ogni caso l'iniziativa di consultare un esperto, senza vergognarsi. È quest'ultimo insensato sentimento, infatti, che spesso blocca molti di noi, rendendo difficili i futuri eventuali tentativi di remissione da qualsiasi tipo di disturbo.


L'ansia che mette... paura
Mi sono pervenute alcune richieste che riguardano l'ansia. Fra tutti gli argomenti qui trattati – in maniera limitata per ovvi motivi dovuti al mezzo che mi ospita – quello dell'ansia è uno dei più complessi in quanto a vastità. L'ansia, di per sé, è certamente una risorsa insieme alla paura, al dolore, alla fame, la sete, e via dicendo. Di norma, infatti, è un campanello che mette in allarme l'organismo rispetto a una situazione particolare: la persona che non arriva all'ora prestabilita, l'attesa per gli esiti di esami, ma anche l'orario di un appuntamento cui si tiene particolarmente, sono tutte situazioni in cui avvertiamo ansia. L'adrenalina entra in circolo provocando aumento del battito cardiaco e, secondo la situazione, anche sudorazione, impossibilità di concentrarsi, respirazione accentuata, ecc. Siamo ancora nel campo dell'ansia 'buona', quella fisiologica, che proviene dall'esterno, concreta, che ci permette di ricordare esperienze negative (la sirena di un'ambulanza) o positive (una voce cara al telefono). Così come accade per la paura (sempre quella fisiologica), se non ci fosse, saremmo esposti a gravi rischi e, probabilmente, non sopravvivremmo a lungo. Per esempio i primi contatti con il fuoco: solo scottandoci o sentendo il calore troppo forte, ci ricorderemo in futuro di non avvicinarci troppo alla fonte incandescente. Se non avessimo paura del fuoco, continueremmo a ustionarci pericolosamente. Esiste, però, anche un altro tipo di ansia, quella patologica, purtroppo sempre più presente nella popolazione. Gli stessi sintomi dell'ansia 'buona' si amplificano a dismisura e diventano persistenti rendendo spesso difficile, se non impossibile, le normali attività quotidiane e la vita di relazione. Si è di fronte, così, al disturbo d'ansia generalizzata in seguito a una particolare situazione, a separazione, (da una persona cara, da un dato ambiente, ecc.), a prestazioni (lavoro, scuola, sesso, ecc.). La persona vive un costante e diffuso stato di apprensione, senza poterci fare nulla. L'ansia è presente in una serie di psicopatologie che il DSM-IV, l'autorevole manuale dei disturbi mentali, elenca:
- disturbo di panico (con o senza agorafobia)
- agorafobia (paura dei luoghi pubblici e non familiari)
- fobia specifica
- fobia sociale (disturbo da ansia sociale)
- disturbo ossessivo-compulsivo
- disturbo post-traumatico da stress
- disturbo acuto da stress
- disturbo d'ansia dovuto ad una condizione medica generale
- disturbo d'ansia indotto da sostanze
- disturbo d'ansia non altrimenti specificato
Il DSM-IV pone anche limiti temporali (dai quattro ai sei mesi) al persistere del disturbo. In altri termini, se l'ansia persiste senza motivo oltre tali durate, è vivamente consigliato un consulto con uno specialista, anche perché può cronicizzare diventando un vero e proprio problema resistente alle terapie. Purtroppo nelle società occidentali i modelli imposti come status symbol, non fanno che aumentare l'ansia: la donna deve essere bella a tutti i costi; l'uomo deve essere forte e sicuro di sé, a prescindere. Questi modelli impongono un continuo stress che molti non sostengono, proprio perché 'innaturale'. Inoltre, inviterei a riflettere con una certa attenzione, su alcuni atteggiamenti di per sé ansiogeni, che fanno parte del nostro vissuto e che spesso trasmettiamo, involontariamente, ai nostri figli. Potremmo, per esempio, evitare di farci vedere particolarmente ansiosi quando seguiamo programmi televisivi come i Tg (commentando le consuete notizie di cronaca nera), oppure sforzandoci di non essere troppo possessivi riguardo alle amicizie, o, anche, nei riguardi dell'andamento scolastico, e così via. In conclusione, se l'ansia è sproporzionata anche come durata nel tempo e deteriora la nostra vita normale (ma anche dei nostri cari), è inutile dirsi di stare tranquilli, che passerà, che domani ci alzeremo e sarà tutto finito. In questi casi è opportuno rivolgersi a uno specialista, così come facciamo per qualsiasi altra patologia.


L'ansia si fa ossessiva
Rispondo volentieri a due delle e-mail che mi sono giunte a proposito dell'ansia, argomento trattato nel numero scorso. Entrambe le e-mail (del signor Giacomo e della signora Laura), hanno come oggetto il disturbo ossissivo-compulsivo. Per meglio comprendere questo disturbo, bisogna fare riferimento al DSM-IV che definisce le ossessioni "pensieri, dubbi, immagini o impulsi ricorrenti e persistenti che affliggono l'individuo e che da questo vengono percepite come invasive e inappropriate (o comunque fastidiose) e che provocano una marcata sofferenza… L'individuo tenta (inutilmente) di ignorare o sopprimere tali pensieri, immagini o impulsi, o di neutralizzarli (altrettanto inutilmente) con altri pensieri e comportamenti." e le compulsioni "comportamenti o azioni mentali ripetitivi che l'individuo si sente obbligato a eseguire, come una sorta di rituale stereotipato (che può servire a "riparare" un "danno" oppure a diminuire l'ansia causata da un pensiero), per difendersi da una certa ossessione… Le compulsioni possono riguardare diverse tematiche come la contaminazione, il perfezionismo, l'ordine, il controllo" Fanno parte di questo tipo di disturbo, giusto per fare solo qualche esempio: controllare ripetitivamente di aver spento la luce o di aver chiuso bene casa, ecc., lavarsi ripetutamente le mani, allineare perfettamente gli oggetti, la paura ossessiva delle malattie e così via. La persona 'inventa', nel tempo, vari stratagemmi con l'obiettivo di risolvere la situazione e, comunque, di alleviare la forte pressione dovuta all'impulso ossessivo. Paradossalmente sono proprio questi espedienti (le 'manovre' o 'rituali'), se non attuati, a complicare la situazione e a provocare ansia in una sorta di circolo vizioso che si autoalimenta. Solo qualora i sintomi influiscano pesantemente sulla normale vita quotidiana, si deve far ricorso a uno specialista. È quello che consiglio ai signori Giacomo e Laura, rispettivamente per gli attacchi di panico e per la paura di essere ammalata, nonostante i frequentissimi e vari esami diagnostici sostenuti. Mi chiedono, in particolare, come comportarsi rispetto ai 'rituali' messi in atto per alleviare l'ansia: (Giacomo esce ormai raramente da casa, per il timore di avere un attacco di panico; si stende sul letto, spegne tutte le luci e conta ripetutamente fino a cento. Laura evita qualsiasi contatto per la paura di prendere virus, germi e quant'altro; si lava continuamente, strofinando disinfettanti su tutto il corpo, più volte al giorno. Come detto, queste 'manovre' attenuano solo momentaneamente la pressione ansiosa e sono indispensabili proprio per non esasperare il quadro già abbastanza complesso rappresentato dalle inevitabili ossessioni compulsive. Inutile, dunque, cercare di uscire forzatamente da casa o smettere di lavarsi, così come familiari e conoscenti (sempre a fin di bene), continuano a suggerire. Certo, i due casi qui citati sono abbastanza complessi, proprio perché non ci si è rivolti subito a uno specialista, ma la soluzione è lo stesso possibile affidandosi senza remore, ripeto, a uno specialista.


Natale con i tuoi… stress
«Puntualmente ogni anno, già verso la metà di novembre, inizio a essere triste e ansiosa. É uno stato di malessere psicologico che poi passa ai primi di gennaio. Vorrei tanto vivere le feste di Natale tranquillamente come facevo fino a pochi anni fa, ma qualcosa me lo impedisce. Mi accorgo di non vivere spontaneamente questi momenti che prima aspettavo con gioiosa ansia (…)». Mi è pervenuta questa e-mail nella quale la signora Maria racconta delle sue preoccupazioni in occasione delle festività natalizie. Possiamo definire, appunto, "stress da festività", questa particolare situazione che alcune persone vivono. In generale non costituisce una sindrome patologica vera e propria, poiché non compromette lo svolgimento delle normali attività quotidiane. La signora Maria prosegue la descrizione rammaricandosi di non vivere più le emozioni, gli odori, i colori e, soprattutto, la gioia che traspariva nei volti e nei gesti degli altri. Questa testimonianza induce a riflettere, senza cadere in facili sentimentalismi, sui cambiamenti repentini che hanno modificato la nostra percezione del Natale e delle feste a esso correlate. La crisi economica aggrava il quadro: le speranze che il periodo natalizio ha da sempre indotto e stimolato, si possono trasformare in cocente delusione. I ritmi spasmodici imposti dalla società odierna, sono tra le cause principali del disagio avvertito in questo particolare periodo dell'anno: i regali, i cenoni e i pranzi di rito, la festosa invasione dei parenti, che fino a qualche decennio addietro erano vissuti come naturale, quanto rigenerante momento di aggregazione e convivialità, oggi sono diventati fonte di stress proprio per le cadenze frenetiche imposte dal consumismo che detta legge su tempi e modi di adempimento. Con i primi spot pubblicitari, che iniziano già settimane prima, di colpo siamo costretti, nostro malgrado, a 'respirare' con inutile anticipo l'aria natalizia. Ciò che avremmo fatto con più naturalezza da lì a qualche settimana, comincia a insinuarsi tra i nostri pensieri. Può apparire contraddittorio sostenere che i ritmi sono frenetici, quando avremmo tutto il tempo per provvedere. In realtà il problema è che tutti siamo allertati e nello stesso momento, quando, invece, ognuno ha le proprie modalità di adattamento. Che fare? Cerchiamo di ritrovare i nostri personali ritmi e i giusti tempi, allontanandoci per quanto possibile, dal falso richiamo del consumismo a ogni costo. Facciamo regali ad hoc: essi dovrebbero essere il segno della nostra reale attenzione verso chi li riceve; personalizziamoli, dedicando un po' del nostro tempo a riflettere sul loro valore anche simbolico e non su quello commerciale. Quando ci riuniamo con amici e parenti, dedichiamo parte del tempo a raccontare i nostri sentimenti e lasciamo che l'incontro scivoli tranquillo, predisponendoci a tener fuori le nostre preoccupazioni. Teniamo presente, inoltre, che a prescindere dal credo religioso e politico, è provato che dedicare parte del proprio tempo agli altri e in particolare a chi soffre, durante tutto l'anno, è uno dei migliori rimedi contro la depressione. Buone feste a tutti.

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