Dott. Franco Sponziello
Psicologo

Articoli e pubblicazioni - Anno 2021

Altri anni:



dipinto di Charles Allan Gilbert intitolato All Is Vanity

Mio padre ci lascio quando avevo tredici anni. Per alcuni mesi ebbi la sensazione che non fosse vero, che dovesse tornare da un momento all’altro. Così, all’ora del suo solito rientro, guardavo dal balcone e mi sembrava di individuarlo tra i passanti in lontananza, Succedeva anche quando camminavo e ricordo di avere avuto sicura percezione della sua presenza nella città vecchia di Ostuni, durante una passeggiata con amici. I vicoli stretti in qualche modo facilitarono la percezione e mi misi a correre finché raggiunsi la persona che, di spalle, somigliava a mio padre. Lo chiamai, si voltò, ma ovviamente non era lui e ci rimasi molto male. Con il tempo mi rassegnai e accettai la perdita, così come deve essere e anche la mia percezione si allineò con la pur dura realtà.
La percezione
è quella funzione che ha lo scopo di elaborare e dare un significato logico e pertinente a tutti gli elementi che arrivano ai nostri sensi. Le sensazioni, invece, sono processi primari a sé stanti. Arrivano, cioè, al nostro cervello direttamente, senza mediazioni: sento caldo se mi avvicino a una fonte di calore, freddo se in inverno non mi copro bene, e così via. Se notassimo un oggetto “strano” volare, cercheremmo istintivamente di vedere le ali o la classica scia per giustificare l’isolita visione e riportare alla normalità l’oggetto visto, che deve essere un aereo o, al contrario, se fossimo alla ricerca di oggetti misteriosi, vedremmo un Ufo in un palloncino gonfiato con l’elio. La percezione è influenzata dalla cultura e dal momento storico in cui si vive, dalle caratteristiche cognitive di ognuno di noi, ma anche dalle emozioni e dall’interesse che abbiamo verso gli stimoli esterni. Nel mio caso, le motivazioni che mi spingevano a voler vedere la figura di mio padre, erano dettate dalla situazione emozionale che stavo vivendo: la mia attenzione era volta esclusivamente all’individuazione dei tratti familiari, per negare l’evento e lenire il dolore.
La percezione del rischio
L’immagine che compare su, si riferisce a un dipinto di Charles Allan Gilbert intitolato All Is Vanity, tutto è vanità. Guardando da una certa distanza, l’effetto è piuttosto macabro poiché si percepisce un teschio. Avvicinandosi, cambia tutto e appare ciò che è realmente raffigurato: una donna che si guarda allo specchio È uno dei migliori esempi per spiegare come un insieme di elementi del tutto normali che giungono al nostro cervello, in questo caso attraverso la vista, può essere completamente travisato dalla nostra percezione. È un po’ quello che succede quando c’è un’errata valutazione del rischio, allorché sopravvalutiamo o, al contrario, riteniamo meno rischiose determinate azioni e situazioni. Come non fare riferimento al nostro approccio con la pandemia da Sars-Cov-2? Infatti, la considerazione del rischio tra la prima ondata della primavera scorsa e l’attuale, è notevolmente cambiata in molti di noi, nonostante la situazione sia addirittura peggiore soprattutto per la nostra regione, che è tra le più colpite. L’Italia ha il triste primato mondiale dei decessi (111,23 ogni 100.000) eppure cresce il numero dei negazionisti, degli scettici e di riflesso, sembra abbassarsi l’attenzione generale. È un esempio di distorsione della percezione del rischio che è soggettiva e in conflitto con i dati della realtà. Quando siamo di fronte a un evento pericoloso o comunque fuori dall’ordinario, la nostra mente cerca in automatico esperienze analoghe per trovare la migliore risposta. Succede, però, che i dati in nostro possesso siano “compromessi” dalle emozioni provate in quel momento che falsano, appunto, la percezione del rischio sopravalutandolo o sottovalutandolo. Così, il rischio reale, oggettivo, è assolutamente trascurato a fronte di comportamenti insensati e illogici. L’esempio classico è, ancora, quello dell’aereo: pur essendo statisticamente molto più sicuro di altri mezzi di trasporto, è percepito come il più pericoloso. Un po’ per la paura di perdere il contatto con il terreno, ma anche perché quando accade un incidente, il numero delle vittime è elevato e viene percepito come assoluto. In altri termini, l’emotività compromette la giusta logica dei dati che riportano migliaia di morti per incidenti stradali ogni anno*. Un’altra caratteristica della falsa percezione del rischio, ci porta a sottovalutare un fenomeno se non siamo noi stessi personalmente e immediatamente colpiti. Nella prima ondata, la stragrande maggior parte degli italiani ha seguito le regole a difesa collettiva da un morbo che poteva colpire chiunque in qualsiasi momento. Nel tempo, anche a causa delle esternazioni di alcuni saccenti e scriteriati medici e politici, la pericolosità è stata via via vissuta come più blanda anche perché la Covid-19 colpisce soprattutto gli anziani, i “sacrificabili”... L’era del tutto e subito, dell’usa e getta, della presenza virtuale nei social, ha probabilmente accentuato la considerazione del solo presente. La pandemia ha scosso e messo in dubbio la subdola convinzione di essere deità immortali, dunque, soprattutto per le personalità narcisiste, la negazione equivale a non ammettere la propria fragilità.
Che percezione avete avuto di quanto letto finora? L’immagine ambigua e l’inizio dello scritto a rammentare l’episodio di mio padre, aleggiano ancora come tristi vele? In realtà il messaggio è che dobbiamo avvicinarci alle cose che vediamo e viviamo, approfondendo i contenuti senza lasciarci influenzare dalle prime impressioni o da ciò che sostiene il conoscente virtuale su internet o il sapientino (magari un politico) di turno. Buon 2021 e che sia migliore del disastroso anno appena trascorso.
* Nel 2018, per esempio, i decessi automobilistici furono 3.325 solo in Italia a fronte di nessuna vittima nei voli di linea in tutta Europa.


Libro di Teo Cavallo

Un pomeriggio assolato di luglio. Avrò avuto quattordici anni o giù di lì e mi stavo recando nella villa comunale per giocare a qualcosa con qualche coetaneo. Passando dalla chiesa della Madonna delle Grazie, sentii una musica provenire da un lato della parrocchia. Incuriosito, entrai in chiesa e seguii quel suono fino ad arrivare in un salone attiguo nel quale due ragazzi suonavano la fisarmonica. Rimasi incantato da quella insolita scena, da quelle dita che si muovevano sulle tastiere, agili, veloci e indipendenti tra loro. Conobbi così Teo e Franco Cavallo: il primo un anno più grande, l’altro uno in meno di me. Io imparai a suonare la batteria, e da allora formammo un gruppo con Teo all’organo elettronico e Franco al basso, che diede vita alla messa dei giovani o messa beat, una delle prime esperienze a livello nazionale e che coinvolgeva ogni domenica centinaia di ragazzi (e non solo). Franco Cavallo oggi è un bravissimo fisiatra e Teo da circa trent’anni vive e insegna a Milano (per meglio dire insegnava, poiché da poco in pensione). Appena ho saputo di un nuovo libro scritto da Teo, l’ho voluto leggere. Tratta diversi argomenti e ha due riferimenti geografici sempre presenti: Ostuni e Milano. Inoltre contiene un’intenzione, per così dire, autoanalitica molto ben costruita e anche per questo “Nostalgia di futuro” mi è davvero piaciuto. Così, ho contattato Teo Cavallo ed ecco uno stralcio della nostra conversazione.
L’intervista
Cambiare città è come tornare a nascere. Senza necessariamente essere morti prima. Questa è una delle tante riflessioni di cui è ricco il tuo libro. Mi ha colpito per la profondità espressa in una sintesi disarmante nella sua semplicità. È uno dei temi ricorrenti nel tuo libro quasi a sublimare la distanza emotiva tra Ostuni e Milano.
A condizione di rimanere vivi e, di conseguenza, di conservare la memoria del proprio passato, ri-nascere, trasferendosi in un’altra città, comporta sempre un confronto tra presente e passato. La nostalgia del passato, del paese che si è lasciato, nasce da questa riflessione. Ma questo confronto può trasformarsi anche nella riscoperta di un’idea di futuro che ha caratterizzato la giovinezza, un progetto che poi non si è realizzato, ma che continua a rimanere nella mente come una malattia di cui si ignora ancora la terapia, ma che , forse, da qualche parte c’è. È la nostalgia del futuro, il “futuro remoto”, un tempo che non esiste nelle nostre grammatiche ma che è coniugato a volte, di nascosto, da chi credeva che quel sogno potesse diventare realtà.
L’autore osserva e riporta azioni, emozioni e sentimenti del protagonista, dunque di se stesso. È una scelta per prendere le distanze o per meglio valutare le scelte di vita?
Nel libro, insieme ad articoli e racconti, ci sono capitoli che hanno la funzione di unirli, tenerli insieme o, meglio, di leggerli con un doppio punto di vista: da un lato quello del protagonista che li rilegge a distanza di un decennio e quasi non li riconosce come suoi, tanto gli appare lontano quel mondo in cui la speranza di un mondo migliore da costruire già cominciava a fondersi con la disillusione emergente da una realtà che si mostrava sempre più immodificabile; dall’altro quello del narratore che coglie in questo disagio anche una nostalgia, una algìa del nòstos, il ritorno di un dolore per un domani possibile mai diventato reale. In questo senso non c’è stata scelta tra l’osservare da una certa distanza, come fa il narratore, e il valutare le proprie esperienze, come fa l’osservato, il protagonista. Le due figure finiscono per coincidere, ma non del tutto, perché l’aspetto autobiografico, che pure è presente, è solo un pretesto per dire qualcosa che va oltre il racconto delle proprie esperienze. Non è la “mia” storia, ma è anche la mia.
Ironia, autoironia, umorismo, satira politica e di costume: ingredienti che hai sapientemente miscelato a considerazioni e introspezioni di notevole intensità emotiva (come nella dimensione quasi onirica che rappresenti nel capitolo Sedici a proposito del controllore/padre). Riconosco il Teo di sempre. È stata una scelta pre-meditata?
No, io intendo la scrittura come una forma di meditazione, di riflessione, non riuscirei mai a pre-meditare qualcosa e scriverla dopo, sarebbe un controsenso. Il risultato di questa riflessione è questo libro in cui si può anche scorgere la lotta tra voglia di cambiamento e miglioramento che ha caratterizzato la generazione nata a metà del secolo scorso e la consapevolezza della inadeguatezza delle forze a disposizione per realizzare questi ideali, della difficoltà di descriverla attraverso parole, della frustrazione conseguente e della ricomparsa, periodica e inesorabile, di quel futuro ora non più davanti, ma alle spalle, disegnato coi colori del passato.
Centoventidue pagine che scorrono velocemente pur trattando moltissimi argomenti: il rapporto con tua moglie e le tue figlie, con la scuola, il razzismo, il consumismo, la tua militanza politica e così via, senza mai scadere nel banale disappunto fine a se stesso. Pensi che sarebbero cambiate le tue valutazioni sulla vita, se fossi rimasto a Ostuni?
Probabilmente sarei diverso e identico a quello che sono ora, allo stesso tempo. Diverso perché diverse sarebbero state le circostanze, le esperienze, le persone con le quali mi sarei confrontato, identico perché quel futuro che tuttora mi porto dentro con nostalgia si è formato qui, ad Ostuni, mi fa comprendere oggi il valore del presente, l’oggi, questo preciso momento della nostra vita. Per questo è importante non lasciarlo in balia del caso e dell’indifferenza e viverlo in modo consapevole e responsabile. E guarire da quel dolore, perché la nostalgia, anche se del futuro, è pur sempre una malattia.

Faccio gli auguri più cari a Teo, contando di vederci quanto prima. Intanto concludo con la poesia alla fine del libro, che ne racchiude il significato.

La mia strada
in salita
nell’eterno catrame
porta dentro
un segreto.
Nascosto da sempre
allo sguardo mio
incredulo
d’idiota stanchezza.
Alla fine c’è il cielo
o l’inferno
o un supermercato
dove tutto è già dato.
Non resta che scendere
per sentieri
più corti.
* Il libro è disponibile presso il sito di Europa Edizioni, La Bottega del Libro, Cisaria. Nelle altre edicole, può essere prenotato.


Fatti furbo!
Alzi la mano chi non si è mai sentito dire fatti furbo! o non lo abbia mai detto a qualcun altro, per esempio ai propri figli. Un’esortazione che suggerisce di scuotersi da uno stato di presunto torpore e inferiorità nei riguardi degli altri e della vita.
L’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza.
Ho scelto questa frase di Italo Svevo per introdurre alcune riflessioni sul concetto di furbizia o furberia, quando questa diventa unico stile di vita. Troppo spesso è ritenuta una dote positiva, addirittura una virtù e confusa con un livello di brillante intelligenza. Nulla di più incorretto! Infatti, se l’intelligenza (di cui scriverò più ampliamente nel prossimo articolo), grosso modo è la capacità di risolvere un problema nel più breve tempo possibile, la furbizia si potrebbe definire come la manipolazione dei dati di quel problema, per il proprio tornaconto al di là di quanto il risultato possa nuocere ad altri. Ho utilizzato volutamente il termine “tornaconto” proprio per la sua accezione egoistica: pensare al proprio beneficio ben sapendo di nuocere, così, ad altre persone.
Furbo come una volpe!
Il simbolo per antonomasia della furbizia è senza dubbio la volpe (anche in associazione con il gatto), animale che suo malgrado è stato insignito di questa poco onorevole onorificenza. Sì, perché pare proprio che il termine furbo derivi dal francese “fourbe” o dal latino “furvus”: in entrambi i casi il significato è “ladro”. Infatti, la volpe, come tutti i predatori, ruba per sfamarsi e l’uomo non ha certo nulla da imparare da essa poiché è l’unico essere vivente che, in generale, sottrae senza alcuna necessità di sopravvivenza. Probabilmente i primi uomini hanno imparato nel corso dei secoli, ad affinare alcune pratiche che gli hanno consentito di sopravvivere, caratteristiche queste che si sono tramandate trasformandosi secondo la cultura e la mentalità delle varie epoche. Ma allora, perché la furbizia è così spesso considerata, appunto, una virtù? Credo poiché è associata al vincere, all’ottenere senza fatica, dunque a una sorta di “invidia” insita in chi non riesce a emergere e dunque loda ciò a cui non può ambire.
Furbo o malato?
Quando la furbizia raggiunge livelli davvero sconsiderati e diventa l’unico modus vivendi, molto probabilmente è un sintomo di una qualche psicopatologia. Per esempio, nel disturbo narcisistico della personalità in cui, chi ne è affetto utilizza la manipolazione degli altri a proprio beneficio. Di fatto il furbo, come il narcisista patologico, ricorre a molteplici stratagemmi per arrivare al suo scopo, tra i quali la seduzione intesa come sistema di azioni falsamente spontanee, volte a manipolare chi gli sta intorno. Così come il narcisista, si fa vanto dei propri risultati convinto com’è della propria superiorità. Non sopporta di perdere, di essere sconfitto, la qual cosa configgerebbe con l’immagine che anche gli altri hanno di lui. Non accettare gli inevitabili insuccessi è, però, un classico sintomo di immaturità.
Sarebbe meglio evitare di richiedere furbizia a chi ci sta vicino, soprattutto ai propri figli. Spesso, infatti, si diventa furbi per “induzione educativa”, perché ce lo sentiamo ripetere troppe volte e ci convinciamo che è l’unico modo per essere accettati, per essere considerati forti. Nulla di più errato e potenzialmente dannoso. Quando incitiamo i nostri figli a farsi furbi, stiamo implicitamente dicendogli che sono deboli e loro acquisiranno questa malsana convinzione. Un’equilibrata educazione si basa sull’esempio coerente, fondamentale per affrontare le insidie dell’epoca in cui viviamo. Per contro, suggerire comportamenti prevaricanti o comunque lontani dalla naturale indole, può provocare esattamente l’effetto opposto. Proprio ciò che Italo Svevo intendeva con la frase d’apertura: l’eccesso di furbizia, ci svuota della nostra umanità rendendoci inevitabilmente più deboli.


Intervista con la professoressa Emira Ayroldi*, docente di farmacologia presso l’Università di Perugia.

Nel momento in cui scrivo, siamo in zona rossa e ci rimarremo almeno fino al 30 aprile, dunque sarà la seconda Pasqua che trascorreremo in casa, senza la possibilità di condividivisione con parenti e amici. Eppure rispetto un anno addietro qualcosa è cambiato. In peggio. A parte le varianti del Sars-Cov-2, si è modificata la percezione e la risposta che alcuni, purtroppo sempre più numerosi, hanno della Covid-19. Mi riferisco a quell’area negazionista/riduzionista e ai no-vax, che con diverse argomentazioni giungono sostanzialmente al medesimo risultato: la negazione della pandemia e dei rimedi per fermarla.
Emotività e razionalità
Il gallo canta prima del sorgere del sole, ma il sole non sorge perché il gallo ha cantato...
Le emozioni sono una caratteristica che accompagna l’essere umano sin dalla sua comparsa sulla Terra. Quando non esisteva ancora la parola, l’emozione serviva a esprimere gli stati d’animo, ma anche a difendersi dalle minacce, per esempio scappando per la paura di essere assaliti. Ebbene, l’emotività continua tuttora ad avere il sopravvento sulla razionalità. Dalle relazioni affettive ai rapporti interpersonali, le emozioni prevalgono sui dati di fatto oggettivi. Se da un lato questa peculiarità ci differenzia dalle macchine, spesso ha, purtroppo, effetti potenzialmente pericolosi. Per esempio, quando si ha paura di un caso su un milione di effetti collaterali del vaccino, ma non di un caso su venti di ammalarsi di Covid-19. rischiando la propria e la vita degli altri. Una sorta di catena di sant’Antonio contribuisce poi a rifocillare l’irrazionalità, questa sì “malata”, anche attraverso i Social oltre che con il (cattivo) esempio in famiglia. Si dà come scontata la relazione immediata tra causa ed effetto.
Confidiamo nella Scienza!
Tanti, ormai, sono diventati da un giorno all’altro virologi, epidemiologi, infettivologi e farmacologi, dispensando cavolate come fossero pillole di saggezza. Secondo questi, Big-Pharma (la “cupola” delle multinazionali del farmaco), ci starebbe avvelenando tutti con i vaccini. Non intendo difendere queste multinazionali che non sono certe delle santerelline e proprio per questo mi chiedo: da chi guadagnerebbero se tanti di noi morissero? I farmaci, tutti, hanno degli effetti collaterali, ma i benefici sono di gran lunga superiori.
La professoressa Emira Ayroldi, ostunese Doc, è docente di Farmacologia presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università di Perugia. Ci aiuterà a fare il punto sui vaccini.
Innanzitutto grazie per aver accettato questa breve intervista, Emira. Entriamo subito nel vivo: conviene vaccinarsi?
Sì conviene! E non solo per tutelare la nostra salute, ma per proteggere la salute degli altri. Io personalmente, quando ho concluso il mio iter vaccinale, mi sono sentita come se mi fossi riappropriata di un piccolo spazio di libertà. Avevo fatto una cosa buona per me e per gli altri.
Attualmente abbiamo due tipi di vaccini, mRNa e a vettore virale. Qual è la differenza?
Provo a semplificare un argomento molto complesso. Tutte le “informazioni” degli esseri viventi (dal colore dei capelli ad alcuni tratti del carattere) sono contenute nel DNA che, attraverso RNA messaggero (mRNA), le trasforma in proteine. Vale per qualsiasi organismo vivente, compresi i virus. Noi siamo capaci oggi di generare in laboratorio copie di pezzi di DNA e mRNA che codificano per una specifica proteina. Questa enorme potenzialità biotecnologica è sfruttata anche per i vaccini. I vaccini per il COVID-19 sono prodotti in base al principio che la proteina SPIKE del virus, quella responsabile dell’ingresso del virus nelle nostre cellule, è capace di indurre una risposta immune, ossia la produzione di anticorpi a loro volta capaci di neutralizzare il virus. I vaccini a mRNA trasportano all’interno delle nostre cellule “l’informazione” per la sintesi della proteina SPIKE del virus contenuta appunto nel mRNA, mentre i vaccini a vettore virale portano la stessa informazione contenuta in un pezzo di DNA. In entrambi i casi, le cellule del nostro organismo cominceranno a produrre la proteina SPIKE e il sistema immunitario reagirà inducendo la produzione di anticorpi. Questa risposta persisterà nel nostro organismo (memoria immunologica) e sarà pronta a riattivarsi qualora venissimo in contatto con il virus COVID19, per neutralizzarlo. La differenza fra due vaccini è non solo il tipo di materiale genetico mRNA o DNA, ma anche per il veicolo con cui il materiale genetico è trasportato alle nostre cellule. Nei vaccini a mRNA (Pfizer, Moderna) l’informazione genetica è veicolate alle cellule del nostro organismo da micelle (nano-particelle lipidiche), nel caso del DNA (AstraZeneca), il vettore è un adenovirus di scimpanzé, che non può replicarsi, ma funge solo da trasporto.
Tra i tanti “tuttologi” circola la voce che i vaccini a mRNA possono causare alterazioni genetiche.
È l’obbiezione più divertente che abbia mai sentito. Il vaccino veicola all’interno delle cellule umane una “copia” dell’informazione genetica del virus, che non può né infettare né interferire con i processi biologici delle nostre cellule. Può solo stimolare in modo transitorio l’espressione della proteina SPIKE che serve a sollecitare una risposta immune.
Cosa vuol dire che i benefici di un farmaco superano i costi, ovvero gli effetti collaterali?
Quando un nuovo farmaco arriva nelle nostre farmacie o nei nostri ospedali, dopo anni di sperimentazione pre-clinica e clinica, inizia la fase della farmacovigilanza. Una sorta di macchina da guerra (la farmacovigilanza), costituita da medici, operatori sanitari, responsabili di farmacovigilanza, che fa capo all’agenzia italiana del farmaco (AIFA), a quella europea (EMA), e all’organizzazione mondiale della sanità (OMS), vigila sulle reazioni avverse del farmaco o del vaccino oggetto di studio in maniera continuativa. Se il peso delle reazioni avverse, in termini numerici o per gravità, dovesse superare i vantaggi terapeutici, il farmaco viene tolto dal commercio, altrimenti la vigilanza continua per tutta la vita del farmaco, con revisioni periodiche. Mi sento di dire che da questo punto di vista noi cittadini siamo ben tutelati.
Stando a ciò che è scritto nei “bugiardini” che accompagnano i farmaci, l’aspirina o, solo per fare un altro esempio, la tachipirina potrebbero avere più effetti collaterali degli attuali vaccini. È vero?
Ti rispondo raccontandoti un episodio. L’altro giorno facevo lezione agli studenti di medicina sulla pillola anticoncezionale estro-progestinica e quando sono arrivata alla diapositiva delle reazioni avverse ho commentato la statistica degli episodi di tromboembolismo da estrogeni, molto più pesante degli episodi che si sono verificati con il vaccino AstraZeneca. Ho invitato i miei studenti a riflettere sul fatto che sul vaccino AstraZeneca si è scatenato un polverone di accuse e preconcetti di cui speriamo di liberarci al più presto mentre, per fortuna, a nessuna donna che usa i contraccettivi orali è mai venuto in mente che sta usando un farmaco pericoloso. I bugiardini dei farmaci sono per gli addetti ai lavori, i pazienti devono solo fidarsi del medico.
Proprio tutti dovrebbero vaccinarsi?
Sì, quasi tutti, rispettando ciò che suggerisce l’AIFA e l’EMA (età, stato di fragilità). Devono astenersi, dietro suggerimento medico, i pazienti pesantemente immunodepressi, o soggetti che assumono concomitanti terapie con farmaci immunosoppressivi.

Ringrazio la professoressa Emira Ayroldi per la cortese disponibilità e la semplicità con la quale ha reso comprensibili concetti così complessi. Dobbiamo aver fiducia nella Scienza e in questo particolare momento, in quella medica. Altrimenti, per coerenza, quando stiamo male rivolgiamoci all’idraulico…
Buona Pasqua a tutti!

* Solo alcune pubblicazioni della Prof.ssa Emira Ayroldi (dal 2018):
Ayroldi E, Petrillo MG, Marchetti MC, Cannarile L, Ronchetti S, Ricci E, Cari L, Avenia N, Moretti S, Puxeddu E, Riccardi C. Long glucocorticoid-induced leucine zipper regulates human thyroid cancer cell proliferation. Cell Death Dis. 2018 Feb 21;9(3):305.
Ayroldi E. Stress, Glucocorticoid and Cancer: Happy Tumor Cells. Journal of tumor Medicine and Prevention. May 08, 2018
Ayroldi E, Cannarile L, Delfino DV, Riccardi C. A dual role for glucocorticoid-induced leucine zipper in glucocorticoid function: tumor growth promotion or suppression? Cell Death Dis. 2018 Apr 26;9(5):463.
Ayroldi E, Cannarile L, Adorisio S, Delfino DV, Riccardi C. Role of Endogenous Glucocorticoids in Cancer in the Elderly. Int J Mol Sci. 2018 Nov 27;19(12). pii: E3774. doi: 10.3390/ijms19123774. Review. PMID: 30486460
Cannarile L, Adorisio S, Riccardi C., Ayroldi E. Implicating the role of GILZ in glucocorticoid modulation of T cell. Front. Immunol. Front Immunol. 2019 Aug 7; 10:1823. doi: 10.3389/fimmu.2019.01823. eCollection 2019.
Adorisio S, Fierabracci A, Muscari I, Liberati AM, Cannarile L, Thuy TT, Sung TV, Sohrab H, Hasan CM, Ayroldi E, Riccardi C, Mazid A, Delfino DV. Fusarubin and Anhydrofusarubin Isolated from A Cladosporium Species Inhibit Cell Growth in Human Cancer Cell Lines. Toxins (Basel). 2019 Aug 29;11(9). pii: E503.
Marchetti MC, Cannarile L, Ronchetti S, Delfino DV, Riccardi C, Ayroldi E. L-GILZ binds and inhibits nuclear factor κB nuclear translocation in undifferentiated thyroid cancer cells. J Chemother. 2020 Feb 18:1-5.
Muscari I, Adorisio S, Liberati AM, ThuyT, Sung TV, Cannarile L, Ayroldi E, Riccardi C, Delfino DV. Bcl-xL overexpression decreases GILZ levels and inhibits glucocorticoid-induced activation of caspase-8 and caspase-3 in mouse thymocytes. J Transl Autoimmun 2020 Jan 28; 3:100035.
Ayroldi E, Grohmann U. Exemplifying complexity of immune suppression by a "canonical" speech: A glimpse into TNFRSF-activated signaling pathways in Treg cells. Eur J Immunol. 2020 Jul;50(7):944-948. doi: 10.1002/eji.202048711. Epub 2020 Jun 24.
Ronchetti S, Ayroldi E, Ricci E, Gentili M, Migliorati G, Riccardi C. A Glance at the Use of Glucocorticoids in Rare Inflammatory and Autoimmune Diseases: Still an Indispensable Pharmacological Tool? Front Immunol. 2021 Jan 21; 11:613435.
Capitoli libri
-Migliorati G, Ayroldi E, Riccardi C. Farmaci del sistema immunitario –Immunostimolanti– In “Farmacologia, Principi di base e applicazioni terapeutiche” A cura di F. Rossi, V. Cuomo, C. Riccardi. 2018
- Emira Ayroldi, Stress e tumori: le cellule felici, in “Le emozioni nei contesti individuali e sociali”, Morlacchi Editore U.P., Perugia, 2018.


In Amore e guerra, l’esilarante film del geniale Woody Allen (1975), c’è una scena in cui gli “idioti dei villaggi” si danno appuntamento per il raduno annuale della categoria. Ovviamente nel film non c’è alcuna intenzione canzonatoria verso chi ha un qualche deficit, al contrario di quanto accade nella realtà in cui il presunto “scemo” è additato e deriso dagli altrettanto presunti intelligenti. Già, ma cos’è l’intelligenza?
Intelligenza “classica”
Negli anni ’80 diressi le équipes socio-psicologiche nelle tre scuole medie di Ostuni. Gli insegnanti segnalavano gli alunni con possibili problemi di apprendimento. Tra gli strumenti che avevo a disposizione per la valutazione, c’era la scala Wechsler (Wisc-R), una batteria di test messa a punto nel 1939, che fornisce il QI (quoziente intellettivo totale, verbale e di performance). Nell’accezione classica l’intelligenza è, in sintesi, la capacità di comprendere e risolvere un dato problema nel più breve tempo possibile. Questa definizione, insieme alla scala Wechsler, non mi ha mai convinto del tutto, poiché tuttora ritengo riduttivo valutare una persona solo sulla base di alcuni aspetti e non nella sua globalità.
Intelligenze multiple
Nel 1983 mi capitò di leggere un saggio appena edito: Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell'intelligenza di Howard Gardner psicologo e docente presso l’Università di Harvard. Nel libro l’autore ritiene sbagliato ricondurre l’intelligenza a un numero, il QI. Secondo Gardner esistono nove tipi di intelligenza e ognuno di noi può avere livelli più o meno alti in tutte, oppure in alcune delle seguenti categorie: linguistico-verbale (propensione per - p.p. - parole, scrittura, attività culturali in genere); logico-matematica (p.p. logica, simboli astratti e formule); visivo-spaziale (p.p. pittura, scultura e arti figurative in genere); ritmico-musicale (p.p. melodie e ritmi); cinestetica di movimento (p.p. attività fisica e manuale), naturalistica (p.p. attenzione per la natura e gli animali); interpersonale (p.p. lavoro di gruppo, occuparsi degli altri); intrapersonale (p.p. contemplazione, fantasia); esistenziale (p.p. i grandi temi dell’uomo e dell’esistenza).
Se è raro che tutte e nove queste forme di intelligenza siano espresse al massimo in un unico individuo, è comunque vero che ognuno di noi può riconoscere in se stesso la loro coesistenza con differenti gradi qualitativi e quantitativi.
L’intelligenza emotiva
Nel 1995 un altro professore di psicologia a Harvard, Daniel Goleman, riunì studi di precedenti autori con i suoi nel libro Intelligenza emotiva, una nuova prospettiva per la definizione dell’intelligenza. Alla misurazione classica (QI), Goleman contrappone IE (intelligenza emotiva), ovvero la capacità di interagire con gli altri e con se stessi, attraverso la gestione delle emozioni. Siamo consapevoli di una piccola parte delle tantissime emozioni che quotidianamente viviamo e che a volte sottovalutiamo o reprimiamo. Invece esse sono alla base del nostro essere, del comportamento e delle prestazioni intellettive. Pensiamo, per esempio, a quelle persone che, pur avendo un QI elevato, appaiono in affanno emozionale nelle relazioni interpersonali e/o con se stessi. Al contrario, molti individui che magari non spiccano per acume, dimostrano una dimensione emotiva equilibrata. Goleman illustra quattro fasi di cui si compone l’intelligenza emotiva: Autoconsapevolezza (essere coscienti di ciò che si pensa e si sente e del motivo per cui si sta pensando e sentendo una data emozione/situazione); Autogestione (gestire le emozioni negative e individuare quelle positive); Consapevolezza sociale (la condivisione delle proprie emozioni e la comprensione di quelle degli altri: empatia); Gestione delle relazioni (la capacità di interagire con gli altri in modo costruttivo, con legami positivi e rispetto per le altre persone). Per ovvie ragioni di spazio, non mi è possibile approfondire le varie teorie, ma mi preme aggiungere che essere intelligenti significa - anche - raggiungere i propri obiettivi senza calpestare i diritti altrui. Sono convinto che debba essere premiato ciò che ognuno può dare e mi piace spiegarlo con un esempio: se un muratore riesce a trasportare venti mattoni perché molto robusto e un suo collega solo cinque poiché meno forte, tra i due non c’è alcuna differenza perché entrambi hanno dato il massimo delle loro possibilità.
Anche ironia e autoironia, sono un importante indice di intelligenza. Presuppongono, tra l’altro, un continuo allenamento mentale, l’utilizzo di metafore, cogliere e ricercare altri significati che vanno oltre quello immediato delle parole che si dicono. A questo proposito, riprendendo il film di Allen, il raduno annuale dovrebbe essere quello dei presunti intelligenti che ridono degli e non con gli altri, soprattutto se inermi e indifesi.


Intervista all’autore, lo psichiatra Franco Colizzi
"Ecco, io sono qui. Semiseduto e aggrappato, non saprei proprio dire come, a questi lisci scogli scivolosi. Sono silenzioso, come assorto in contemplazione. Fisso l’onda leggera del mare che accarezza appena, ritmicamente, il piede destro. Il mio piede fluttua stancamente e questo moto di culla mi trasmette un’antica fiducia. Una strana, indicibile pace sta pervadendo il mio mondo interiore, mentre sto inabissandomi in un mulinello spazio-temporale. "

È appena uscito secondo libro di Franco Colizzi, nostro illustre concittadino, da cui è tratto il brano di apertura. Si intitola La suggeritrice (Manni editore) ed è, in un certo senso, la continuazione di un percorso “autoanalitico” iniziato con il suo primo romanzo, L’aggiustatore di destini (di cui scrivemmo nel numero di novembre del 2015, n.d.r.), nel quale interpretava se stesso, dunque uno psichiatra, impegnato nella quotidiana ricerca di valori e soluzioni per sé e per gli altri. La suggeritrice è un intenso e dotto viaggio nei sentimenti e nelle emozioni più profonde, per individuare le risposte ai ricordi, alle domande più intime e inconfessabili, per approfondire i temi e i conflitti comuni a tutti.
Incontro con l’autore

So che hai scritto anche saggi e libri specifici della tua professione di psichiatra. La suggeritrice, che ho letto con molto interesse, mi sembra un nuovo modo, un’evoluzione nella narrazione della mente.
Cogli un aspetto essenziale di questo romanzo interiore. L’incidente che mi ha procurato una grave frattura del collo del femore nel settembre del 2017 mi ha da subito trasferito in una particolare condizione mentale. Nel silenzio e nella immobilità forzata del corpo si è arrestato quel tipico chiacchiericcio che quotidianamente investe la nostra mente. Si è spalancata una dimensione contemplativa/meditativa a diversi strati di profondità. Ho cercato di rappresentare nel testo, anche attraverso l’uso del corsivo e il ricorso a memorie dentro memorie, questi diversi livelli della mia mente. Quello cognitivo, non solo di razionalità ma anche di più acuta consapevolezza, è prevalso agli inizi. Ma presto ha lasciato il campo a sedimentazioni profonde, emotivo-affettive, largamente inconsce ma non per questo inattive. Agli occhi della mente sono riemerse immagini della mia infanzia, dei miei genitori e ne è nato un dialogo con quella che chiamo la mia psicoanalista muta: una forma di metacognizione.
“Proprio mentre cadevo, il mio corpo, per dir così, risorgeva, riaffermava la sua essenziale presenza non cartesiana, non dualistica.” Descrivi così la caduta che diventa metafora della possibilità di migliorare a partire da un episodio drammatico. Una sorta di araba fenice e, insieme, una nuova, ulteriore presa di coscienza della propria umanità.
Una prima ri-conquista che la caduta mi ha consentito è stata quella del corpo. È con esso e attraverso di esso che noi sperimentiamo il mondo e ci sentiamo vivi, sin dal ventre materno. Eppure il corpo è trascurato, ritenuto, a torto, quasi solo uno strumento o pura immagine esterna su cui operare questo o quel maquillage. In realtà, come Nietzsche faceva gridare al suo Zarathustra e come ci insegnano le neuroscienze, il corpo vissuto è sapiente, ricco di conoscenza non solo della nostra naturalità ma anche della nostra umanità in evoluzione. E la prima sapienza riguarda la nostra mortalità, il riconoscere che siamo, come ben diceva l’imperatore-filosofo Marco Aurelio, creature di un giorno, cosa che dovrebbe indurci non alla sola malinconia ma anche al godimento dell’esserci, dell’esser vivi.
Nel libro ci sono citazioni di Camus, Omero, Foscolo, Pennac e altri. Mi sono sembrate tutte molto coerenti e ben inserite nel contesto narrativo. Come hanno influito questi grandi autori, nella tua crescita personale?
Le epigrafi dei diversi capitoli sono certo una forte componente letteraria, ma non sono un dotto esercizio. Esse fanno parte integrante dell’opera ed esprimono un altro livello della mia mente, quello del dialogo incessante che intesso da decenni con figure impegnate nella ricerca della loro umanità attraverso la scrittura, la poesia, la pittura, la musica, la filosofia, la scienza, la religione. Seguendo i loro passi, le cadute, le scoperte, i dolori, le folgorazioni ho approfondito la consapevolezza della condizione terrestre e della incredibile avventura dell’uomo. Tutti noi siamo debitori di questi cercatori. E io mi sento un debitore felice.
“Ho la resilienza dei miei genitori” ricordi a te stesso e sulla tua famiglia di origini torni altre volte nel libro, come nell’episodio in cui forse per la prima volta nella tua vita, sperimenti la rabbia. Che ruolo gioca l’educazione nella sublimazione e nel controllo dell’aggressività?
Tutti noi alberghiamo un bisogno sconfinato di amore e di libertà. Questo bisogno può, nel nostro percorso evolutivo, contaminarsi con l’aggressività che ci deriva dall’essere animali umani e condurci paradossalmente alla ricerca del dominio sull’altro e sulla natura o perfino alla distruttività del vivente e alla necrofilia. Amore e libertà vanno coltivati. All’inizio sono solo dei semi che richiedono, a loro volta, di essere innaffiati con amore e lasciati crescere liberamente. Mia madre mi ha insegnato a leggere e scrivere attorno ai cinque anni: non so come ci sia riuscita, ma ha presto alimentato il mio desiderio di sapere. La lettura, in particolare, mi ha consentito di sviluppare la capacità di riflettere su me stesso, sulle mie emozioni, sui miei pensieri, attraverso l’esplorazione di mondi sconosciuti e di storie possibili. L’etica implicita nel modo di vivere dei miei genitori, assieme alla nostra stessa condizione di vita nel rione Terra, mi ha poi acceso quella estate interiore di cui spesso parlava Albert Camus e che mi spinge sui sentieri della bellezza e degli oppressi. Ognuno di noi può seguire un cammino di liberazione, via via sublimando le proprie pulsioni e guadagnando la propria umanità, il più possibile nonviolenta e meno impura. Non è un cammino facile, ma è l’impresa più straordinaria che possiamo perseguire.
Come possiamo convivere con la nostra personale suggeritrice?
Innanzitutto dobbiamo imparare ad ascoltarla senza paura, a non rimuoverne la presenza, a cercare di vederla francescanamente come una sorella. Essa è la più grande ispiratrice del significato delle nostre vite e del valore di tutte le forme di vita, così contingenti e perciò stesse preziose. Quando la nostra mente si acquieta e ne accettiamo il silenzio, si aprono dimensioni leopardiane che spaventano, spazi immensi ed inimmaginabili espansioni temporali che rivelano il Nulla incombente sulle manifestazioni dell’Essere. Ma la visione di questo rapporto profondissimo tra Essere e Divenire porta anche con sé la conoscenza luminosa dell’interconnessione di tutte le cose: tat tvam asi, dicono le Upanishad, tu sei quello. Dovremmo far tesoro di tutte le vicende della nostra vita. Anche in quelle più dolorose e tragiche, come la pandemia che ci mostra quanto siamo comunità di destino, dobbiamo saper riconoscere con gratitudine che la vita è selvaggia ma al tempo stesso sempre preziosa.

Ringrazio Franco Colizzi e invito a leggere il suo bel romanzo: ci… suggerirà come vivere al meglio emozioni e sentimenti.

* Il libro è acquistabile online attraverso un qualsiasi sito come Mannieditore, IBS, Amazon, Feltrinelli e simili.


Intervista all’autore, dott. Luciano Peccarisi

Ostuni si rivela città prolifica in quanto a produzione libraria. Anche questo mese, infatti, presento un libro, il quarto, scritto da Luciano Peccarisi, noto medico e neurologo e, ci tengo ad aggiungere, mio amico fraterno sin dall’infanzia.
Sono un cervello, ma dove si trova la mia mente? In nessun luogo preciso, il pensiero è la relazione che ho con il mondo.
Queste frasi danno l’idea dell’approccio con cui l’autore introduce anche il lettore che ha una minima preparazione scientifica, nel complicato funzionamento del cervello umano. Infatti, il segreto di questo saggio è la semplicità con la quale sono trattate le interazioni con il mondo, con gli intrecci e le connessioni, con il resto della cultura, poiché tutto si lega. Non sappiamo da dove arriva la sensibilità, che diventa coscienza. Noi umani abbiamo l’autocoscienza, il Me. Ci accorgiamo di vivere. Usciamo da questo mondo per esplorarne un altro: siamo cervelli parlanti. Luciano Peccarisi con assoluta originalità fa parlare, appunto, un cervello, il quale racconta la propria storia.
Rischio di sembrare di parte, poiché ho avuto il privilegio di curarne l’introduzione, ma il libro è davvero molto bello e ne consiglio caldamente la lettura.
Incontro con l’autore
Vorresti spiegare ai nostri lettori, quali sono i temi e il filo conduttore?
I temi e il filo conduttore sono semplici, è un cervello che parla, con questo espediente raccolgo le ultime notizie su come funziona, le sue caratteristiche, anomalie e curiosità. E qualche mia considerazione più originale. Ma lasciami dire che la vita a volte è curiosa. Fino all’età di 11-12 anni io e te siamo stati vicini di casa, poi giovincelli nello stesso palazzo; abbiamo condiviso chitarra, canzoni ed estati. Poi le scuole superiori, in cui incontrammo un certo professore di lettere, Bartolo Anglani, che ci piaceva assai per la semplicità e l’acutezza delle spiegazioni. Tu sei andato a Padova all’Università, la prima sede della facoltà di Psicologia, insieme a Roma, in Italia. Ricordo quando mi parlasti dell’esame di Teorie della Personalità brillantemente superato con il prof. Alessandro Salvini. Io invece scelsi medicina a Bari, poi la specializzazione in Neurologia. Noi siamo rimasti sempre in contatto, ma mai avrei immaginato di scrivere un libro con la tua introduzione, la presentazione del prof. Salvini (Ordinario in Psicologia Clinica) e la postfazione del prof. Bartolo Anglani, diventato in seguito docente all’Università di Bari.
Eh sì, a proposito di “quant’è piccolo il mondo!”, al contrario della mente che pare non avere limiti geografici e che non si trova in nessun luogo, inteso come parte del cervello, poiché, come sostieni, “è il dialogo che instauro con il mondo”. Qual è, allora, il meccanismo che unisce mente e cervello?
Gli esseri viventi sono animati e a differenza delle pietre, le pozzanghere o la sabbia, ognuno di loro dal virus alla balena è in interazione con il suo ambiente, in senso lato ha una “mente”. La pietra, la pozzanghera e la sabbia non hanno nessun “dialogo” con ciò che sta attorno. Noi umani abbiamo una “mente” molto raffinata perché il nostro ambiente è diventato l’intero mondo; la ricchezza del mondo ha reso ricco, di ritorno, pure il cervello; per quelli che rendono proficua tale relazione.
Nel libro parli di dipendenze e di come molte di esse si debbano anche a meccanismi ormonali (dopamina). Esiste sempre una causa fisiologica a molte delle attività del nostro comportamento?
Esiste sempre una fisiologia che produce e mantiene le azioni, la causa può essere una disfunzione fisica primaria oppure una conseguenza di una situazione di vita e comportamento non adeguato. La dipendenza all’alcool, al cibo, al gioco o al fumo, una volta presente e consolidata, è difficile da combattere perché legata ai meccanismi del corpo. La causa iniziale può essere uno stress esistenziale, un disagio di coppia, un trauma psichico. Perciò bisogna intervenire su entrambi i versanti, fisico e psicologico.
Esiste la formula della felicità oppure star bene è un rapporto particolare tra hardware (il nostro fisico, il cervello) e il software (società, cultura, educazione?
Gli animali non si pongono tali problemi. Quando osserviamo il volare degli uccelli, un gatto o un cane sonnecchiare serenamente o il passeggio tranquillo del cane al guinzaglio con il padrone, pensiamo a sorta di forma di felicità. Non glielo possiamo domandare, possiamo però chiederlo agli animali umani che in genere sono pessimisti sulla realtà dell’essere felici. Forse ciò è dovuto alla peculiare capacità, legata alla comparsa del linguaggio, alla vita in comune, alla società e alla cultura, che ci ha reso macchine eccezionali nella capacità di prevedere il futuro. Una proprietà che ci ha reso invincibili e con la quale abbiamo conquistato il pianeta. Una proprietà che ha reso a molti di noi la vita più lunga e più agiata. Un effetto collaterale fastidioso, tuttavia, è stato però quello di prevedere la possibilità di malattie per noi o per i nostri cari e perfino di prevedere la nostra fine. E ciò, a differenza degli animali, che non pare la possiedano, porta a gravi conseguenze mentali, una sorta di depressione di fondo.
Nel libro sono presenti consigli pratici anche, ad esempio, per prevenire la perdita della memoria.
Da quando si è capito che il cervello non è un organo statico ma al contrario è dinamicissimo, un pullulare di neuroni che con le loro sinapsi, si attaccano, staccano, muoiono, crescono, si allungano, si restringono, si è compreso che se lo teniamo sveglio e attivo è meglio, per la sua durata ed efficienza. Uno dei primi sintomi di un suo ritardo è il deficit della memoria. Le strategie per mantenerlo in forma sono quelle del corpo. Una buona ed equilibrata nutrizione e un buon allenamento: leggere, scrivere, coltivare e praticare un interesse e una passione, qualunque essa sia. Non sarà la chiave della felicità, ma è quello che noi umani possiamo fare per sentirci meglio. Ogni essere vivente vive in una gabbia, pensate alla zecca il cui mondo è sentire il calore di un corpo e lasciarsi cadere sopra, riprodursi, tornare a terra, risalire su un ramo e aspettare che passi un corpo caldo. Noi viviamo nella gabbia più grande di tutti, un intero universo, è una fortuna, bisognerebbe sfruttarla nel migliore dei modi. Seppure si tratti sempre di una gabbia.
Mi ha colpito la distinzione che fai tra Sé, Io e Me; ha qualcosa a che fare con quella di Freud tra Es, Io e Super-Io?
Sono sempre stato affascinato dalla capacità di Freud di rendere più chiaro il mondo della mente umana e della coscienza, con quella distinzione. Ha aperto una nuova visione, non solo della psicologia ma in tutti i settori della società e cultura. Basti pensare all’influenza sulla letteratura o sul cinema. Tuttavia non era basata su basi neurologiche, che ai tempi di Freud non era possibile avere. Nella divisione che propongo, si possono individuare le strutture che ne stanno alla base. I casi clinici che nel tempo sono stati descritti, e che io riporto, rendono bene l’idea di cosa può fare un cervello che funzioni solo con un elemento o con due. Il Me, ad esempio, è completamente assente nel sonnambulismo e nel sogno profondo. L’Io è assente nei gravi casi di perdita della memoria e il Sé, che preside alla vita del corpo, è l’ultimo a resistere nel coma e nella vita vegetativa. Anche lievi disfunzioni dei lobi frontali rendono piatta la creatività o al contrario la esaltano, in questo vi è la grandezza del Me, e la sua disgrazia.
Ringrazio il dott. Luciano Peccarisi e invito ancora alla lettura di questo libro che stupirà per la semplicità con cui apprenderemo nozioni ritenute difficili e complesse.

* Il libro è reperibile: a Ostuni presso la Bottega del Libro di c.so Mazzini e il Mondadori Point di via Pola. È acquistabile online attraverso un qualsiasi sito come Tempesta Editore, IBS, Amazon, Feltrinelli e simili.
Dello stesso autore:
“Il miraggio di conosci te stesso”; “Dialogo tra il cervello e il suo Io”; “Il cervello immaginante” riedito nel mese scorso con il titolo “Quando il cervello immagina”.


(Articolo scritto in occasione delle celebrazioni del centenario dello storico mensile ostunese "Lo Scudo")
Parafrasando il titolo del celeberrimo romanzo del premio Nobel Gabriel García Márquez, mi unisco alle celebrazioni del centenario di questo storico mensile ostunese. Cent’anni di consuetudine, poiché la pubblicazione non è mai stata interrotta, nemmeno durante la seconda guerra mondiale o la chiusura per Covid-19 del 2020. Consuetudine perché, si sia o no d’accordo, ha comunque descritto le vicende di Ostuni costituendo un archivio di indiscusso valore storico. Consuetudine, ancora, poiché è entrato nelle case di tantissimi ostunesi anche residenti altrove, divenendo un punto di riferimento, un legame con la propria città. Azzarderei un'altra similitudine con il romanzo di Márquez, la magia. Sempre presente nel capolavoro del maestro colombiano, sembrerebbe un’ottima spiegazione anche della longevità de Lo Scudo, ma non si farebbe onore all’abnegazione dei tanti volontari che in questo secolo di vita del giornale, ne sono stati il reale motore. In effetti, è molto più semplice spiegare alcuni “fenomeni” o anche normali fatti quotidiani, con la magia. In psicologia il pensiero magico consiste, infatti, nel dare spiegazioni prive di fondamento a qualcosa, senza alcuna logica e prova pratica. È classico dell’età che va dai due ai sette anni periodo nel quale tutto è possibile e siamo convinti di possedere il potere di influenzare gli eventi. Solo più avanti negli anni, con l’aumento delle esperienze personali concrete, delle conoscenze scientifiche di base, ma anche con il fisiologico sviluppo cerebrale, il pensiero magico regredisce senza, però, sparire mai del tutto. È un espediente del nostro cervello che, soprattutto nell’infanzia, cerca scorciatoie semplici (euristiche), per spiegare processi al momento incomprensibili. È un retaggio dei nostri antichi progenitori che, non avendo alcuna nozione scientifica, attribuivano agli eventi naturali cause soprannaturali, esoteriche. Così, il timore di una belva che poteva celarsi nel buio, è diventato paura dell’uomo nero, i rituali per il raccolto o per la pioggia sono divenuti pratiche per tenere lontana la iella o per ingraziarsi la buona sorte, magari con amuleti e ninnoli vari. Nascono la superstizione, la scaramanzia, l’occultismo, la fede in guaritori e così via. Questi ritualismi hanno anche lo scopo di attenuare l’ansia derivante dalla non conoscenza dei meccanismi che sono alla base di tanti eventi naturali ma ritenuti inspiegabili: “se non comprendo, ricorro a un modo più semplice per interpretare ciò che non capisco e che mi fa paura”. La mente umana ha necessità di dare ordine agli avvenimenti, di incastrarli in un contesto accessibile e accettabile anche se spesso poco logico e plausibile. Il più delle volte, però, questa tendenza a esemplificare può condurre a impelagarsi in una bolla di ipotesi nella quale tutto è possibile e nulla è davvero certo. Se vediamo una luce insolita nel cielo, le spiegazioni possono essere davvero tante - satelliti, normali oggetti che si infrangono al contatto con l’atmosfera, sonde meteorologiche e così via - ma alcuni sono portati a pensare “chi mi dice che non siano Ufo (nel migliore dei casi) o apparizioni di entità appartenenti a mondi paralleli? ” Quasi sempre il pensiero magico prevede forze soprannaturali, come quando si pensa che le proprie azioni o ciò che si pensa, possano influire su ciò che accade all’esterno come aprire un ombrello in casa, poggiare un cappello sul letto, rompere uno specchio e così via: lo sviluppo abnorme del pensiero magico, può portare alle più assurde conclusioni - ed è presente in alcune psicopatologie, per esempio di tipo ossessivo-compulsivo e schizoide -. Lo stesso accade in questo periodo di pandemia in cui eminenti “virologi da tastiera” estrapolano astruse teorie e convinzioni che nemmeno la fervida fantasia di Gabriel García Márquez avrebbe mai partorito. Menomale…


L’anno scorso, proprio in questo periodo, i contagi da Sars-Cov-2 stavano nuovamente aumentando in modo preoccupante. Alcune esternazioni davvero poco felici, oltre che completamente errate, di un noto primario non virologo e di alcuni politici, spinsero ad abbassare la guardia verso questo temibile virus, con le conseguenze che tutti conosciamo. A un anno di distanza, sono cambiate molte cose. Innanzitutto ora c’è il vaccino e la grande maggioranza degli italiani lo ha accettato come unico, per ora, mezzo di difesa contro la Covid-19. Purtroppo si deve registrare anche una minoranza che, con motivazioni spesso molto strampalate, è contraria al vaccino. Questa, per sommi capi, la situazione al momento e chiedo all’ideatore e organizzatore del Festival della Cooperazione Internazionale, il dott. Franco Colizzi psichiatra, qual è il tema o i temi della quinta edizione 2021
- Franco Colizzi: abbiamo scelto di proseguire sulla scia del tema dell’anno 2020, che era “Imparare dalla pandemia”, in quanto il semplice ritorno alla vita precedente, tale e quale a tutti i livelli, è non solo illusorio, ma dannoso; per questo, anche se la pandemia è ancora in corso, il tema è “L’arte di vivere insieme nel Mediterraneo dopo la pandemia”. Proponiamo, cioè, di riflettere da subito su come si potrebbe vivere meglio, in maniera più coesa e solidale, dopo aver appreso le lezioni della pandemia. E lo proponiamo sin d’ora perché bisogna saper “fraternizzare anche nell’incertezza”, come dice Edgar Morin, cosa che richiede un tempo non breve di apprendimento e di condivisione sociale e culturale delle relative prassi.
- Io: nelle note fai cenno alla sindemia che stiamo vivendo, vale a dire la concomitanza di più patologie ognuna delle quali influenza negativamente le altre. Potresti spiegare, anche nel tuo ruolo di medico, come questo “nuovo” termine potrà influenzare il nostro vivere quotidiano?
- Franco Colizzi: parlare di sindemia significa capire che, in un mondo segnato da ampie disuguaglianze sociale e ambientali, sono numerosissimi i fattori, che possiamo chiamare determinanti sociali della salute, che concorrono, interagendo tra di loro e con il virus SARS-CoV-2, a produrre esiti ancora più catastrofici in termini di morte, disabilità, dolore, disgregazione sociale ed economica, squilibri ambientali, fattori sui quali dobbiamo imparare ad intervenire con conoscenza e decisione politica per migliorare in generale la qualità della nostra vita e della nostra convivenza. Non possiamo arrenderci alla diffusione dell’insicurezza, la cui conseguenza sarebbe la “monarchia della paura”. Con questo spirito dovrebbe essere realizzato il PNRR italiano finanziato dalla Unione Europea con il Next Generation EU.
- Io: “arte di saper vivere insieme” è una proposta molto interessante del festival
- Franco Colizzi: sì, mi affascina anche perché è un’aspirazione umana universale. Nel cammino verso questo orizzonte possiamo farci accompagnare dalle grandi visioni di speranza, come quella che Raoul Follereau ha condensato nella frase “l’unica verità è amarsi” e come l’approccio del convivialismo (di cui avremo un alto rappresentante francese al Festival) che ci ricorda innanzitutto la nostra comune naturalità, il nostro essere in un rapporto essenziale di interdipendenza con la Natura. Le esperienze di speranza di cui è ricca la genuina cooperazione internazionale valorizzano anche la comune umanità e la comune socialità di ogni essere umano, riconoscendone il bisogno legittimo di individuazione e di opposizione creatrice. Ecco allora che la cooperazione internazionale si presenta a tutti noi come un grande patrimonio di pratiche di speranza, al cui interno possono fiorire visioni di giustizia sociale, movimenti di protesta e di volontariato, religiosità inclusive, il pensiero critico e le arti espressive della diversità umana.
- Io: cinque giornate dal 26 al 30 ottobre, distribuite tra Ostuni, Brindisi e Massafra. Ci indicheresti alcuni degli appuntamenti in queste date?
- Franco Colizzi: ci sarà una prima giornata calcistica speciale nel campo sportivo di Ostuni il 26 ottobre, con pazienti, operatori e calciatori insieme per “fare squadra nella comunità”; ci saranno incontri nelle scuole aderenti (con un monologo teatrale sul Testamento ai giovani di Follereau); il 27 ottobre un seminario nazionale su “Disabilità e inclusione sociale”, con la contestuale presentazione di un libro testimonianza sul tema; alcuni webinar ad accesso gratuito il 28 e 29 ottobre approfondiranno i temi della sindemia con figure di alto livello professionale e culturale; un convegno a Brindisi si occuperà del nuovo Corso di laurea in cooperazione internazionale dell’UNISALENTO; a Massafra si replicheranno alcune di queste attività e vi sarà la mostra di Carrozzo sui migranti nel Mediterraneo “Itaca sempre”; il 30 ottobre nel Polo Universitario di Brindisi corso ECM su “Salute mentale e diritti umani” aperto a tutte le professioni; una serata conviviale chiuderà il Festival celebrando i venti anni del gruppo AIFO di Ostuni “Maria Dolores Tanzarella” .
Ringrazio il dott. Colizzi rilevando come, in questi tempi in cui ci si riesce a dividere anche su temi ovvi come quello della salute pubblica, un evento che invece ha proprio l’obiettivo di unire è davvero cosa rara da encomiare e sostenere.


Mi stimo e mi incoraggio!
Ho poche fotografie della mia infanzia. Cinquant’anni fa non esistevano macchine digitali né, ovviamente, smartphone ma soprattutto non c’era la consuetudine/mentalità di avere chissà quante foto: giusto per gli eventi importanti quali comunione, matrimonio, i rari viaggi e altri eventi ritenuti importanti. Così, giorni addietro mi è capitato di rivedere alcune foto di quei tempi e in particolare una in cui ero con mio padre. Avevo dodici anni e mio padre sarebbe deceduto da lì a qualche mese ma, nonostante questo, conservo ancora una bella sensazione della sua mano sulla mia spalla. Un gesto normale, ma che nel mio vissuto significava fiducia e mi rendeva orgoglioso, faceva crescere la mia autostima, termine ormai entrato nel linguaggio comune e utilizzato in tante occasioni, a volte a sproposito. Lo si usa per indicare le cause di scarse prestazioni nelle relazioni sociali come al lavoro, a scuola, nello sport e così via.
Cos’è l’autostima
Chiarito che non è la valutazione che ognuno può fare della propria macchina, battute a parte, l’autostima si può definire come il complesso dei giudizi e della considerazione che abbiamo di noi stessi. Siamo dotati di un sistema che vigila sulle nostre azioni durante la vita di tutti i giorni e consente di esprimere un giudizio su noi stessi. Questo sistema è in relazione con il mondo esterno e ne è a sua volta condizionato: ci attendiamo dagli altri solo valutazioni positive e tendiamo ad adeguarci a schemi, spesso superficiali o che non ci appartengono, proprio per acquisire quel consenso che ci fa sentire accettati. È la continua lotta tra il sé reale e il sé ideale: il primo rappresenta ciò che realmente siamo e possiamo fare; il sé ideale si riferisce, invece, a come vorremmo essere, al modello cui aspiriamo. A una minore differenza tra i due sé, corrisponde maggiore autostima e viceversa. Il sé ideale è, per così dire, un progetto che coltiviamo nel tempo e che può farci immaginare spigliati, forti, intelligenti, bravi in uno o più sport, affascinanti e così via. Nella realtà, invece, spesso ci si imbatte in circostanze che negano le nostre aspettative, ecco dunque crescere la frustrazione tra ciò che avevamo preventivato e ciò che realmente accade. Avere una sufficiente stima di sé indica un buon compromesso tra successi e fallimenti, tra pregi e difetti valorizzando i primi e analizzando (o minimizzando) le sconfitte, affinché siano elaborate e superate. Una bassa autostima può portare a scarsa partecipazione nelle relazioni con gli altri, al disinteresse per la maggior parte delle attività che richiedono un intervento in prima persona: chiunque può essere più prestante, intelligente, simpatico di noi e anche un minimo ostacolo può diventare una montagna insuperabile.
Le cause
Esistono varie combinazioni che determinano la qualità della stima che abbiamo di noi stessi. Sicuramente le fasi più delicate riguardano l’infanzia e l’adolescenza, periodi nei quali si forma la nostra personalità. Un’educazione troppo permissiva in cui tutto è consentito e nella quale non esiste il “no”, può portare il bambino a non sapere affrontare le minime difficoltà quando, per esempio, andrà a scuola e dovrà confrontarsi con gli altri e con gli inevitabili, frustranti rifiuti. Anche un’educazione troppo severa, che pone troppe limitazioni con controlli estenuanti e spesso inutili, può causare problemi di valutazione delle proprie capacità/possibilità. La perfezione non esiste, ma è bene tendere a un equilibrio che preveda, per esempio, sintonia e non divergenze eccessive da parte dei genitori quando impartiscono disposizioni educative: il “no”, meditato, deve rimanere tale, così come le promesse in positivo. Altre cause non meno importanti, sono costituite dai modelli che la società propone: costantemente sopra le righe, i giovani sono costretti a confrontarsi con livelli sempre più difficili da raggiungere. Il risultato, molto di frequente, è una distorsione cognitiva delle proprie capacità.
Alcuni consigli
Proviamo a stilare un elenco di quelli che reputiamo siano i nostri lati negativi e delle situazioni che ci intimoriscono, a partire dalle più lievi fino alle più importanti. Iniziamo ad affrontare le voci della lista che ci spaventano di meno, per poi passare gradualmente a quelle più difficili. Per esempio, se non riusciamo a intervenire durante un normale incontro tra amici o conoscenti, iniziamo a inserirci inizialmente con brevi frasi, poi sempre più lunghe, senza fermarci dopo i primi tentativi. Inoltre, chiediamoci se stiamo assecondando e inseguendo un modello che non ci appartiene, come nel caso di un ragazzo che mi riferì di non essere assolutamente interessato al gioco del calcio, ma che si sentiva escluso quando i suoi amici ne parlavano. Spesso, infatti, possediamo qualità che non si allineano con il conformismo generale, ma che sono altrettanto valide se non superiori alla media. Inviterei ad aggiungere all’elenco suggerito, anche i nostri sogni, le aspirazioni che ci farebbero stare bene, anche se si discostano dalla media. Se abbiamo anche solo un ricordo di qualcosa simile a una mano sulla spalla, prendiamo spunto da questa sensazione per non permettere a nessuno di convincerci di essere un brutto anatroccolo e non il cigno che realmente siamo.


Con la massima prudenza e scegliendo locali che sicuramente richiedono la certificazione vaccinale, ogni tanto andiamo a cena fuori con mia moglie e amici. Sere addietro eravamo, appunto, in compagnia di un mio fraterno amico sin dall’infanzia, Franco Cavallo medico fisiatra di Ostuni e sua moglie Franca Cosola, fisioterapista. Si parla un po’ di tutto e inevitabilmente delle esperienze passate che la nostra memoria reputa più spensierate e adatte a un clima conviviale. Così, i ricordi spaziano da quando suonavamo per la “messa dei giovani”, o “messa beat”, evento che attirava tantissimi giovani, agli anni vissuti a Padova all’università che entrambi abbiamo lì frequentato, e così via. Inevitabilmente, però, dal deposito dei ricordi iniziano a emergere anche frammenti di esperienze che ci hanno toccato profondamente, accompagnate da emozioni mai sopite come quando, da ragazzi, facevamo volontariato. Ed è così che mi viene l’idea di scrivere questo articolo dedicandolo al volontariato, appunto, e nello specifico a uno dei possibili modi in cui si sviluppa la disponibilità ad aiutare gli altri. Questa necessità è insita nell’essere umano e nasce dall’antica esigenza di proteggere i membri del gruppo d’appartenenza, per rafforzare le risposte agli eventuali attacchi esterni. Nel tempo questo equo compromesso tra la propria e l’altrui sopravvivenza si è spostato verso i più deboli, gli indifesi.
“’Tu non mangi con questo piatto davanti e non sai quanti bambini nel mondo non hanno di che mangiare, sono poveri e affamati’, diceva mio padre” ricorda Franco e continua “non ero un gran mangiatore. Molto esile e magro da bimbo, dovevo essere più volte stimolato per assaggiare il cibo, ogni giorno. E mio padre usava ripetere semplicemente, con la sua delicata dolcezza e allo stesso tempo fermezza, quelle parole allora per me incomprensibili. ‘Ma dove vivono questi bambini e perché non possono mangiare?’, mi chiedevo. Nell’età dell’adolescenza ho continuato a riflettere su quei moniti di mio padre e pian piano il messaggio si schiariva. Imparare a guardare oltre, aprirsi al mondo, cominciare a chiedersi il perché di tanta disparità e tanta sofferenza nelle diverse regioni del mondo e capire che in fondo siamo tutti responsabili delle condizioni del nostro vicino e tutti strettamente interconnessi e costruttori del divenire, nell’avventura della nostra vita. Iniziare a vedere in modo critico la realtà e il mondo che ti circonda. Decidere una direzione da prendere circondato dagli amici e compagni con cui senti di condividere gli stessi ideali e scegliere una strada da percorrere insieme”.
Seguo ammirato le parole di Franco e ricordo che anche mia madre mi ammoniva ‘se fossimo stati in guerra, avrei mangiato bucce di patate anziché quel fumante piatto di pasta’. Evidentemente erano considerazioni che i genitori dell’epoca facevano proprio perché alcune situazioni drammatiche le avevano davvero vissute. Per Franco quelle frasi hanno poi rappresentato la molla per fare qualcosa di concreto per gli altri, e qui ricorda il suo legame con Antonio, che anch’io ho conosciuto. Gli chiedo quanto anche questo rapporto abbia contribuito alle sue decisioni di vita e lui mi riporta con la memoria ad anni nei quali facevamo tante cose insieme
Tutto è iniziato per il piacere di condividere momenti di divertimento con i bambini accolti nell’Istituto La Nostra Famiglia con il nostro gruppo di suonatori di fisarmonica, tamburelli e batteria per ritrovarsi a diventare sempre più maturi e ricchi dentro di giorno in giorno. Inizi a comprendere da vicino che cosa significa sofferenza e discriminazione e la difficoltà di affrontare la condizione di disabilità e di handicap negli anni ’70 - ’80. Così conobbi Antonio, un ragazzo un po’ più grande di me, portatore di tetradistonia spastica, una disabilità vissuta con profondo malessere perché circondato da ‘ignoranza’ (come usava dire lui). Antonio era molto più maturo rispetto alla sua età, costantemente arrabbiato nei confronti di una società che aveva sempre sentito ostile e falsa. Un freno, un muro che non si è mai aperto per lui che non ha potuto godere delle soddisfazioni di vedere riconosciute le sue reali capacità, discriminato per la sua disabilità, nonostante le sue normalissime capacità cognitive. Aveva conseguito il diploma di ragioniere ma gli era stata concessa solo una mansione di giardiniere e un po’ di fattorino ‘factotum’. Nonostante la disabilità era un ottimo allenatore di calcio per la fortuna dei bambini che lo hanno avuto come maestro di vita”.
Ricordo bene il loro rapporto di amicizia che definirei disinteressato, completo, sincero e ben lontano da ogni stereotipo buonista, distante anni luce dalla carità fatta per tacitare la propria coscienza. Conosco anche l’epilogo di questa vicenda e mentre Franco ne parla, noto gli occhi lucidi per l’emozione mai sopita dopo tanti anni
Antonio non c’è più, aveva perso il lavoro per incomprensioni, era disperato perché avrebbe rischiato di non raggiungere la minima contribuzione pensionistica. Ricordo l’ultimo incontro e il suo pianto di rabbia disperata per l’ingiustizia che gli era capitata. Se n’è andato deluso e con le sue convinzioni di un’umanità ‘non buona’, pur riconoscendo singole persone sincere su cui contare, ma non aveva finito mai di gridare contro la falsità e l’ignoranza, rinchiuso nella sua profonda sofferenza”.
Conosco la risposta, ma ugualmente gli chiedo quanto queste esperienze abbiano influito nella sua formazione
non è un mistero che abbia scelto di fare il medico fisiatra, proprio per cercare di essere utile e a contatto quotidiano con persone disabili, le più fragili e deboli, spesso a rischio di emarginazione e discriminazione e con cui cerco di instaurare rapporti di empatia nella speranza di offrire un reale supporto leale di condivisione con amore, parola che rappresenta la vera chiave per la soluzione dei nostri problemi e ancora più significativa la parola ‘carità’ che è poi quella che veramente serve per favorire i percorsi di fratellanza e di giustizia per tutti. Considerare l’altro come a noi ‘caro’, importante, prezioso. Adoperarsi per il bene di tutti”.
Sì, Franco è sempre stato così e a distanza di tanti anni ritrovo in lui la stessa forza unita a una amabilissima gentilezza. Attualmente svolge anche volontariato con la moglie Franca, nell’associazione AIFO (Amici Italiani di Raoul Follereau) ispirata agli ideali del Fondatore per “combattere la lebbra e tutte le lebbre del mondo, in primis l’indifferenza e poi l’egoismo e l’individualismo coltivando i principi della solidarietà umana contro ogni forma di discriminazione e segregazione”.
La serata si avvia alla conclusione e, nonostante alcuni ricordi tristi, la sensazione è di tranquilla consapevolezza, di arricchimento come sempre succede quando i temi sono così ‘forti’ e trattati con emozioni vere, genuine, non mediate da isterici integralismi. L’augurio che vorrei fare per questo Natale, è che ognuno di noi, indipendentemente dal proprio credo religioso e politico, faccia qualcosa per chi soffre, per gli altri e non solo per il periodo natalizio e nemmeno per sentirsi a posto con la propria coscienza. Fare per gli altri, significa anche provvedere a noi stessi, a quella parte che inevitabilmente ha bisogno di attenzioni, un’ottima terapia per sentirsi bene.

Altri anni:

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