Dott. Franco Sponziello
Psicologo

Articoli e pubblicazioni - Anno 2017

Altri anni:


Durante le trascorse festività natalizie, sono stato "costretto" da uno dei miei nipoti, a guardare una puntata di una serie televisiva su un canale a pagamento. Costretto, perché di solito guardo poco la Tv, pochissimo le serie televisive infinite e ripetitive e men che meno le pay tv. Be', al di là dei miei gusti personali, devo ammettere che quella puntata mi ha colpito: la serie, Black Mirror (specchio nero), tratta di un futuro, nemmeno tanto lontano, nel quale la tecnologia ha raggiunto livelli talmente avanzati da condizionare profondamente i comportamenti umani. In particolare, nella puntata che ho visto io, si "vive in un mondo in cui tutte le relazioni sociali ed economiche tra le persone dipendono dal proprio punteggio, basato sulle valutazioni date dagli altri a ogni interazione in un grande social network". In questo futuro, tutto si basa ormai sul punteggio (da una a cinque stelle), che ognuno assegna puntando il proprio smartphone verso l'altra persona, chiunque essa sia, anche se incontrata per caso: un amico, un negoziante, un tassista, un impiegato e così via. Ogni individuo conosce il livello degli altri, grazie a due speciali lenti a contatto in 'dotazione'. Insomma, la persona vale ed è considerata quanto più sa aggiudicarsi il favore degli altri. Che dire, idea buona per un film, ma inquietante poiché rivela la tendenza verso cui, già da qualche decennio, siamo indirizzati: quella che definirei robotizzazione relazionale. È un fenomeno diverso dall'automazione nelle fabbriche e, in un futuro sempre più prossimo, dalla presenza dei robot nelle case. In questi ultimi casi, c'è qualcosa di tangibile che, nel bene e nel male, interagisce con noi e di cui, ormai, non possiamo più fare a meno (si pensi alle automazioni per il trasporto aereo e su rotaie, solo per fare due comuni esempi).
L'Uomo Tragico
Heinz Kohut, psicanalista austriaco, definì, coniandone il termine, l'Uomo Tragico quale prodotto della società globalizzata e, come per le reti automatizzate, sempre più complessa e intricata. Egli (l'Uomo Tragico, cioè noi), non potendo più fare affidamento sui sistemi e le convenzioni conosciuti e sulle quali si basavano i simboli di solidità, ha perso i punti fondamentali di riferimento (famiglia e valori etici). I rapporti relazionali sono diventati frammentari, superficiali, discontinui, con l'inevitabile isolamento che ne consegue. Tra gli altri, il disorientamento della propria identità: l'Uomo Tragico non riceve riconoscimenti, né può contare sull'altro, così come risulta quasi impossibile fare qualcosa per l'altro. Il proprio ruolo è messo costantemente in discussione dalla continua sfida per conquistarsi uno spazio, sia esso lavorativo sia, appunto, di relazione. Ecco dunque sorgere la necessità di riempire queste assenze con surrogati che solo in apparenza e momentaneamente appagano i reali bisogni: il consumo di cose, oggetti, sensazioni che sembrano stimolanti e, aggiungerei io, di rapporti interpersonali virtuali. La puntata televisiva di cui sopra, sembrava proprio raffigurare questi scenari attraverso l'estremizzazione di comportamenti ancora relativamente lontani dalla nostra realtà… ma neanche poi tanto. La robotizzazione relazionale si rafforza ogni qualvolta la nostra soglia di critica si abbassa, facendoci preferire l'apparenza alla sostanza, perché è senza dubbio più facile fermarsi al superficiale. Quando siamo portati, senza nemmeno accorgercene, a orientare le nostre preferenze in base alla griffe in quel momento di moda, trascurando chi realmente sia a indossarla, dando per scontato che sia 'ok', solo per il fatto in sé. L'eccessivo peso che diamo all'immagine del nostro corpo (della sua esteriorità, soprattutto), è stato definito da Kohut 'peccato di vanità' in quanto indizio del narcisismo insito nella nostra cultura. E poi, osservando le tantissime persone che ormai vivono incollate al proprio telefonino (teleFA TUTTino…), in cerca di chissà cosa; intente a selezionare chi ha messo "Mi piace" e a chi; che confondono l'amicizia virtuale con quella reale interpretando oscuri presagi e sfide ineluttabili, fraintendendo semplici e ingenue frasi, bè mi sembra che un minimo di autocritica si dovrebbe fare, insieme a un deciso passo indietro (o avanti?), considerando che il rischio concreto è la perdita del contatto con la realtà e con gli Altri. Ci trasformeremo definitivamente in robot, oppure saranno questi ultimi a sostituire in tutto l'uomo? È probabile che tutt'e due le ipotesi siano valide ma, in ogni caso, a me piace ancora pensare che l'unico automa diventato umano, rimarrà Pinocchio… Auguri per un sereno, e più umano, 2017.


Il treno ha un suo fascino unico: consente di leggere, conversare, riflettere, osservare. Proprio durante un rientro a Ostuni, guardavo la città vecchia che si rivela attraverso uno sprazzo di ulivi e terrapieni. Pensavo alla sua straordinaria bellezza e unicità dovute anche all'"isolamento" dal resto della città. La maggior parte dei centri storici è, infatti, inglobata nei rispettivi agglomerati urbani. Statisticamente, dunque, questa potrebbe essere un'imperfezione. Altra anomalia è costituta proprio dalla sua architettura casuale. Eppure sono proprio queste 'imperfezioni' a renderlo magnifico e inimitabile.
La bellezza dell'imperfezione
Il fascino dell'imperfezione (che non si limita agli antichi borghi.), può sembrare un controsenso, abituati come siamo ad apparire belli e perfetti. In realtà, il mito della perfezione è congeniale a una società che sta perdendo valori fondamentali, scacciando da se l'idea della diversità, vera fonte di crescita. Charles Darwin soleva dire che ad affascinarlo non erano le tante meraviglie, bensì le imperfezioni della natura (non siamo attratti, forse, dal quadrifoglio che rappresenta una vera e propria anomala?) E il neo, piccola imperfezione per antonomasia, non è stato nel '700 tanto utilizzato da diventare un vero e proprio linguaggio a seconda di dove veniva disegnato sul viso? Insomma, spesso è l'imperfezione, la qualità che rende unici.
L'uniformità della perfezione
Negli ultimi decenni l'attenzione verso l'aspetto esteriore ha raggiunto livelli davvero impressionanti e spasmodici. Ci si 'rifà' tutto, dalle labbra al naso (… e mi fermo qui), spesso senza alcuna necessità funzionale; e ci si veste apparentemente in modo diverso, ma con l'obbligo dell'omologazione della griffe di turno. L'intento dichiarato è quello di distinguersi, di migliorarsi cercando di raggiungere un certo modello di assoluta unicità. In realtà, si assiste alla parata di un esercito di persone che, nell'illusione di emergere, invece si somigliano ancora di più tra loro. La corsa alla perfezione conduce, però, a trovare nuove presunte imperfezioni: una spirale che alimenta inquietudine e insoddisfazione, quando non crea veri e propri problemi psicologici. L'eccessiva attenzione all'esteriorità spesso è lo specchio di una vita interiore non soddisfacente e di una bassa autostima, perchè è più semplice lavorare sull'apparenza piuttosto che sull'essenza.
L'eccesso della perfezione
La ricerca di questa effimera idea di perfezione, nasconde anche la tendenza a dipendere dal giudizio degli altri e dal proprio, e può degenerare in una vera e propria sindrome che porta a non vedersi mai belli, a non considerarsi all'altezza della situazione, inadeguati: l'atelofobia (dal greco atelés, imperfetto o incompleto) appunto la paura ingiustificata dell'imperfezione che genera ansia e insicurezza per un'errata percezione di sé e di ciò che si fa. Nelle donne in particolare e, a mio parere, con la 'complicità' delle situazioni sociali su descritte, l'atelofobia si manifesta quasi esclusivamente per l'aspetto fisico. Attenzione, non è la pur fastidiosa, quanto inutile, sensazione di non essere bellissime. È, come detto, una reale sindrome fobica che compromette la qualità della vita, con crisi d'ansia, tachicardia, sudorazione, depressione fino al tentato, a volte purtroppo riuscito, suicidio. In questo caso consiglio di non sottovalutare la situazione e rivolgersi a uno specialista. In genere, il suggerimento è di modificare pian piano l'oggetto delle proprie attenzioni cercando di valorizzare o almeno riconsiderare, quelle che, spesso in modo errato, consideriamo imperfezioni. Riflettiamo: le relazioni più appaganti le abbiamo vissute quasi sempre quando abbiamo mostrato la nostra interiorità (imperfezioni comprese). Al contrario, che fatica dover indossare una maschera come fosse sempre Carnevale…


Mi è stato chiesto di esprimere un parere sul tragico episodio accaduto il mese scorso a Lavagna (Ge): una madre denuncia alla Guardia di Finanza il figlio sedicenne perché faceva uso di 'canne'. Durante la perquisizione in casa, il ragazzo si getta dal terzo piano e muore. Mi è difficile entrare nel merito di una simile tragedia, abituato come sono a considerare ogni caso a se stante e ogni individuo unico; a vagliare di persona le innumerevoli variabili che si intrecciano tra di loro. Dunque, credo che si debba stare ai pochi fatti che ci è dato conoscere, proprio per evitare di schierarsi a prescindere (pro o contro chi?), sport nazionale in questi casi…
I dati
Da quanto appreso dalla stampa, il ragazzo era stato adottato all'età di un anno in Colombia. Attualmente i genitori sono separati. I compagni di scuola di Giovanni, questo il nome del povero ragazzo, riferiscono che non era trascurato dalla famiglia ed era attivo e ben inserito nello sport e socialmente. Un quadro dal quale, tutto sommato, è difficile trarre elementi premonitori. Non è dato sapere se c'è stato un motivo scatenante che ha indotto la madre a rivolgersi alla Guardia di Finanza. Chiunque ha il diritto di esprimere la propria opinione, ma in questi casi si sviluppa una sorta di 'accanimento di parte' che spesso prescinde dal minimo approfondimento necessario; una sorta di 'esplosione' del proprio vissuto che in realtà è il trasferimento (proiezione) delle nostre convinzioni e paure: "se mi trovassi nella stessa situazione…".
Ipotesi
Così, c'è chi si è indignato per gli attacchi alla madre e chi, invece, ha inveito contro di lei; chi ha trovato troppo 'freddo' fare un discorso in chiesa sulla moralità dei ragazzi d'oggi e chi sospetta che l'essere una madre adottiva spieghi tante cose… Ritengo quest'ultima congettura, davvero insopportabile poiché sono convinto che l'amore verso i propri figli, non dipenda dal tipo di sangue che circola nelle vene! Inviterei, invece, a soffermarsi su un aspetto: il danno non è stato proporzionale alle attese. Intendo dire che l'iniziativa di rivolgersi alla Guardia di Finanza, se pur irreprensibile da un punto di vista squisitamente legale, sia stata eccessiva rispetto all'oggetto (le 'canne') e soprattutto al soggetto (il povero Giovanni). Probabilmente, come sostenuto da Roberto Saviano, si può ipotizzare che "in una città più grande, dove basta cambiare quartiere per diventare perfetti sconosciuti, si cresca in fondo con la sensazione che non esistano marchi a fuoco che ti rovinano la vita per sempre e che la rovinano a chi ti sta vicino". Per Giovanni, dunque, la convinzione che niente sarebbe stato più come prima: le canne, fino a quel momento considerate trasgressive ma innocue, sarebbero diventate il pretesto per essere emarginato, additato come 'intruso', forse la causa del fallimento del matrimonio dei genitori. Da alcune frasi dette dalla madre al funerale, magari anche per lenire i propri sensi di colpa, si desume che la signora avesse sentore di questo disagio e dell'impossibilità di instaurare un dialogo proficuo con Giovanni: "Le ultime parole sono per te, figlio mio. Perdonami per non essere stata capace di colmare quel vuoto che ti portavi dentro da lontano. Voglio immaginare che lassù ad accoglierti ci sia la tua prima mamma e come in una staffetta vi passiate il testimone affinché il tuo cuore possa essere colmato in un abbraccio che ti riempia per sempre il cuore". Una indiretta ammissione del presunto fallimento educativo, con delega alle autorità terrene (la Guardia di Finanza) e… non (la madre naturale). Una madre comunque combattuta, forse presa dal voler fare bene (anche troppo) con il figlio, dopo il fallimento del proprio matrimonio. Chissà…
Conoscenza
Difficile stabilire quale sarebbe stato il comportamento della madre di Giovanni, se si fosse documentata a sufficienza. Oppure informata lo era, ma col senno di poi… Non mi riferisco solo alla conoscenza che chiunque può acquisire, per esempio su internet e che, in ogni caso, è utile per comprendere meglio la problematica, ma a certe contraddizioni che non rendono certo più semplice il compito dei genitori i quali, ne sono convinto, tranne in rari casi, agiscono sempre in buona fede. L'Organizzazione Mondiale della Sanità distingue le droghe tra illegali e legali. Ebbene, in queste ultime inserisce alcool, nicotina e caffeina (sì, anche il caffè provoca dipendenza…). Tra le illecite, hashish e marijuana. Eppure siamo molto più indulgenti verso l'uso di alcol e di fumo di sigaretta (che provocano dipendenza fisica): non etichettiamo come 'drogato' l'amico, il conoscente o il familiare che ne fa uso. Dipendente sì. Anzi, 'viziato'; eppure la marijuana, che non provoca dipendenza fisica, è anche considerata terapeutica e ormai disponibile come gli altri farmaci. Confusione assoluta davanti alla quale la risposta è spesso la chiusura totale e il ricorso a metodi drastici quanto infantili, che ricordano un po' le tre scimmiette che non vedono, non parlano e non sentono.
Considerazioni
È davvero possibile eliminare il problema droga e dipendenza, attraverso azioni di repressione 'fai da te'? A parte la constatazione che esistono tappe intermedie (dialogo e personale specializzato), la pratica quotidiana in tanti decenni, conferma che non è assolutamente efficace il ricorso al 'pugno di ferro' solo nei riguardi dei consumatori delle sostanze. L'inefficacia dell'attuale proibizionismo è sotto gli occhi di tutti: crea un paradossale interesse trasgressivo e lascia il mercato di tutte le droghe, 'pesanti' e 'leggere' ma comunque illegali, nelle mani delle potentissime lobbies che ne controllano la manipolazione anche genetica. Va da sé che si spacci qualsiasi tipo di droga, con il rischio concreto che il consumatore passi dalla 'canna' a sostanze ben più micidiali. Nei riguardi di queste lobbies servirebbe una seria politica di repressione. Fino a quando non si sottrarrà a questo commercio la marijuana, legalizzandola (non liberalizzandola, si badi bene), la situazione non potrà che peggiorare. È il male minore, vista l'altissima diffusione. Qualcuno potrà obiettare che alcol e sigarette sono legali, eppure mietono migliaia di morti ogni anno (molto più di qualsiasi tipo di droga). Vero, ma si trascura un particolare fondamentale: sigarette e alcol oltre che legali sono liberalizzati, si possono acquistare davvero dappertutto e sono pubblicizzati in tutte le forme possibili; le sigarette sono solo da poco oggetto di una giusta campagna deterrente, mentre fino a pochi anni addietro, fumare era propagandato quale sinonimo di emancipazione, maturità e virilità (purtroppo, questa la reclamizzazione è continuata strisciante nella Formula 1, nelle agenzie di viaggi, nelle linee di abbigliamento e così via…). L'alcol poi, è ancora uno dei prodotti più pubblicizzati e anch'esso è associato a situazioni idilliache, sensuali, rigeneranti, perfino eroiche (Montenegro docet!).
Il topo infelice
Lo psicologo canadese Bruce Alexander, nel 1970 condusse un importante esperimento: creò due stanzette; nella prima, volutamente disadorna, vi pose una sola cavia che aveva a disposizione la sostanza stupefacente (morfina). Dopo poco, il ratto si disinteressò al resto indirizzando tutte le attenzioni alla droga. Il secondo ambiente, Rat Park, conteneva cibi, giochi e i vari topi erano lasciati liberi di socializzare tra loro. Anche in questa celletta era disponibile la morfina che poteva essere assunta a piacimento. Il risultato fu che il topo lasciato da solo sviluppò una totale dipendenza individuando nella morfina l'unica 'via di fuga' efficace. Le altre cavie, dopo un interesse iniziale per la morfina, col tempo se l'abbandonarono e solo alcune di loro tornarono sporadicamente al flacone che la conteneva. Insomma, la dipendenza è direttamente proporzionale alla qualità dell'ambiente in cui si vive: più è vario, interessante e stimolante, meno probabilità di essere dipendenti ci saranno. L'esperimento del Rat Park, secondo il giornalista inglese Johann Hari, è confermato dalla guerra del Vietnam durante la quale il 20% dei soldati americani, diventarono dipendenti da eroina. Migliaia di persone che, tornate a casa, avrebbero costituito un serio problema. Invece, nulla di tutto questo: solo il 5%, parte del quale faceva già uso di eroina prima del Vietnam, continuò a drogarsi. Sembrerebbe la scoperta dell'acqua calda: metti un individuo nelle condizioni ottimali e starà bene. La domanda giusta è "perché non siamo messi nelle condizioni ideali o, almeno, adeguate?". In realtà è il concetto stesso di dipendenza a dover essere rivisto; forse dovremmo accettare la constatazione di essere un po' tutti più o meno dipendenti da qualcosa o qualcuno: dalle nostre paure, dai nostri obiettivi disillusi, da chi amiamo o crediamo di amare, dalle quotidiane frustrazioni di non essere all'altezza, del 'contesto' che contribuisce a creare dipendenza, dall'utilizzo acritico del social, solo per fare qualche esempio. Rendersi conto delle piccole e grandi dipendenze quotidiane, è il primo passo per dare significato ai veri valori della vita. Purtroppo alcune abitudini sono ormai radicate e difficilmente potranno essere eliminate completamente. L'autoritarismo non è certo la soluzione migliore. Autorevolezza, cioè esempio, sì! Non so se la madre di Giovanni si sarebbe rivolta alle forze dell'ordine, se avesse scoperto il figlio a fumare o a bere. Non credo. In ogni caso si sarebbe sentita rispondere "sono legali…".


Insolito per la mia età, ma una delle mie più grandi passioni è l'informatica. Ben inteso, non sono nulla di più di un amatore che, affascinato dalla similitudine con il cervello, volle avvicinarsi a questo nuovo mondo nell'ormai lontano 1983 (qualcuno ricorderà l'Amiga). Vien da sé che qualche volta mi capita di dover spiegare ad amici, come funziona un computer. Dico loro che è bene immaginarlo come una sorta di archivio con schedari che contengono a loro volta altre cartelle piene di documenti. Una sorta di matrioska dalla quale è possibile attingere le informazioni archiviate. Ma noi come conserviamo le cose nella nostra memoria? Sono tutte ordinate o messe a casaccio? In parte le sentiamo ordinate; a volte, però, dobbiamo sforzarci di estrarre qualcosa che sta in qualche luogo nascosto e non sappiamo dove; a volte le memorie arrivano da sole, inaspettatamente. Se abbiamo nella testa una specie di biblioteca, come fanno i libri a non sovrapporsi gli uni con gli altri? A volte, in realtà si sovrappongono e si confondono tra loro. Più o meno tutti abbiamo sperimentato il cosiddetto fenomeno del Déjà vu e del Déjà vecu (già visto e già vissuto): improvvisamente si ha la sensazione di aver già vissuto o visto una certa esperienza come se non fosse una situazione nuova, si prova una esperienza familiare, nota ("in questo posto ci sono già stato, questa situazione lo già sperimentata"). Alcuni pensano a premonizioni o a istanze di vite passate. Per Freud nulla di tutto ciò, ma fantasie radicate nell'inconscio. Credere che certe situazioni insolite vadano in qualche modo 'oltre' noi stessi e la nostra percezione di esse, ci spaventa e nello stesso tempo ci attrae e ci affascina: "la nostra storia, non può finire con il crudo presente. Ci deve essere qualcosa-qualcuno che in qualche modo provveda e soprintenda alle nostre azioni, ai nostri pensieri". Al di là delle proprie convinzioni, quest'aspettativa tipicamente umana, ricorda in certo qual modo il nostro atteggiamento da bambini: "papà e mamma mi proteggono. Ci penseranno loro...". Molti Déjà vu e Déjà vecu, sono, infatti, rielaborazioni di immagini e situazioni vissuti nella prima infanzia, ma possono essere artificialmente, per così dire, indotti. Negli anni Cinquanta, il neurologo Wilder Penfield, dimostrò che era possibile indurre episodi di déjà-vu stimolando elettricamente il cervello di pazienti. Nessuno ci aveva mai pensato. Wilder Penfield, trovò qualcosa di straordinario: i pazienti avevano delle sensazioni o delle reazioni fisiche quando gli veniva stimolata la corteccia cerebrale. Incredibile! Alcuni avevano dei ricordi, altri percepivano delle musiche, altri ancora muovevano un arto e così via. Tali reazioni erano molto ripetitive, come se gli si stesse pigiando, nel cervello, un pulsante programmato per fare sempre la stessa cosa. Ma i ricordi non avevano nessun ordine prestabilito. Le scoperte di Penfield ci raccontano le memorie stipate nel cervello come in uno scantinato, ma noi non siamo fatti così. Noi ci sentiamo coerenti con il nostro passato. Ciò che ci da coerenza e senso di identità è la memoria autobiografica, cioè quella che rende nostre, e solo nostre, le esperienze della vita. Quando siamo nati e da chi, gli eventi critici, l'esame di stato, le preferenze e le avversioni, il nostro nome e così via. Il Sé autobiografico è un concetto astratto della nostra vita mentale e che possiamo chiamare Io. È la nostra storia personale, forgiata dall'educazione ricevuta in famiglia e dalle influenze esterne della società in cui viviamo. La nostra storia è il pensiero, quell'attività mentale che permette di filtrare, elaborandoli, gli stimoli, le informazioni e tutti i dati che provengono dall'esterno. Il pensiero è, appunto, la capacità prettamente umana, di mettere in relazione le nuove informazioni, con la nostra cultura, istruzione, educazione e così via. Questa attività è sempre vigile e presente, proprio per essere, per così dire, pronti a qualsiasi novità, assetato com'è, il nostro... cervello di creare nuove entità di esperienza e di pensiero. Se si conosce una persona per la prima volta, ci si presenta, ci si scambiano i nomi, e quell'esperienza rimarrà nella nostra memoria per un tot di tempo, la cui durata dipende a sua volta da tanti altri fattori: ci ricorda qualcuno, ha una certa gestualità, ha un particolare anche fisico che ci colpisce. Insomma, più sono gli elementi di novità, più dati in nostro possesso incrociamo con la novità stessa e, probabilmente, più tempo impieghiamo, più quell'esperienza, quel pensiero, rimarrà nella nostra memoria. In sostanza, incrociamo le innumerevoli nuove informazioni quotidiane, con le conoscenze che già possediamo anche al fine di risolvere problemi e prendere decisioni. Il pensiero è ciò che guida il nostro agire intenzionale. Abbiamo la possibilità di far tesoro delle esperienze, anche negative, passate. Spesso, invece, ci fermiamo al momento che stiamo vivendo, quasi qualcuno pigi il pulsante di cui sopra, attenuando il nostro potere di critica che rappresenta il discrimine dal più evoluto degli animali e dal più elaborato dei computer. Usiamolo!


Esortato da amici e conoscenti, dopo anni di 'resistenza' ardua e decisa, nel 2015 capitolai e mi iscrissi a Facebook. Per chi non lo conoscesse, è un cosiddetto Social, una sorta di 'piazza' virtuale, nella quale ognuno può fare nuove 'amicizie', anch'esse più o meno virtuali, e scrivere ciò che gli passa per la mente, pubblicare foto, video e quant'altro. Ormai Facebook è molto frequentato e vi si può trovare tutto e il contrario di tutto. Per esempio, si può essere contattati - o contattare - da amici e conoscenti che non si vedevano più da decenni, seguire e scrivere pareri e interventi di ottimo livello ma, ahimè, è ancora più frequente constatare la presenza di idiozie di una tale perniciosa inconsistenza, da vergognarsi di essere lì a leggerle. Ed è a questo punto che non si può non essere d'accordo con Umberto Eco quando disse «I social permettono alle persone di restare in contatto tra loro, ma danno anche diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano al bar dopo un bicchiere di vino e ora hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel». Un po' radical chic? Un tantino snob? Un pizzico di presunzione dottorale? Non credo, poiché l'imbecillità cui si riferiva Eco, è quella contraddistinta dall'assenza di critica e autocritica, non già dal titolo di studio. Infatti, nella stessa sede (Università di Torino - 2015) egli aggiunse «Il grande problema della scuola oggi è insegnare ai ragazzi come filtrare le informazioni di Internet. Anche i professori sono neofiti di fronte a questo strumento» e anche i genitori, aggiungo io. Al di là delle asserzioni di Eco, un noto giusfilosofo (studioso di filosofia e diritto) e magistrato, Otello Lupacchini, ha così scritto «Bisogna stare attenti agli indizi, perché gli imbecilli sono pericolosi, molto di più dei mascalzoni, perché se non ci fossero tanti imbecilli in giro non sarebbe così facile trovare un furbone che li seduce. Non sempre, per individuarli, basta l'aspetto fisico, poiché spesso esibiscono facce convincenti, fronti inutilmente spaziose, tratti d'eleganza, magari posticcia. […] se (il furbonre, n.d.r.) afferma che il liberalismo è di sinistra; se parla della famiglia e della religione, della scuola e dei bambini, tirando fuori i "valori"; se dice che Roberto Benigni ha avvicinato il pubblico alla Divina commedia, o che Luciano Pavarotti i giovani alla lirica; se pensa di dissimulare una patente mutazione genetica definendola un mero ribilanciamento; beh, questi sono indizi gravi d'imbecillità, ma ancora insufficienti, da soli, per una definizione della categoria, generale e dettagliata a un tempo. Occorre, dunque, rivolgere altrove lo sguardo» … guardando, appunto, a Internet e ai Social in particolare, poiché è proprio qui che si concentra l'attenzione dei furbi e degli 'imbecilli', termine riferito a "chi, nelle parole e negli atti, si mostra poco assennato o si comporta scioccamente, senza garbo, da ignorante" (Treccani). Ma anche a chi, direi, dà per scontata la veridicità di tutto ciò che ha una fonte 'taroccata' da testata giornalistica piuttosto che da Ente pubblico o da sedicenti medici, nutrizionisti e via dicendo.
Il meccanismo
Facebook ospita inserzioni a pagamento. Sembrano comuni post di altri utenti, ma cliccandoci su, si entra in pagine web che, a loro volta, contengono pubblicità. Il nostro mouse o il nostro dito eseguono l'ordine impartito dal piccolo esploratore nascosto in noi e clicca su tutto o quasi. Per avere più visibilità, molti furbetti si sono inventati giornali, rubriche e così via, con nomi analoghi alle vere testate. Un esempio per tutti, ilfattoquodaino.it (anche nelle varianti ilfatoquodiano.it, ilmattoquodiano.it, ecc.). Una lettera fa la differenza con la vera testata on line - ilfattoquotidIano.it - ma il nostro cervello tende a interpretare al meglio la scrittura tralasciando i piccoli errori, soprattutto quando manca quel minimo di attenzione che farebbe la differenza. Si dà per scontata la veridicità della notizia poiché la fonte è, anzi sembra, affidabile. Così, ci si fa portavoce della notizia in una sorta di illusione della novità, dell'essere il primo a pubblicarla, in una full immersion nelle news che fa tanto in nell'era dell'always connected, bla bla bla, "E ho detto tutto", come diceva Peppino De Filippo nel noto film con Totò…
Le bufale
Bufale
Quando la presunta ironia si limita a:
"Due italiani rapinano una gioielleria in Romania: Salvini ricoverato d'urgenza" o "Astronauta confessa: siamo stati veramente sulla luna, ma è piatta" che sono 'notizie' volutamente artefatte per suscitare ilarità, suppongo che anche il più ottuso dei creduloni non ci caschi. Un po' meno evidente è la presunta ironia in "Allevi suona l'organo in chiesa e la statua di Gesù comincia a sanguinare dalle orecchie" oppure "Roma. Abbatte un muro in garage e trova una galleria del tempo di Giulio Cesare"; beh, comunque peccati veniali.
Le false notizie (fake news)

Il problema sorge quando le cosiddette bufale sono utilizzate per veicolare notizie con lo scopo di diffamare, alludere, disinformare e allarmare proponendo scoop sensazionalistici o instillando il semplice, ma pernicioso, sospetto. Per inciso, questi espedienti sono sempre esistiti anche in passato, sotto forma di 'propaganda', più o meno di regime. Con l'avvento dei Social, fenomeno ed effetti si sono moltiplicati esponenzialmente. Alcuni esempi di fake news che fanno disinformazione e creano allarmismo, sempre più presenti su Facebook e altrove:
- salute
"Vaccino anti meningite ritirato, quello che hanno trovato all'interno ha sconvolto tutti". Quelle sulla salute sono, forse, le più pericolose. In particolare per i vaccini, senza alcuno scrupolo si mettono a repentaglio migliaia di vite umane. Per esempio, è stato calcolato che nel 2016 almeno 20.000 anziani sono deceduti perché non hanno fatto il vaccino antinfluenzale. Il 'panico' si diffonde a macchia d'olio e coinvolge anche altri tipi di vaccinazioni che potrebbero salvare tanti bambini. A tal proposito è bene ricordare che in Italia, anche per l'incertezza economica del futuro, le donne partoriscono in avanti con gli anni e hanno di solito un solo figlio. Probabilmente anche per questo sono particolarmente sensibili ai pericoli paventati, rischiando realmente proprio gli esiti che temevano;
- razzismo, xenofobia e… salute:
"Emergenza immigrati in Sicilia, sospetto caso di vaiolo: niente più agenti, rischiano troppo" e "Clandestini del Mali importano la bilharziosi in Italia, una malattia sconosciuta nel nostro paese" In questi casi, molto frequenti, si alimenta il razzismo con la paura del contagio di malattie esotiche. Una buona ragione per costruire muri… facendo leva sulle paure (infondate, come vedremo) dell''estraneo', del 'diverso', viste anche notizie come "Ucciso a colpi di cric da 9 albanesi, poi trascinato sull'asfalto come un trofeo. La fine di un italiano". Di esempi ce ne sarebbero, purtroppo, davvero tanti. Uno degli ultimi riguarda la Presidente della Camera Laura Boldrini: "Questa è Luciana Boldrini, sorella minore del Presidente della Camera Laura Boldrini, e gestisce 340 cooperative che si occupano di assistenza agli immigrati ma nessuno ne parla ovviamente". Una vera e propria calunnia di una cattiveria inaudita, corredata da una foto dell'attrice Krysten Ritter, vagamente somigliante a Laura Boldrini). Lucia (e non Luciana) Boldrini è purtroppo deceduta per malattia alcuni anni fa!
Boldrini
Le motivazioni
Cosa spinge a creare bufale e fake news? Beh, per buona parte, come s'è detto, il guadagno facile. Per altri è l'appartenenza a gruppi politicamente orientati, come nel caso delle false notizie sugli immigrati o sul caso 'Boldrini'. Proprio il ventotto dello scorso aprile, l'Ansa ha pubblicato la seguente notizia in cui Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebbok, ammette che «tentativi di propaganda e manipolazione dell'informazione, apparentemente orchestrati da governi o soggetti organizzati, sfruttando le 'fake news' ma anche profili falsi che puntano a influenzare l'opinione pubblica». Aggiungerei ai 'soggetti' menzionati, anche certo fondamentalismo religioso di casa nostra, peraltro deprecato dallo stesso Papa Francesco. Si crea il clima di paura che viene alimentato finché la sua percezione aumenta alterando l'equilibrio tra ragione e irrazionalità. Si arriva, così, a prendere per vere notizie senza alcun fondamento di verità. La creazione dello stato di 'allerta continua', è amplificata, più o meno in buona fede, da certi mezzi d'informazione, Tv in testa, che dedicano troppo tempo alla cronaca nera. Infatti, in certi telegiornali è ai primi posti per percentuale di tempo dedicato a delitti, furti, rapine e quant'altro riguardi il crimine. Per dare un'idea, l'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza* ha pubblicato i dati relativi al 2016 che "conferma le differenze editoriali nel presentare quantitativamente (e in parte anche qualitativamente) la criminalità. Si evidenziano infatti tre coppie di telegiornali per lo spazio dedicato ai reati. Studio Aperto e Tg4, che hanno spesso lo stesso servizio ripetuto uguale o con piccole modifiche, in cui la pagina di cronaca nera è nettamente il primo tema dell'agenda. Tg1 e Tg5, come già emerso negli anni precedenti, si "specchiano" nelle strategie di cattura di target simili. Infine Tg3 e Tg2 che hanno in media meno di una notizia al giorno di criminalità, un'attenzione quindi diluita e decisamente meno ansiogena delle altre testate giornalistiche. Gli omicidi sono, come sempre negli anni analizzati, i reati nettamente più trattati: quasi la metà dei servizi si occupa sia dei casi più eclatanti sia dei singoli eventi che si esauriscono nello spazio di un'edizione. Il che conferma una scelta dell'informazione italiana di "prendere le distanze dalla realtà", dando visibilità a crimini, come gli omicidi per esempio, che, secondo le statistiche Istat, sono in costante calo." E già, i dati sulla criminalità, in primis gli omicidi, ma anche tutte altre tipologie di delitti, con alcune eccezioni, sono in costante e netta diminuzione. Se si considerano, poi, le condizioni mai state così precarie delle forze dell'ordine, i dati sono ancor più significativi e sorprendenti.
Statistiche calo omicidi
Se si chiede ai responsabili delle testate, come mai tanto tempo è dedicato alla cronaca nera, rispondono che sono gli ascoltatori a richiederlo: se ne accorgono perché l'audience sale in corrispondenza di notizie 'scabrose'. In realtà, si fa leva sull'innata 'empatia' per il dolore, quella che un tempo si limitava a comunicarsi verbalmente chi stesse male o fosse deceduto o a leggerlo sulla pagina dedicata dal quotidiano; lo stesso meccanismo che ci fa accorrere quando c'è un incidente, stradale o di altro tipo: la proiezione del dolore degli altri, 'esorcizza' in qualche modo le nostre paure della sofferenza e della morte. Quando, invece, la quantità di informazioni è troppa, la paura aumenta e rimane stazionaria su livelli molto alti. Una sorta di autostrada per l'adrenalina e l'ansia strisciante. Non c'è alcun reale bisogno di insistere quotidianamente con la "Tv del dolore", se non quello di assoggettare quanta più gente possibile e ricavarne utili pubblicitari.
Segue.


La percezione della sicurezza
Ma noi percepiamo comunque come incombente il pericolo. Avviene per diverse cause: una è, come abbiamo visto, il continuo martellamento di alcuni media su fatti sì tragici, ma che non richiederebbero l'attenzione morbosa che invece hanno. Non si tratta di nascondere la testa nella sabbia, quanto di ristabilire il giusto equilibrio tra dati reali e informazione che, se distorto, provoca il senso di disagio, di guardia continua, di esposizione quotidiana che ci fa sentire indifesi da un lato e 'giustizieri' per reazione emotiva, dall'altro. Accade così, che le fake news fanno incredibilmente presa sui Social in particolare, laddove chiunque può sfogare l'indignazione rabbiosa (l'aggressività repressa), trovando conferma in notizie che autoalimentano l'aggressività e vengono rilanciate fino a diventare vere e proprie catene di sant'Antonio 'virali'. Il sentimento d'insicurezza, appare placato nel momento in cui abbiamo fatto il 'nostro dovere' partecipando, almeno virtualmente, alla battaglia contro… già, contro chi?
Napalm51
Enrico Mentana, ha coniato un neologismo che ritengo azzeccatissimo (molto più del melenso 'petaloso'): webete, il fruitore imbecille dei Social e della Rete in generale. Il bravissimo Maurizio Crozza, a sua volta, ha aggiunto Napalm51 al suo già ampio repertorio di personaggi. Napalm51, webete per eccellenza, rappresenta grottescamente il profilo dei tanti che utilizzano uno pseudonimo per nascondersi e poter sferrare attacchi a destra e a manca. Ignorante, ottuso, cinico e, inevitabilmente, codardo, si maschera con un altisonante nickname, per fare il giustiziere virtuale di presunte malefatte, che si rivelano sempre enormi equivoci. Ebbene, un po' di Napalm51 è dentro alcuni di noi e si rivela con quel fastidioso allarme continuo, confuso con l'intuito e che fa sospettare del 'diverso' e di macchinazioni ai propri danni. Insomma, paranoia strisciante che trabocca in Internet, dove 'finalmente' si ha la sospirata visibilità negata altrove (probabilmente anche nella vita reale). Questo tipo di personalità è il migliore (o peggiore…) veicolo di diffusione delle notizie false.
Teniamo a bada il nostro ditino
Non so se le fake news scompariranno un giorno. Spero di sì. Qualcosa, però, si può fare dalla parte di chi le subisce, a iniziare dai bambini. Essi sono, infatti, i cosiddetti "nativi digitali", cioè nati nell'era di Internet. Per loro è normale interagire con Pc, tablet e soprattutto smartphone. Fanno parte della "cittadinanza virtuale" e, come in tutte le comunità, si devono educare sin da piccoli alle regole, così come gli si insegna a leggere e a scrive, a lavarsi i denti, ecc. Non credo serva vietare l'uso dei delle nuove tecnologie: la trasgressione cresce con la privazione. Ottimizzarne l'uso sì, e di pari passo con l'età e con le regole di cui sopra. Purtroppo, siamo noi adulti a non essere abbastanza consapevoli del 'virtuale' e spesso evitiamo, anche con durezza, il confronto con i ragazzi, proprio perché 'ineducati' a Internet. Alcune accortezze** per difenderci dalle notizie false:
- la regola più importante. Pensate prima di condividere. Chi scrive bufale conta proprio sull'impulso degli utenti. Spesso i titoli causano rabbia e indignazione, sono studiati per questo, per fare leva sulla pancia di chi legge. È importante non fare il gioco dei produttori di bufale;
- non fermarsi alle apparenze. Spesso ci si sofferma solo al titolo-bomba, che si condivide immediatamente. Meglio però leggere tutto l'articolo. A volte ci si accorge che il testo non ha nulla a che fare con il titolo o che la storia è chiaramente falsa perché non esistono prove a sostenerla;
- controllare altre fonti. Se vedete una storia che vi sembra incredibile o scioccante, meglio controllare se altre fonti accreditate la riportano. Ispezionate i siti dei giornali noti e se non c'è traccia del cosiddetto scoop cominciate a insospettirvi;
- chi scrive? Fate una piccola verifica sul nome dell'autore dell'articolo. Ha firmato altri pezzi? Ha un profilo Twitter o Facebook o LinkedIn? Se non trovate nulla è probabile che si tratti di uno pseudonimo e quindi, spesso, di un articolo non veritiero;
- la data è importante. Controllate quando il fatto narrato è davvero accaduto, magari con una veloce ricerca online. A volte si spacciano per nuove notizie vecchie che, in un contesto diverso, assumono tutto un altro significato. Infine, fare una ricerca su Google scrivendo 'bufala' dopo il titolo della notizia. Esistono alcuni siti su cui sono riportate le varie bufale e sui quali si po' consultare una 'lista nera' dei siti 'tarocchi'. Buona e tranquilla navigazione a tutti.
*Fonte: www.demos.it/ - Seguire i link: Le indagini europee → Rapporto sulla sicurezza e l'insicurezza sociale in Italia e in Europa (28 febbraio 2017). **Fonte: Melissa Zimdars, professoressa di Comunicazione e Media al Merrimack College (Massachusetts).


Le parole che non ti ho detto...
Dedicato al mio amico fraterno Ferdinando e alla sua amata Maria Dolores
Immaginiamo di camminare su una spiaggia e di notare una bottiglia che le onde pigre di una bella giornata, sembrano indecise se lasciare a riva o riportarsela con loro, chissà dove. Ci avviciniamo incuriositi e vediamo che c'è un foglio nella bottiglia. Una mappa del tesoro? Un messaggio da un'isola deserta, lasciato da un naufrago? Il tappo si svita facilmente e il biglietto non sembra consunto ed è leggibile. Contiene frasi d'amore scritte da un uomo alla sua compagna di vita che, evidentemente, non c'è più: "Mia adorata, mi manchi, amore, come sempre, ma oggi è più dura del solito, perché il mare ha cantato per me, e la canzone era quella della nostra vita insieme." e ancora "Sono quì per imparare da te e ricevere in cambio il tuo amore. Sono qui perché non c'è nessun altro luogo in cui vorrei essere. Ma poi, come al solito, mentre siamo vicini incomincia a levarsí la nebbia. Dapprima è una bruma lontana, che sale dall'orizzonte, e io sono sempre più impaurito a mano a mano che si avvicina." In realtà è uno stralcio tratto dal famoso romanzo di Nicholas Sparkes Le parole che non ti ho detto, del 1998 da cui, l'anno successivo, fu tratto l'omonimo film per la regia di Luis Mandoki e interpretato da Kevin Costner e Robin Wright.
Il lutto
La perdita di un parente o un caro amico, è sempre un evento estremamente traumatico che tutti, prima o poi, sperimentiamo. Mi rendo conto che fare una 'scala' della sofferenza, può apparire artificioso, tuttavia esistono differenti 'gradi' di dolore che dipendono da svariati fattori: l'età di chi muore, le sue condizioni di salute, anche il suo carattere, e così via. Se poi il decesso avviene all'improvviso, senza alcuna avvisaglia, il dolore è insostenibile. Così, quando ci lascia una persona amata, il dolore è direttamente proporzionale all'intensità del nostro affetto, del legame che ci univa: qualcosa muore anche in noi, sembra andarsene per sempre con chi non c'è più. È un po' come cedere qualcosa di noi stessi, nell'illusione di ricomporre, di continuare in qualche modo lo stesso rapporto che esisteva, di riportare, insomma, le lancette dell'orologio a poco prima del decesso. Niente e nessuno, in quei momenti, può convincerci che il dolore fa parte della vita, così come la felicità.
L'elaborazione del lutto
Di solito il processo di elaborazione della perdita, si suddivide in cinque fasi che possono variare per durata e intensità, da persona a persona:
1 - Negazione
In questa fase il rifiuto rappresenta il naturale meccanismo di difesa per arginare la sofferenza straziante: "Non è possibile… non sta accadendo veramente".
2 - Rabbia
Poi, la rabbia per la morte giudicata ingiusta. Questo momento può essere molto problematico, poiché frustrazione e rabbia appaiono incontenibili. È la fase in cui si cerca aiuto o, peggio, ci si chiude in se stessi: "Non è giusto, cos'avrò commesso per meritarmi tutto questo?".
3 - Patteggiamento
Con questa fase, sembra iniziare il processo di 'normalizzazione'. Si comincia ad accettare gradualmente, pur tra alti e bassi, l'irreversibilità della perdita. Si fa strada la naturale resilienza, la capacità insita in tutti noi di affrontare traumi e difficoltà. Nascono le ipotesi per riprendere in mano la propria esistenza e si ponderano le risorse su cui fare affidamento.: "Superare questo momento mi renderà più forte".
4 - Depressione
Nonostante il termine, la fase della depressione è il proseguimento nella strada della presa di coscienza della realtà, della perdita: si inizia a constatare tutto quello che non si può più fare insieme al proprio caro, alimentando il coinvolgimento e la sofferenza. Non sono rari in questa fase dimagrimento o aumento del peso, difficoltà di concentrazione, mal di testa, irascibilità, sonnolenza o insonnia, tendenza all'isolamento: "La mia vita è un inferno, non vedo una via d'uscita".
5 - Accettazione
Possono ancora alternarsi momenti bui (rabbia e depressione, ma di intensità molto minore) a sprazzi di relativa tranquillità in quest'ultima fase che conclude il ciclo di naturale elaborazione del lutto. Siamo pronti ad accettare la scomparsa e a darle un senso, soprattutto se abbiamo altre persone care cui badare o che si prendono cura di noi: "Purtroppo è andata così. Ora devo andare avanti".
La schematicità delle fasi brevemente descritte, apparentemente non assegna il giusto valore alle varie situazioni che cambiano da persona a persona. Ma in tutti noi esiste il germe della vita, della sopravvivenza e della speranza, che sono il vero motore dell'esistenza. In qualunque posto noi crediamo sia chi ci ha lasciato, pensiamo alle parole che gli abbiamo detto, perché sono sicuramente quelle più significative. Quelle che non abbiamo proposto, probabilmente non servivano o erano implicite nel rapporto stesso, altrimenti le avremmo dette.
Il libro di Nicholas Sparkes si chiude con un'esortazione alla speranza:
"Questo non è un addio, mio amato, ma un ringraziamento. Grazie di essere venuto nella mia vita e dí avermi dato gioia, grazie di avermi amata e di avere accettato in cambio il mio amore. Grazie dei ricordí che custodirò per sempre nel mio cuore. Ma soprattutto grazie per avermi mostrato che verrà un tempo in cui sarò infine capace di lasciarti andare".


Basta un click?
A volte i ricordi tornano alla mente senza un apparente e specifico motivo. Li reputiamo 'casuali' e non ci soffermiamo più di tanto a comprenderne l'origine e la connessione con ciò che ci sta accadendo nel momento in cui arrivano. Così, giorni addietro, appena arrivato a casa di amici, sono affiorate immagini di quand'ero un ragazzino. In particolare, di un 'carrettino' di legno con rotelle e di come scorrazzavo - pericolosamente, col senno di poi… - facendo a gara con altri amichetti anch'essi equipaggiati di bolidi «fai da te». Infatti, ci si costruiva questi antenati dei monopattini con un'asse di legno, due 'semiassi' con due cuscinetti d'acciaio ciascuno, reperiti gratuitamente presso officine di meccanici che sbuffavano quando ci vedevano. L'asse posteriore fisso, quello anteriore con un bullone al centro per permettere di 'sterzare'. Già, nel ricordo c'erano tutti questi vividi dettagli, ma perché erano tornati proprio in quel momento? Ricordo che guardavo il nipotino di questi miei amici, intento a pigiare su uno smartphone, per ora finto. La sua cameretta era colma di giocattoli: peluche di ogni tipo, vari animaletti parlanti, tricicli, automobiline a pedali ed elettriche e via dicendo. E sì, ogni regalo dopo un temporaneo interesse, va ad arricchire quello che ormai sembra un piccolo negozio di giocattoli e si sa, alla lunga anche i proprietari di un qualsiasi esercizio commerciale, si assuefanno ai prodotti che vedono ogni giorno.
Il feedback
A solo scopo esemplificativo, il meccanismo è grosso modo il seguente: si fa un regalo al bambino che naturalmente gioisce. Il genitore, a sua volta, è entusiasta per la 'conferma' della validità del gesto. Il bambino, dopo un po' non trova più interesse e il genitore torna a compensare questo 'vuoto', con un altro regalo. Il bambino impara che l'oggetto ha un valore relativo e che può benissimo tralasciarlo, poiché ne avrà subito un altro. E così via, in un susseguirsi di convalide della - falsa - positività di atti formali che, a volte, sono di più facile attuazione e non richiedono altro sforzo che il gesto in sé.
Non gli manca niente!
Sono le parole magiche che, spesso, mettono in pace la nostra coscienza. In tempi passati, forse aveva una qualche ragione d'essere, giustificata dalle gravi condizioni economiche in cui versavano tantissimi italiani, specie al Sud: quando si patisce la fame, la materialità diventa il criterio fondamentale delle scelte prioritarie di vita. Oggi, la materialità sembra abbia il sopravvento sui Valori, prescindere dalla necessità economica: "il lavoro", "il tempo a disposizione", "torno a casa stanco" e così via, possono considerarsi ottime ragioni per confondere la quantità con la qualità del tempo e dei contenuti che dedichiamo ai ragazzi, ma i dati confermano che, purtroppo, possono sorgere seri problemi. Prendiamo, per esempio, la Tv e, meglio (o peggio?) ancora Internet. Senza alcuna intenzione di criminalizzare la Rete, va detto che l'utilizzo di computer e, soprattutto, smartphone rappresenta uno dei peggiori modi di «non far mancare nulla» ai ragazzi, sin da piccoli.
I dati
Le cifre comunicate il 30/01/2017 dall'Osservatorio Nazionale Adolescenza, non sono molto confortanti: 3 adolescenti su 10 hanno avuto modo di utilizzare uno smartphone direttamente nella primissima infanzia, già a partire da 1 anno e mezzo / 2, con la possibilità anche di accedere liberamente ad internet e alle applicazioni presenti nel telefono. Il genitore si sente tranquillo se il figlio utilizza il proprio cellulare pensando che non usi tutte le sue funzioni o vada su internet dimenticandosi che è tutto collegato alla rete, anche le chat. Con il trascorrere degli anni e l'evolversi della tecnologia si abbassa quindi vertiginosamente l'età di utilizzo. Tra i ragazzi della fascia tra gli 11 e i 13 anni, infatti, l'età media è scesa di un anno sia per quanto riguarda l'uso del primo cellulare, l'accesso a internet e l'apertura del primo profilo social, che si aggira intorno ai 9 anni. Il 95% degli adolescenti ha almeno un profilo sui social network, contro il 77% dei preadolescenti. Il primo è stato aperto intorno ai 12 anni e la maggior parte di loro arriva a gestire in parallelo 5-6 profili, insieme a 2-3 app di messaggistica istantanea. Il 69% ha un profilo su Facebook, il 67% Instagram, il 66% YouTube […]. Il fatto di avere una serie di applicazioni social sconosciute ai genitori gli permette di essere meno controllati e più sicuri di poter anche osare, favorendo comportamenti come il sexting, cyberbullismo e diffusione di materiale privato in rete. Uno dei dati più allarmanti è che il 14% degli adolescenti ha anche un profilo finto, che nessuno conosce o che conoscono solo in pochi, risultando quindi non controllabile dai genitori e nel contempo facile preda della rete del grooming (adescamento di minori online), dato in rilevante aumento rispetto all'11% dello scorso anno. Infine WhatsApp: Il 99% lo utilizza ogni giorno, il 93% si scambia i compiti attraverso il gruppo-classe e il 70% chatta in maniera compulsiva.
I selfie
In sé il selfie sarebbe innocuo: "sono in questo posto/situazione e immortalo il momento". Nulla di strano, già esisteva, ma la foto era scattata da altri o con l'autoscatto. Il problema è che l'auto rappresentazione continua e condivisa, pone se stesso sempre in primo piano, al centro di un'attenzione che si ricerca spasmodicamente, alimentando il narcisismo che a quell'età si dovrebbe naturalmente equilibrare con un sano scambio relazionale diretto e non mediato dai 'Social'. Questo processo conduce ad assumere anche comportamenti pericolosi per accrescere la propria autostima e l'approvazione degli altri: inutili e dannose diete per sembrare più magri, sfide estreme - Selfie Killer - sui binari, da altezze vertiginose e così via.
Limitare i danni
Non credo possibile una soluzione tipo bacchetta magica che riporti a un nostalgico 'prima'. L'analisi della realtà dice che non riusciamo più a prevedere i rischi che le inevitabili innovazioni tecnologiche produrranno, ma suggerisce anche e per l'ennesima volta, che l'inesorabilità può almeno essere contenuta. Divieti e proibizioni, molti genitori lo sanno, non producono nessun effetto duraturo. Anzi, spesso inaspriscono i rapporti a volte già difficili, e sollecitano la trasgressività. Se poi vietiamo, mentre noi stessi siamo lì, attenti al minimo bip del nostro smartphone, scordiamoci qualsiasi possibilità d'intervento positivo. L'esempio è fondamentale, ma è efficace se c'è da sempre e se è accompagnato da poche regole cui non si deve mai derogare. L'equilibrio tra diritti e doveri è indispensabile, ma individuare gli uni e gli altri non basta. Bisogna mantenere la 'parola' data, la regola, con autorevolezza che significa, appunto, esempio: nei comportamenti e nelle espressioni verbali, quando parliamo con e degli altri, quando guardiamo la Tv ed esprimiamo pareri. L'autoritarismo, che è ben altra cosa, serve solo a facilitare potenziali risposte negative. Iniziamo da quest'estate a costruire insieme ai nostri figli i giocattoli, per esempio il telefono con i barattoli o i bicchieri di plastica e quant'altro: aquiloni, casette con cartoni, trenini, pupazzi e via dicendo. Altro che smartphone!


Da bambino desideravo a tutti i costi un cane: lo sognavo, addirittura lo agognavo, continuando a immaginare i giochi che avrei fatto con lui, le carezze che gli avrei dato, le avventure che avremmo vissuto insieme. Era l'epoca di Lassie e Rintintin e riconosco di esserne stato profondamente influenzato. Non a caso il mio cane ideale era un pastore tedesco o, in alternativa, un collie. Un giorno, avevo dieci anni, al ritorno dalla scuola finalmente il mio sogno si realizzò. Beh, almeno in parte…: un cucciolo bianco e paffuto, un batuffolo di peli di una razza impossibile da stabilire (sicuramente non un collie né un pastore tedesco), mi aspettava in un cartone dal quale cercava affannosamente di uscire. Era un simpaticissimo bastardino e mi ci affezionai immediatamente. Poi, dopo nemmeno due settimane d'idillio e scrupolosi, quanto inutili, tentativi di insegnargli a fare i bisogni fuori di casa, tornai da scuola e lui non c'era più… Piansi tantissimo e credo di essere arrivato a odiare i miei genitori che furono, però, inflessibili: niente cane! Avevo provato una serie di emozioni a breve distanza tra loro: sorpresa, stupore, gioia, angoscia, rabbia.
Cosa sono le emozioni?

emozioni facciali
Innanzitutto, sono processi temporanei in risposta a stimoli esterni. Anche la durata le differenzia da altri stati, per esempio dai sentimenti, dalle passioni, dai toni dell'umore e così via. Quando siamo felici o angosciati, per esempio, ridiamo o piangiamo, il cuore accelera i battiti, ci sentiamo anche fisicamente diversi dal solito, poiché sono coinvolte più funzioni, sia psichiche che fisiologiche. Una breve premessa: tutti sappiamo che Ostuni, è diventata famosa anche per i ritrovamenti del prof. Donato Coppola. Le scoperte peletnologiche, ci raccontano un pezzo di storia dei nostri antichissimi avi. Ci fanno immaginare luoghi e usanze di quelle antiche genti, ma ancor prima di quelle epoche, l'uomo primitivo non comunicava con la parola; probabilmente aggrottava la fronte, sbarrava gli occhi e tremava, quando vedeva un fulmine o una belva: comunicava la paura. Nel corso dei millenni, questo meccanismo si è tramandato geneticamente per favorire l'adattamento evolutivo, per cui alcune emozioni sono comuni a tutti gli uomini. Si tratta delle
Emozioni primarie
Molti scienziati hanno analizzato le emozioni, tra questi lo psicologo Paul Ekman che ha studiato sul campo innumerevoli gruppi etnici in diverse parti del mondo e, in breve, ha dimostrato l'esistenza di reazioni emotive comuni a tutti gli esseri umani, a qualsiasi latitudine appartengano, a ulteriore dimostrazione, ove ve ne fosse ancora bisogno, che davvero siamo TUTTI uguali. Queste emozioni, paura, tristezza, gioia, disprezzo, disgusto, sorpresa, rabbia, indipendenti dalla cultura di un popolo, non sono sempre vissute con la stessa intensità: persone diverse, possono vivere le stesse emozioni in modo differente (ognuno si sente triste, arrabbiato o impaurito a modo suo), ma in comune restano le componenti psicofisiche. Può variare la reazione, ma espressione facciale, l'atteggiamento del corpo e il tono della voce, restano sostanzialmente inalterati.
Emozioni secondarie
Sono più complesse delle emozioni primarie essendo il risultato dell'elaborazione tra i tanti fattori ambientali, tra i quali la cultura del gruppo di appartenenza, l'educazione e la crescita personale di ognuno di noi. Una di queste è l'allegria. L'ho scelta come esempio, poiché è molto simile alla gioia, ma mentre quest'ultima si prova in modo per così dire 'puro', l'allegria è un'emozione 'derivata', appunto, e dipende, come ben sappiamo un po' tutti, dal contesto. Le emozioni secondarie più note sono: rimorso, speranza, invidia, vergogna, nostalgia, gelosia, ansia, delusione, rassegnazione. In "Un americano a Roma", il bravissimo Alberto Sordi voleva a tutti i costi essere americano, appunto, per esempio mangiando mostarda, ma sul tavolo la madre gli aveva lasciato un piatto di "maccheroni" assolutamente insostituibili per un italiano (infatti, furono divorati in poche forchettate). Questo aneddoto per esemplificare il concetto dell'influenza ambientale sulle emozioni: credenze, convinzioni, modi di fare, oggetti e quant'altro sia specifico di una certa cultura, condiziona le nostre risposte emotive.
La funzione delle emozioni
Il ruolo delle emozioni è essenziale per la vita: ci avvisano se qualcosa è proficuo o svantaggioso; comunicano a chi ci sta vicino che qualcosa di importante è successo; creano le basi per adattarci alle nuove esperienze; ci aiutano a fare una verifica immediata delle situazioni improvvise che stiamo vivendo. Per meglio chiarire questo concetto, pensiamo alla paura: gli occhi sbarrati con movimenti oculari più rapidi, consentono di avere un campo visivo più ampio e tenere sotto controllo un'area molto vasta; il naso si allarga per inalare più aria e ossigenare meglio il cervello perché sia più lucido e pronto all'azione. Questo comportamento non ha bisogno di essere spiegato con le parole a chi ci sta intorno e comunica immediatamente uno stato di allerta e di pericolo.
Non è salutare reprimere le emozioni
Un equilibrato vissuto emotivo, è indispensabile e non va assolutamente rigettato. 'Scacciare' le emozioni sempre e comunque, non significa controllarle, bensì reprimerle e ciò può comportare disfunzioni affettive e comportamentali particolarmente severe. Purtroppo siamo sempre più abituati a nascondere le vere emozioni, sostituendole con le passeggere sensazioni di 'moda' del momento: così, confondiamo la paura indotta da qualche meschino politicante, con il disprezzo nei riguardi del 'diverso'; la gioia di condividere, con la gelosia e l'invidia per il superfluo. Il rischio concreto è quello di generare un pericoloso conflitto tra le emozioni espresse e quelle vissute, una sorta di pentola a pressione la cui valvola di sfogo è intasata. Al pari della rimozione, vivere e rispondere solo con le emozioni, evidenzia uno stato altrettanto nevrotico. Il consiglio è di lasciarsi andare alle emozioni, per il breve tempo che le caratterizza, cercando di riconoscerne l'effettiva utilità e abbandonando progressivamente quelle che ormai sono diventate risposte automatiche e sterili. Dopo tutto, se per migliaia di anni le emozioni sono state indissolubilmente legate all'Uomo, è evidente il loro ruolo determinante. Belle emozioni a tutti!
P.s.: nel 1984, oltre vent'anni dopo, presi un cucciolo di pastore tedesco con il quale ho condiviso quasi sedici anni. Ogni volta che penso a lui, sono pervaso da grandi emozioni. Ancora.


Quando, oltre cinquant'anni fa, conobbi Luciano Peccarisi ero da poco arrivato a Ostuni con la mia famiglia. Giocavamo insieme e con lui ho vissuto la successiva adolescenza. Insomma, una grande e fraterna amicizia che non si è mai interrotta. Di Luciano, noto medico e neurologo, mi colpì sin dagli inizi, la propensione alla riflessione. Questa sua dote innata, affinata ed elaborata nel tempo lo ha inevitabilmente condotto all'ininterrotto, metodico e approfondito studio del cervello e della mente umana. Già, studiare e sapere è importante per aiutare gli altri, ma consentire a tutti, non solo agli addetti ai lavori, di comprendere alcuni processi fondamentali, quanto complessi del cervello, non è affatto semplice. Questo è il grande valore del lavoro di Luciano Peccarisi: divulgare concetti scientifici anche molto difficili, in modo semplice e accessibile davvero a tutti. Così è stato per il suo primo libro Il miraggio di "conosci te stesso" (Armando Editore – 2008); per il secondo Dialogo tra il Cervello e il suo Io (Aracne - 2014) finalista al prestigioso "Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica" e per quest'ultimo:

Il cervello immaginante. La mente a due dimensioni
L'introduzione
Ho avuto l'onore di scrivere l'introduzione a questo libro, che ho letto e riletto prima della pubblicazione. Riletto, non per comprenderne i concetti che, ribadisco, sono accessibilissimi a tutti, quanto per lo stupore di fronte a una maturità narrativa che raramente si trova abbinata a un lavoro di carattere scientifico. E poi, l'enciclopedico sapere spalmato con equilibrio tra informazione, racconto e attualità. Stefano Venturi è il protagonista: uno studente di medicina dell'Università di Bari, che incontra un professore di neurologia, un eccentrico luminare che affida a Facebook le proprie considerazioni scientifiche, dialogando così, con altri personaggi, creando, appunto, l'originale svolgimento narrativo cui mi riferivo.
La presentazione
Non a caso, l'eminente Prof. Alessandro Salvini (già ordinario di Psicologia clinica, Università di Padova), scrive, tra l'altro, nella prefazione al libro:
"Raramente si trova un testo scientifico capace di appassionare e di coinvolgere come questo: scritto in modo brillante e scorrevole, ma anche denso, documentato, pieno di richiami, di interrogativi e di esemplificazioni, che utilizzano con perizia la migliore formula argomentativa: il dialogo. Basta scorrere gli indici del volume per leggervi la passione scientifica e l'erudita capacità didattica che lo anima, insieme alla rilevanza ed estensione degli argomenti trattati con un approccio "multidisciplinare". Approccio che in un'epoca di specializzazioni estreme è sempre più raro rintracciare. Se, fin dai tempi di Charles Darwin e per metà del secolo successivo, era facile trovare nello stesso naturalista le conoscenze del geologo, dello zoologo, del botanico e le correlate questioni filosofiche, era altrettanto facile fino a pochi anni fa trovare nel sapere di altri studiosi, per esempio umanisti, un ampio repertorio di saperi che andavano dalla mitologia, alla storia, al diritto, alla letteratura e all'arte. Il lavoro di Luciano Peccarisi è la testimonianza della tradizione enciclopedica europea, di cui – su un altro fronte, quello delle scienze umane – l'ultimo esempio è stato quello di Umberto Eco. Sotto questo aspetto il lavoro di Peccarisi è consolante, di fronte alla constatazione che la specializzazione scientifica estrema e il riduzionismo hanno reso più spoglio l'albero del sapere trasversale. Difatti nella tessitura dell'arazzo della conoscenza moderna gli operai del sapere non hanno più una visione d'insieme, in cui scontano il destino di una sorta di cecità disciplinare egocentrica. Somigliando ai ciechi sapienti del noto aneddoto, ognuno dei quali pensa di sapere cosa sia un elefante descrivendone la parte che tocca. L'autore riesce sempre a descrivere, con opportuni esempi, gli intrecci circolari che legano tra di loro i più svariati temi interpersonali, sociali, affettivi fino alle patologie neurologiche. Un lavoro esemplare, come si è detto, non solo per la quantità di conoscenze e di riferimenti che contiene, ma anche per il disegno teorico sottostante. In cui i temi del linguaggio e dell'immaginazione, della coscienza e del pensiero costituiscono il punto focale del rapporto tra il cervello e mondo."
L'autore
Il libro, fresco di stampa, è arrivato in mattinata attraverso corriere, e noi siamo seduti intorno a un tavolo, a cena, a festeggiare, a constatare la magia che ancora una volta si materializza: tanto sapere, tanta fatica in tanto poco spazio. E viene naturale l'idea di scrivere questo articolo, questa intervista che, per ovvi motivi di comprensibilità, apparirà meno 'intima' di quello che in realtà è stata.
- Franco: «E tre! Senza nulla togliere ai due lavori precedenti, Il cervello immaginante rappresenta un'indiscutibile evoluzione. Com'è nata l'idea del libro?»

- Luciano: «Come nascono le idee, caro Franco, è un bel problema. Credo che nessuno lo sappia realmente. Derivano dalla nostra storia, sia genetica sia culturale; dalle vicissitudini, gli incontri le casualità, le letture, dal caso. È un'evoluzione mi chiedi, certo. Penso che non ci sia mai una fermata definitiva nel processo di curiosità e di voglia di comprensione e conoscenza. Ogni giorno che passa, qualche nuova lampadina si accende. Come tu sai, perché in parte ne sei corresponsabile, fino all'ultimo istante (nel vero senso letterale del termine) ho ripensato e riscritto. E se potessi, lo rifarei ancora. Comunque se proprio dovessi pensare a un momento preciso, farei riferimento al libro di Damasio, un noto neurologo spagnolo, intitolato "L'errore di Cartesio". Un vero e proprio bestseller.»
- Franco: «L'importanza cognitiva dei sentimenti contro la netta differenza cartesiana tra intelletto ed emozioni?»
- Luciano: «Infatti. Oggi la tesi di Cartesio, cioè che ci sia una sostanza mentale da una parte, che costituisce il pensiero, e il corpo dall'altra, cioè il cervello, costituite da "materie" diverse, non trova riscontri. E il famoso detto cartesiano "Penso dunque sono" contestato. Ho sempre pensato, tuttavia, che la scienza sia stata un po' ingiusta e che l'intuizione del filosofo francese, una qualche pezza d'appoggio l'avesse. Certo, a mio parere, "penso dunque sono" è insufficiente per caratterizzare l'essere umano; anche gli animali pensano. Tuttavia non sono coscienti di essere scimmie, cani o pitoni; di essere mortali o semplicemente di esistere. Allora più che alla capacità di pensare occorre attraversare un'altra soglia, che, almeno sinora, solo l'umano ha passato: l'immaginazione. Una capacità legata alla possibilità umana di parlare e quindi di comunicare i propri pensieri. E così dall'animale, cioè un essere chiuso nei propri pensieri, come un computer di casa scollegato a Internet, siamo passati a esseri umani collegati; come il computer di casa collegato a Internet. E così un mondo, anzi un universo di possibilità, si è dischiuso. Siamo cervelli computerizzati o, sei vuoi, computer biologici collegati.»
- Franco: «Credo proprio che in questo tuo libro, abbia superato non una ma molte soglie. Per esempio, collegare gli elementi prettamente scientifici, con altri aspetti e discipline che solo apparentemente non hanno nulla a che vedere con il cervello.»
- Luciano: «Ci ho provato… In questo libro nella prima parte parlo di come la storia evolutiva ci ha reso quello che siamo. Una storia che da poco tempo è cambiata, da quando il modem si è perfezionato e i ripetitori sono sorti ovunque. Poi è stato un crescendo sempre più rapido che ha trasformato l'intero pianeta. Se pensiamo al tempo di esistenza dell'uomo rispetto all'età della Terra, di quasi quattro miliardi di anni, ci rendiamo conto come il nostro tempo sia un battito di ciglia. Possiamo parlare di storia e non di preistoria da meno di cinque - seimila anni.»
- Franco: «Questo, come dicevi, nella prima parte del libro. Poi ti occupi della coscienza umana e i suoi rapporti con il cervello.»
- Luciano: «Sì. Quest'ultimo essendo l'hardware riveste, ovviamente, il posto che gli spetta in un libro sulla mente immaginante. Ne descrivo, cercando di mantenere un linguaggio leggero, le caratteristiche, il funzionamento, le disfunzioni e patologie. La scienza ha bisogno di sapere com'è fatto e come funziona, è lui che sta alla base della mente. Certo lo studio dei suoi neuroni non ci dirà perché Gianni ama Maria e non Claudia, e tuttavia il contenuto attivo o no di certe sue parti, nelle persone in coma, ci può rivelare, attraverso lo studio delle immagini cerebrali attraverso le varie tecniche (fRM, PET, tac, ecc) se abbiano o no, ancora coscienza del mondo che ci sta intorno a loro.»
- Franco: «Un'altra "soglia" brillantemente superata è l'innovazione nella narrativa e il ricorso ai Social che ormai fanno parte integrante della vita di molti di noi. Se la tua identificazione con il protagonista narrante, lo studente di medicina Stefano Venturi, è evidente, l'utilizzo di Facebook non è solo un espediente "accattivante". Tu stesso pubblichi interessantissimi e dotti articoli su questo Social.»
- Luciano: «Il format di Facebook può, in effetti, essere fonte di conoscenza e condivisione. Se utilizzato per il gossip e l'attacco rabbioso verso gli altri, stiamo parlando di qualcos'altro. Io ho pensato a un professore che stila i suoi post e ai suoi interlocutori che partecipano. Passo, così, in rassegna le varie caratteristiche della mente - cervello umano, come la coscienza, il pensiero, la memoria, il sogno, l'intelligenza. E come si può immaginare la consistenza della musica, del tempo, dell'arte, ecc. Ovviamente l'immaginazione condisce il tutto. Il cervello vegetale e animale riflette abbastanza fedelmente la realtà. Risuonano con l'ambiente che li sta intorno, sono, in un certo senso, razionali. Per questo in genere non cantano, non ballano, non fanno film, non scrivono libri; fanno quello che è necessario e razionale fare. Anche il computer è solo intelligenza pura, privo di emozioni. L'essere umano è intelligenza, emozione e immaginazione. Nel nostro cervello, e solo nel nostro, la differenza tra reale e immaginario è molto meno netta di quanto ci appaia sulla base del nostro rapporto con la realtà. Una realtà fatta di cultura, scrittura, teatro, finzioni, ruoli da interpretare, sceneggiate, viaggi, convenzioni, strutture e sovrastrutture. Lo studio del cervello non ci potrà dire e spiegare l'amore, la bellezza, la voglia di costruire qualcosa di buono, di progettare il futuro; per questo è importante non confondere i linguaggi di descrizione. La nostra realtà non è più quella animale e le nostre emozioni si nutrono di altri stimoli, percezioni e sensazioni. L'immaginazione ha liberato difese e possibilità del pensiero. Possiamo soprassedere all'aderenza alla realtà, possiamo amare, odiare, provare piacere e o terrore, e stare a una distanza di sicurezza: è solo lo schermo della TV, oppure l'ho solo immaginato! Come faccio dire al professor Gallone nel libro "Dovessi scrivere un libro, copierei il titolo da quello di un filosofo, Arthur Schopenhauer: Il mondo come realtà e come rappresentazione. Sostituendo solo l'ultima parola con immaginazione. Del resto l'ha detto il più grande scienziato di tutti: "L'immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, l'immaginazione abbraccia il mondo" così parlò Einstein. Anche gli esseri umani, come tutti gli organismi viventi, sembrano vivere nel tempo. Sono spinti in avanti da una forza che produce un movimento continuo e senza sosta. È una propulsione nata con la prima cellula dalla quale sono apparse tutte le altre, e continua, come forza invisibile. Non importa quelli che muoiono e le specie che si estinguono, il processo gli scavalca, è inarrestabile. Nell'essere umano parlante lo stimolo si è trasformato, la cerchia dell'esistenza dei viventi è circoscritta, ma negli umani soffia il vento dell'immaginazione che agita le acque stagnanti e i confini tra la vita quotidiana e la realtà".»

È una bella serata settembrina, non castigata dall'afa che questa estate ci ha riservato. Essere lì con l'amico di sempre a guardare il libro appena arrivato, mi fa rivivere antiche immagini e sensazioni di quando, da piccoli, ci incantavamo insieme a guardare qualcosa che in quel momento era importante. E penso, ancora, che leggere questo libro possa trasmettere le stesse emozioni anche ad altri.


In un'era in cui l'apparire prende sempre più il sopravvento sull'essere, dove si erigono muri invece che ponti, trovo davvero encomiabile un'iniziativa che rompe gli schemi e va decisamente contro corrente, anzi, in realtà nel verso giusto: il Festival della Cooperazione Internazionale. Non una delle tante manifestazioni scanzonate e leggere che si addicono a una località turistica, ma un evento internazionale, appunto, che si occupa dell'inclusione dei disabili. Questa prima edizione del Festival, fortemente voluto, organizzato e coordinato dall'instancabile dott. Franco Colizzi, psichiatra, nella sua veste di coordinatore AIFO per la Puglia, si è svolta il 13, 14 e 15 ottobre.
Cooperazione inclusiva
Spiega il dott. Colizzi nel programma del Festival:
L'idea di cooperazione possiede diverse valenze semantiche. Ma è implicita nel cooperare la tensione umana a collegare, unire, includere. Per abbattere pregiudizi, superare esclusioni, evitare "vite di scarto". È questo il senso profondo dell'articolo 32 della "Convenzione internazionale sui diritti delle persone con disabilità", il quale sancisce che la cooperazione internazionale allo sviluppo deve diventare inclusiva e operare attraverso progetti accessibili alle persone con disabilità. Includere la disabilità nella cooperazione allo sviluppo non vuol dire allora semplicemente creare un settore di intervento al suo interno, ma farne un asse trasversale (un mainstreaming) di qualità umana per tutti.
Gli obiettivi dello sviluppo
Servizi sanitari migliori e accessibili a tutti (copertura universale della salute), servizi sociali migliori e accessibili a tutti, scuole migliori e accessibili a tutti i bambini e le bambine, attività economiche migliori e possibili per tutti e così via. Cosa sia lo sviluppo, o almeno come debba caratterizzarsi, è una antica ed irrisolta questione Considerato come esclusiva e massimizzata produttività, esso è insostenibile perché tende a depauperare le forme di vita del pianeta e ad espellere le persone più fragili al pari di un guasto o di un difetto nell'ingranaggio produttivo. Visto come un processo complesso, a più fattori concorrenti - tra i quali il capitale umano è essenziale - lo sviluppo è sostenibile se è capace di avvalersi rispettosamente dei vari aspetti sia della natura che dell'essere umano, includendo le relazioni e il sociale, non sperperando e non umiliando la primaria ricchezza costituita dalle persone e dalle limitate risorse naturali del pianeta. Ecco perché l'orizzonte di riferimento di questa prima edizione del Festival, come delle successive, è dato dall'Agenda ONU 2030 con i suoi 17 obiettivi sostenibili di sviluppo e i 169 targets specifici. Mirando alla partecipazione diretta delle persone con disabilità, all'incremento delle loro competenze sociali e del loro potere, si contribuisce ad allargare i confini della cittadinanza e a far crescere lo spirito della democrazia nel mondo anche laddove oggi c'è una tremenda esclusione sociale, civile, politica. Eccola, la grande eutopìa dei nostri tempi, che può appassionare milioni di giovani. Non utopia, luogo che per definizione non c'è o è solo astrazione. Eutopia, luogo del bene, luogo buono, luogo esistente e vivo dell'umano in tutte le sue stupende sfumature, anche di venature dolorose e di sprazzi di felicità, ma sempre luogo in cui l'umano celebra le sue nozze con il mondo.
Un dovere previsto dalla Costituzione
Rivive pienamente, nello spirito genuino della cooperazione internazionale, il dettato della nostra Costituzione italiana. Essa impegna a riconoscere e garantire - all'articolo 2 - i diritti inviolabili dell'uomo e richiede l'adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. A tal scopo, essa indica, con l'articolo 3, l'obiettivo di fondo della rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l'uguaglianza dei cittadini e impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Non è difficile immaginare di espandere al mondo intero questi principi. E del resto, con l'articolo 11, la nostra Costituzione non solo ci impegna solennemente a ripudiare la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli, ma valorizza le organizzazioni internazionali che operano per la pace e la giustizia promuovendone e favorendone la progettualità e il concreto operare. Con opportuna scelta, l'articolo 1 della nuova legge sulla cooperazione internazionale , la n. 125 del 2014, definisce quest'ultima come parte integrante ed essenziale della politica estera dell'Italia. Attraverso l'impegno sincero, determinato e costante ad includere le persone con disabilità (quasi un miliardo nel mondo) nella trama dell'umanità contemporanea, la cooperazione internazionale può allora manifestare con illuminante potenza la sua splendida propensione a essere avamposto di una politica estera - ma anche interna agli Stati - di giustizia e dunque di pace.
Gli organizzatori del Festival
Gli obiettivi potrebbero sembrare ‘ambiziosi', ma rappresentano soltanto il minimo mai realmente realizzato. Non il contentino che mette a posto con la coscienza, bensì un'occasione per la completezza della nostra maturità di Uomini. Non a caso i membri del comitato organizzatore del Festival della Cooperazione Internazionale si occupano da sempre dei bisogni di chi soffre: - Aifo, Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau, organismo non governativo di cooperazione internazionale in ambito socio-sanitario; - Dpi Italia Onlus, sezione italiana di Disabled Peoples' International, lavora per la promozione e la tutela dei diritti umani e civili delle persone con disabilità; - EducAid, opera in ambito di cooperazione internazionale per prevenire e ridurre, tramite il lavoro educativo e sociale, gli svantaggi e le difficoltà dei soggetti con bisogni speciali e culturali; - Fish, organizzazione "ombrello" cui aderiscono alcune importanti associazioni impegnate all'inclusione sociale delle persone con differenti disabilità. - Comune Di Ostuni, partner fondativo; - Regione Puglia, patrocinatore.
Cosa propone il Festival

Tutti i festival rappresentano una vetrina nella quale i partecipanti espongono le proprie proposte. Quelle del Festival della Cooperazione Internazionale si può illustrare in cinque punti:
1) rappresentare, per il ricco e complesso mondo della cooperazione e della solidarietà internazionale (che costituisce parte integrante della politica estera dell'Italia), un appuntamento annuale (con eventuali articolazioni durante l'anno in vari luoghi) in cui raccontarsi, incontrare istituzioni e cittadini, far conoscere progetti concreti attraverso i quali si tutelano la dignità ed i diritti umani e si diffondono ideali di pace, uguaglianza, giustizia sociale e fratellanza; 2) allestire, per le istituzioni nazionali (ministero affari esteri e della cooperazione internazionale, Regioni ed Enti Locali) e internazionali (Unione europea, agenzie ONU), un "palcoscenico territoriale" e una rete dinamica di attori sociali (delle istituzioni, del terzo settore, della scuola e della cultura, del mondo delle imprese…) attraverso i quali comunicare a un più vasto pubblico strategie e impegni operativi, a cominciare dalle azioni sui 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile e i 169 targets specifici (SDG) da perseguire fino al 2030 anche a livello locale; 3) offrire a ONG e ONLUS la possibilità di incontrarsi per costruire e/o rafforzare alleanze, reti progettuali, rapporti di collaborazione con vecchi e nuovi donors sia pubblici che privati; 4) consentire a tutte le parti interessate di approfondire lo stato dell'arte su questioni generali e particolari della cooperazione internazionale, attraverso seminari, focus, mostre e documentazione multimediale; 5) offrire ai giovani, ai volontari, agli studiosi, alle aziende e ai mass media occasioni formative di alto livello e informazioni su esperienze professionali e di servizio civile in progetti in Italia e all'estero.
Arrivederci alla prossima edizione
Nel complimentarmi ancora una volta per questa indispensabile iniziativa, riporto di seguito le valutazioni conclusive del dott. Franco Colizzi, su questa prima edizione:
Esprimo piena soddisfazione per l'andamento positivo delle attività previste dal programma, pur nei ristretti tempi di organizzazione di questa edizione sperimentale. Per questo ringrazio di cuore tutte le istituzioni, a partire dal Comune di Ostuni, partner fondativo del Festival, e dalla Regione Puglia, di cui auspico un pieno partenariato futuro. Un ringraziamento speciale va a tutte le organizzazioni intervenute a vario titolo, ai relatori e ai numerosi volontari di diversa provenienza, che hanno, tutti insieme, dato linfa vitale alle giornate del Festival. 1. Questa prima edizione, lungi dall'essere una semplice sperimentazione sul campo, è riuscita ad incontrare il vasto bisogno di un tale appuntamento, da rinnovare annualmente, e la grande voglia di partecipazione di piccole e grandi realtà associative, a partire da quelle pugliesi, che hanno colto l'occasione per raccontarsi. La città di Ostuni, chiamata ad una difficile prova di accoglienza e di efficienza, si è rivelata, pur tra inevitabili difficoltà organizzative, idonea ad ospitare un evento di tale complessità e rilevanza – peraltro crescenti negli anni futuri – e potrà certo, coinvolgendo appieno i Comuni vicini, offrire in futuro un'ospitalità e un supporto generale ancora più puntuale e di qualità. 2. Il tema del Festival, "Disabilità, diritti umani e sviluppo", è stato ampiamente analizzato sotto diverse angolazioni, i seminari di approfondimento ne hanno messo in luce – grazie alla competenza dei relatori – la profondità e l'estremo interesse per tutta la comunità locale e nazionale e il racconto di numerose esperienze ha esemplificato l'ampio ventaglio di possibilità per le persone e i gruppi che intendono contribuire a progetti di cooperazione internazionale a partire dai propri territori. È emerso con chiarezza dagli incontri che l'approccio inclusivo è non solo essenziale per garantire il rispetto dei diritti umani, ma una convenienza per tutta la società, per le conseguenze in ambito economico, sociale, e culturale che corrispondono alla costruzione di società aperte, sostenibili e rispettose dei diritti di tutti. I promotori sottolineano l'importanza del coinvolgimento attivo delle istituzioni scolastiche – dalle primarie sino all'Università - , elemento che ha consentito di mettere a valore il grande potenziale formativo della tematica, attraverso incontri, mostre, filmati. Risulta pienamente confermata la scelta di adottare, quale potente cornice di fondo, l'Agenda ONU 2030, con i suoi 17 obiettivi di sviluppo sostenibile, che pertanto saranno di volta in volta analizzati e verificati nelle prossime edizioni. Sulla base dell'esperienza condotta, possiamo confermare alcuni obiettivi relativi al territorio pugliese:
- Impegnare le aziende sensibili nello sviluppo della responsabilità sociale di impresa e nel possibile partenariato in progetti esteri
- Sostenere le scuole nello sforzo di formazione permanente sui temi della cittadinanza globale e della solidarietà internazionale, anche attraverso progetti ad hoc e attività continue di sensibilizzazione
- Stimolare gli Enti Locali ad istituire un capitolo di spesa per attività di cooperazione internazionale locali o estere, sull'esempio del Comune di Ostuni
- Strutturare una rete stabile di ONG, onlus e associazioni interessate a lavorare assieme, progettare assieme e mettere a valore le rispettive esperienze di cooperazione internazionale.
3. Gli impegni per la seconda edizione.
Le organizzazioni promotrici – AIFO, DPI, FISH, Educ Aid – si sono già impegnate a rafforzare il partenariato per le future edizioni del Festival ed annunciano che il Secondo Festival nazionale della cooperazione internazionale si svolgerà nella città di Ostuni nello stesso periodo di ottobre del 2018. La data esatta e il tema verranno resi noti in una assemblea generale aperta a tutti gli interessati, che avrà luogo ad Ostuni in dicembre, durante la discussione del documento conclusivo in elaborazione.

Maggiori informazioni: www.festivaldellacooperazioneinternazionale.it


È Natale. Anche quest'anno ci apprestiamo, per credo e/o consuetudine, a festeggiare questo evento, a essere più buoni, più disponibili, accoglienti e tolleranti. Per tanti, solo il 25 dicembre, ahimè. Mi sovviene un cartone animato con Lupo Alberto e Mosè, l'enorme bobtail suo antagonista perpetuo: alla fine della giornata di solita e intensa lotta, entrambi timbrano il cartellino e si augurano una buona serata dandosi appuntamento al giorno dopo. Ricercare le ragioni che portano molti uomini a comportarsi come se gli altri fossero solo cose, senza fermarsi nemmeno un momento a "timbrare il badge", richiederebbe troppo spazio e tempo e non so nemmeno se ci si riuscirebbe. Tanti eminenti studiosi hanno cercato, e tuttora analizzano, i motivi che sono alla base dell'aggressività: dai raptus, disagi e traumi di ogni tipo (infantili, educazionali, ambientali culturali, e via dicendo), alle 'cattiverie" personali ai grandi eccidi di massa, alle guerre. Ogni anno le minacce sembrano moltiplicarsi e ci sentiamo talmente impotenti e abbiamo tanta paura, da non accorgerci che proprio quest'ultima alimenta intolleranza e aggressività. Spero davvero che gli interminabili attriti tra Nazioni, tra "potenti" più o meno sani di mente, non ci portino a un situazione ancor più disastrosa di questa. Eh sì, anche i cambiamenti climatici cui stiamo assistendo sono per nostra causa. È incomprensibile che degli esseri umani provochino scientemente la morte di migliaia di persone (i civili) per "evitare conseguenze peggiori" (Sic!). Con Hiroshima e Nagasaki, è iniziata la "guerra preventiva", cioè l'attacco e la distruzione di persone (i civili, ribadisco) e cose, onde evitare… che? Chi può stabilire a tavolino, che uccidere indiscriminatamente (preventivamente) altri essere umani (i civili!), possa portare alla pace o a conseguenze meno tragiche? Dunque i famosi "se" e "ma" la fanno la Storia!? Di sicuro le ultime guerre preventive (per armi chimiche inesistenti, per esempio), alcuni risultati importanti li hanno ottenuti: la destabilizzazione di quelle aree con la conseguente nascita dell'Isis. Altre guerre più o meno preventive, migliaia di persone uccise e tantissime altre intenzionate a trovare scampo da quell'orrore (vorrei vedere noi al loro posto!). Mi vengono in mente quei film di fantascienza nei quali i "cattivi" arrivano da altri mondi per annientarci. Beh, forse gli alieni malvagi sono qui, sono alcuni di noi, con diversi ruoli e mansioni. A volte siamo noi stessi, per esempio quando concordiamo con certe scelte, quando rimpiangiamo o auspichiamo "l'uomo forte" in grado di proteggerci e risolvere tutto ammettendo, implicitamente, la nostra fragilità... Insomma, una sorta di devianza "psicogenetica" che è cresciuta con la razza umana e che, in antitesi con la Vita, la contrasta al pari delle gravi epidemie e dei mali incurabili. Va be', anche questa è fantascienza… Perché rompere l'atmosfera natalizia con queste considerazioni scabrose? Be', proprio poiché, credenti o no, ci si fermi a meditare sulla nostra personale disponibilità a prolungare il più possibile un clima psicologico indulgente e meno aggressivo, a partire dal nostro "piccolo" giornaliero. Auguri a tutti. Tutto l'anno!

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