Dott. Franco Sponziello
Psicologo

Articoli e pubblicazioni - Anno 2016

Altri anni:


Ricordo che quando vidi per la prima volta il film Moby dick, diretto da Jhon Huston e magistralmente interpretato da Gregory Peck, feci il tifo per la balena bianca (in realtà un capodoglio). Intuivo che la caccia al cetaceo era diventa un'ossessione per il protagonista, autoritario e psicopatico, ma leader indiscusso della sua ciurma e il cui scettro, l'arpione, simboleggiava il prolungamento della sua potenza sul cetaceo (sulle proprie angosce). L'uomo è cacciatore e, sia che peschi, che spari o 'conquisti' una donna, utilizza comunque simboli simili alla fiocina del capitano Achab. Metafore che fanno parte di una sorta di 'mitologia' creatasi nel tempo sulla figura dell'uomo-guerriero, forte ed eroico/erotico e, in qualche modo, con sembianze animali. Quando davvero si doveva lottare per sfamarsi, procacciandosi il cibo con lance e clave, un senso poteva pure esserci nel venerare chi rischiava la vita per sopravvivere. All'immagine dell'uomo cacciatore da cui dipendeva la sorte della comunità in cui viveva, si associava inevitabilmente l'idea di forza, di supremazia e di autorità. Questa figura è stata interiorizzata nell'inconscio collettivo e continua a far parte di un certo schema mentale – o modo di pensare, che dir si voglia – ancora ben radicato. Tra tutte le manifestazioni dell'uomo-guerriero, la caccia agli uccelli, tuttora permessa e tutelata in Italia, mi sembra un buon esempio di come alcuni continuino a manifestare la propria presunta superiorità, sparando a inutili prede con un fucile (meno lungo della fiocina, ma il simbolismo ci sta tutto...). Inutili in quanto non v'è ragione di procacciare la carne, in sovrabbondanza e acquistabile ovunque, anche nei giorni festivi. Eppure le giustificazioni sono tante, le più gettonate sono: "per respirare un po' d'aria pura..." e "per fare un po' di moto". Non intendo sostenere che tutti i cacciatori siano di per sé affetti da una qualche patologia, assolutamente. Il problema è l'anacronistica illusione di praticare uno 'sport' quando, invece, si sta attuando un rituale più o meno inconscio, volto a confermare il predominio sulla natura, un riscatto nei riguardi di una realtà che nella vita di tutti i giorni non 'rispetta' più l'uomo-guerriero. Nella zona di caccia, con la 'divisa' classica e gli accessori idonei (cartucciera, richiami vari, cane... ), l'arcaico spirito primitivo si palesa e un'euforica sensazione di dominio, rende il cacciatore finalmente padrone della situazione. Sto volutamente esagerando, né penso che sia così per tutti i cacciatori. Alcuni, per esempio, seguono le 'orme' del genitore da cui hanno appreso che l'uomo dimostra la propria superiorità se ha un fucile e uccide uccelli (o qualsiasi altro capo di selvaggina), in un rituale che ricrea l'atmosfera, ormai indistinta, del padre che provvede al sostentamento della famiglia. L'esempio del cacciatore è solo un pretesto, un esempio, per evidenziare un dato importante: gli schemi sociali sono profondamente cambiati e continuano a modificarsi con velocità sempre crescente; al di là del giudizio che ognuno ha riguardo questo processo, tornare o rimanere su posizioni arcaiche è segno di immaturità, se non di nevrosi. Il problema è sempre, cacciatori a parte, l'esempio: conduciamo i nostri figli su percorsi che non prevedano l'utilizzo di simboli e atteggiamenti aggressivi da Uomo che non deve chiedere mai! Essere uomini significa anche commuoversi. Che il 2016 sia un buon anno di esempi.


Qualche tempo addietro, ero in auto aspettando che il semaforo mi desse via libera. A interrompere il dolce sovrappensiero, utile rifugio in molte occasioni, fu un signore che attraversò proprio davanti a me. Aveva dei tratti familiari, e mi suscitò un ricordo vago, in qualche modo spiacevole. Ma sì, era Mario, un mio compagno di scuola. Probabilmente non risiedeva qui e, comunque, non lo vedevo da oltre quarant'anni! Avevamo litigato? Se sì, non ricordavo bene il motivo. Permaneva, comunque, una sensazione d'ingiustizia, di torto subito e mai 'riparato' e di vendetta non consumata. La mia, ovviamente. A mano a mano, i ricordi riaffiorarono e mi dissi che le motivazioni dovevano essere futili, ragazzate che hanno peso solo sulla bilancia della giovinezza. Eppure, il disagio rimane nella memoria. Nel caso specifico non c'era stato modo né, probabilmente, voglia di chiarirsi, ma il punto non era quello: era la vendetta mancata. Quante volte sentiamo l'impellente necessità di vendicarci per un torto subito? Quanto ci disturba lo 'smacco', l'offesa, l'ingiustizia perpetrata ai nostri danni? Con quale metro misuriamo la 'ritorsione' adeguata, atta a placare il nostro risentimento? Beh, non è semplice rispondere, poiché le variabili sono davvero tante. Ognuno di noi reagisce, a parità di 'affronto', in modo diverso: dal semplice ci passo su, alla ben più logorante ruminazione mentale, pensando e ripensando in continuazione, perdendo il sonno, in una sorta di vortice di amarezza che sembra avere un'unica via d'uscita, vendicarsi appunto. La vendetta, dunque, quale unico mezzo per diminuire la 'pressione' dovuta al mancato soddisfacimento, alla negata giustizia per l'affronto subito. C'è qualcosa di infantile in questo meccanismo, che spesso sottende una tendenza più o meno conclamata alla depressione. Infatti, è tipico di questo disturbo il perseverare su pensieri angoscianti che si ripresentano senza soluzione di continuità. Sicuramente la difficoltà dell'accettazione di sé, gioca un ruolo fondamentale. In realtà, paradossalmente, la difficoltà di perdonare è strettamente legata all'assolvere se stessi, dunque ad accettarsi: quanto più riusciamo ad ammettere di poter sbagliare, tanto più accetteremo quelle che riteniamo ignobili offese nei nostri riguardi. Non è solo questione di etica o di buona educazione o, ancora, di coerente aderenza alla propria religione: perdonare è catartico, indubbiamente liberatorio, dunque apporta benessere psicologico. Non solo. Le ripercussioni del risentimento sulla salute, in particolare sulle malattie cardiovascolari, sono oggetto tuttora oggetto di studio. Friedman e Rosenman, già nel 1974 notarono come nei soggetti con problemi cardiovascolari, l'ostilità era frequente e duratura costituzionalmente. Non intendo sostenere che sia l'unica causa di talune patologie, ma di certo un atteggiamento meno incentrato alla vendetta e più volto alla disponibilità, alla benevolenza, al perdono appunto, sicuramente giova. Spesso abbiamo appreso dai nostri genitori a vivere 'drasticamente' alcune situazioni: li abbiamo visti adirati con 'qualcuno' o per 'qualcosa' e fin qui nessun problema se abbiamo potuto constatare che la situazione si andava ricomponendo e la 'tempesta' si placava in tempi ragionevoli. Quando, invece, il malumore continua anche per giorni, coinvolgendo anche i rapporti familiari con litigi e prese di posizione, sarà facile assumere in seguito gli stessi comportamenti di risposta. Un'abitudine, insomma, che potremmo cercare di modificare con l'impegno a valutare diversamente i nostri desideri di vendetta: "vale la pena?", "è poi così grave?", e anche dando una vera e propria scadenza temporale al malumore. Mi piace concludere questo breve articolo con una significativa riflessione di George Orwell: "La vendetta è un'azione che si vorrebbe compiere quando e proprio perché si è impotenti: non appena questo sentimento di impotenza scompare, svanisce anche il desiderio di vendicarsi." P.s.: per la cronaca, rincontrai quel mio conoscente giorni dopo e mi presentai. Non ricordava nemmeno lui il motivo del 'rancore' e insieme decidemmo che non era mai esistito.


Più ti ho, più mi manchi...
Abito in una città a pochi chilometri dal mare. Una fortuna, anche se non lo vediamo anche per mesi, sappiamo che è lì, ne avvertiamo la discreta presenza e ci manca solo quando siamo per lunghi periodi in posti dove il mare è lontano. Qui, siamo abituati a sapere che è raggiungibile in qualsiasi momento e, anche se per alcuni non è 'indispensabile', per tutti è uno dei fondamentali punti di riferimento. Tante sono le cose di cui non ci accorgiamo, se non quando ci rendiamo conto della loro assenza. Analogo processo avviene per le relazioni affettive: siamo sicuri dei nostri rapporti con gli altri, fino a quando qualcosa interviene a insidiare la consuetudine del contatto.
La consapevolezza dell'assenza
così potremmo definire quel particolare stato di smarrimento tipico del momento in cui ci accorgiamo che qualcosa o, soprattutto qualcuno, ci manca. Il caso estremo è il decesso di una persona cara, ma questo è per sé un evento ineluttabilmente definitivo, che esclude, cioè, ogni possibilità di ristabilire la situazione precedente. Vorrei, invece, riferirmi alle relazioni la cui durata può variare. La sovrabbondanza di stimoli, spesso assolutamente inutili, cui siamo quotidianamente sottoposti, contribuisce a favorire la sensazione di poter fare a meno di ciò che realmente è importante. Una sorta di assuefazione, di overdose di stimoli e conseguente abitudine agli stessi, che anestetizza la capacità di discernere tra utile e futile: guardo la Tv o partecipo alla realtà virtuale dei social network (Facebook, solo per citare il più noto) e sono letteralmente subissato da informazioni che solo apparentemente fanno parte della mia reale vita affettiva. Le esperienze che vedo o leggo, appartengono agli altri, ma mi convinco siano in qualche modo mie, dunque iniziano a far parte di me anche se, in realtà, probabilmente assorbo acriticamente le varie informazioni. Sono solo alcuni esempi e, sia ben chiaro, non intendo assolutamente denigrare il corretto (e consiglierei parsimonioso), utilizzo dei mass media e di altri mezzi di comunicazione, che ormai fanno parte della nostra esistenza. Insisto, però, su questi particolari contenuti in quanto, rispetto a quando ci confrontiamo con persone reali, è più facile che i nostri filtri critici stentino a fare il loro lavoro, si allentino e ci facciano percepire come indispensabili concetti e bisogni spesso, appunto, inutili e fuorvianti. Rievocare la mancanza
Utilizzare al meglio i filtri di cui sopra, significa anche soffermarsi ogni tanto a riflettere sull'effettivo valore di ciò che si ha concretamente, ma che rimane in una sorta di parziale dimenticatoio, in abbandono momentaneo dovuto, paradossalmente, proprio all'illusoria consapevolezza di non poterlo perdere. La mancanza è strettamente collegata al desiderio represso; così, giusto per prevenire, ogni tanto potremmo andare sulla vicina costa anche in inverno, per vedere il mare quando non ne dobbiamo sfruttare la canonica utilità estiva. Respiriamo a pieni polmoni quell'aria di apparente solitudine, poiché stare un po' da soli con noi stessi, insegna a vivere meglio la propria vita affettiva.


Giorni addietro, qui mancò la corrente per ben otto ore. Nonostante un avviso dell'Enel, affisso un po' ovunque, avesse preannunciato l'inconveniente, il disagio sarebbe stato enorme: niente Tv, computer fisso, Wifi, elettrodomestici vari, ascensore, acqua (per chi, come me, abita in piani serviti dall'autoclave). «Menomale che non è mancata di sera!» mi era venuto di pensare. Eppure, con il trascorrere del tempo, il disagio si ridimensionava, scendendo da dieci a due - tre, nell'ipotetica scala apocalittica inizialmente configurata: la radio a batterie aveva preso il posto dell'invadente Tv; il rumori di fondo erano più ovattati; mica male farsi cinque piani a piedi…; lavarsi nei catini, benché di plastica, non era poi così diverso dal farlo con l'acqua corrente. Insomma, una sorta di piccola riscoperta delle reali necessità che, se protratta nel tempo, può favorire il giusto valore da assegnare al Benessere. La corrente elettrica, l'acqua potabile in ogni casa, la Tv e molte delle tante tecnologie, sono sicuramente utili, spesso indispensabili. Più spesso, però, quelle che consideriamo necessità sono, in realtà, falsi bisogni il più delle volte indotti.
La nascita del falso bisogno
I meno giovani ricorderanno Carosello, quel delizioso siparietto in cui la reclame dei prodotti era valorizzata da attori di primo livello. Il messaggio era chiaro e diretto: "ti propongo questo prodotto che ha queste caratteristiche". Oggi la pubblicità non deve semplicemente dire qualcosa al consumatore, ma deve far succedere qualcosa nella sua mente e nella sua percezione: consolidare una convinzione, costruire l'idea del vantaggio che il prodotto pubblicizzato può avere e insinuando il dubbio che grandi problemi deriverebbero dal non possederlo. "La tua casa è davvero pulita?", "lo sporco si annida dappertutto!", "se guidi quest'auto, sarai davvero libero", e così via. Spesso sono presenti bambini, a rafforzare il senso di protezione dal pericolo di fantomatici germi nascosti chissà dove… Ebbene, qui inizia il senso di colpa, il dubbio di non essere abbastanza attenti e accorti, dunque il riconoscimento automatico che possedere quel prodotto sia indispensabile, ingenerando l'esigenza di essere protetti e protettivi. L'utilizzo continuo delle nuove (false) necessità, crea a sua volta quella che definirei abitudine insinuata con la peculiarità di oltrepassare, pressoché indenne, i nostri filtri critici. La pubblicità è solo uno spunto esemplificativo. La manipolazione induttiva dei falsi bisogni avviene quotidianamente su vari canali (non solo televisivi): l'obiettivo è creare status symbol finalizzati a provocare imitazione e disagio in chi non li ha ancora raggiunti. Auto, abbigliamento, moda, smartphone di ultima generazione e così via, possono sostituire le reali necessità, fino a essere ritenuti talmente indispensabili da diventarne dipendenti.
Il bene e il male
Non conosco, e suppongo non esista, la 'ricetta' che permetterebbe di discernere i falsi bisogni dalle vere necessità. Mi rendo conto che è difficile fare a meno di alcuni simboli richiesti per essere ammessi ai vari livelli (singolare la somiglianza con i videogiochi… ). Per contro, non credo si debba arrivare a rifiutare tutto. Si dovrebbe innanzitutto fare un bilancio, una sorta di lista delle nostre reali necessità: ciò che veramente ci serve andrebbe posto in cima. Poi, a mano a mano, tutto il resto e non mi riferisco solo ai bisogni materiali. Quando ci si trova davanti a nuove proposte, cerchiamo di esaminarle accuratamente, assegnando loro un posto nella nostra lista. Va da se che i primi a dover insegnare la differenza tra necessario e superfluo, sono i genitori, poi gli insegnanti: con autorevolezza e, soprattutto con l'esempio. Nessun dogmatismo: il superfluo non è necessariamente inutile, anzi è fondamentale lasciarsi andare a situazioni più leggere... L'importante è essere consapevoli delle differenze.


Probabilmente non a tutti è noto che il manicheismo è una religione nata in Persia intorno al 300 d. C. Giusto per esemplificare, Mani (il fondatore), teorizzava la netta separazione tra il bene e il male. La diffusione del manicheismo è stata così ampia e penetrante, da radicarsi nel linguaggio comune e, tuttora, vi si fa riferimento quando per significare una netta divisione senza sfumature: o bianco o nero. Probabilmente fa parte della stessa natura dell'uomo arroccarsi dentro le possenti mura di torri inattaccabili (ancora una volta bianco o nero, come negli scacchi…). Sì, perché è più semplice e comodo, comunque meno impegnativo, trovare le varie sfumature, che pure esistono, ma che presupporrebbero, paradossalmente, uno sforzo intellettuale ed emotivo notevole o una presa di posizione che porrebbe in minoranza: meglio, dunque, 'appartenere' a una delle due torri. Di solito quella più alta, la più apparentemente fortificata. Non fa niente, poi, se la struttura è sostanzialmente fragile, se lo stile è solo di moda, se la stabilità è precaria, se l'altra torre, benché più solida, venga abbattuta: siamo allenati a saltare da un torrione all'altro con grande agilità. Un esempio? Il 17 aprile scorso abbiamo avuto l'opportunità di iniziare a dire la nostra sull'ambiente. Dovrei essere 'obiettivo' e comprendere le ragioni di chi ha votato no o, peggio, di chi non ha votato? Beh, mi piace vedere le varie sfumature, soprattutto quelle del mare, ma non sopporto l'eventualità che macchie scure lo sfregino. Dunque, riesco a comprendere, ma non a giustificare chi, magari assistendo al rischio che si fa reale, si pente dopo non aver esercitato il diritto-dovere di recarsi alle urne. Mi riferisco allo sversamento di petrolio accaduto a Genova, nei giorni successivi la chiusura dei seggi. Qualcuno si sente rimproverato, in colpa? Non è questo il mio obiettivo. Non ho intenzione di fare la morale 'post quorum'… Ritengo utile, questo sì, invitare a riflettere sulle nostre prese di posizione che spesso sono influenzate non da attenta analisi e valutazione prospettica, ma da una sorta di effetto gregge Questo bisogno di aggregarsi su posizioni dominanti, è il più delle volte acritico (disinteressamento, accondiscendenza) ed evita di 'compromettersi', di approfondire, di guardare tra le righe. Nasconde una più o meno profonda insicurezza che, se messa in discussione, provoca tensione. È un po' lo stesso meccanismo che porta, da ragazzi, ad appartenere a un gruppo, a mimetizzarsi in esso e ad accettarne aprioristicamente le regole. Si ha, insomma, il bisogno di competere e di appartenere a una squadra, di avere un capo risolutore, un leader forte ("ah, quando c'era lui…"), un mister in gamba, la punta che mancava per vincere il campionato, e via dicendo. Insomma, l'affidamento all'uomo forte, la delega invece della partecipazione diretta, possono nascondere profonda insicurezza nelle proprie capacità. Generalizzare è, come sempre, limitante: esistono anche qui tantissime sfumature che andrebbero esaminate con più cura. Il consiglio è, comunque, quello di approfondire sempre e a prescindere dall'argomento affrontato e sforzarsi di non delegare il proprio sacrosanto diritto di esistere. Tornando al tema 'ambiente', (dunque clima, dunque vita... la nostra... quella reale), il timore di fantomatiche petroliere che avrebbero inquinato l'Adriatico di altrettanto infondati allarmi di aumenti delle bollette, ha prevalso sul rischio, quello sì probabilissimo, che poi Genova ha, purtroppo, dimostrato essere concreto. Quest'articolo può sembrare anomalo rispetto ai miei soliti interventi: più schierato? Di parte? Sicuramente sì - sennò che ho detto finora?! - se la parte in questione è l'ambiente in cui viviamo. E poi, c'è da sentirsi fieri di essere sulla stessa torre con qualcuno molto più illustre e la cui posizione è chiara: "Ogni danno all'ambiente è un danno all'umanità" - Papa Francesco.


Mi sto, ormai, avvicinando a quell'età in cui i ricordi valgono tantissimo, ma alcuni di essi tendono a sbiadire e altri, a volte, si ripresentano casualmente aprendo improvvisamente a situazioni, luoghi, volti, ma anche suoni e odori, che sembravano essere stati definitivamente cancellati. Quando qualche giorno addietro mi è capitato di incontrare una persona che da decenni non vedevo, mi si è aperto uno di quei varchi mnemonici che conducono a esperienze passate, in una sorta di rapidissimo viaggio a ritroso nel tempo. Inevitabilmente il da quanto tempo!, il come te la passi? … seguendo una strategia di avvicinamento non scritta, ma assolutamente d'obbligo, una specie di test che ognuno dei due eseguiva sull'altro per saggiare l'entità delle trasformazioni intanto intercorse e delle soglie fino le quali potersi spingere. Così, dall'attuale stato (anche… civile), siamo passati al ti ricordi quando… giocavamo a…? E a mano a mano i ricordi contestualizzavano altre situazioni: viale Pola quando era una delle ultime strade di Ostuni, le scorribande nei terreni dove ora sorgono interi quartieri fino alla via per Ceglie Messapica, dunque anche altri volti, altri suoni, altri colori riemergono dal deposito solo temporaneamente accantonato della memoria.
La nascita dei ricordi
Tutto ciò che facciamo nel corso della nostra vita, viene memorizzato. Il processo è dovuto alle sinapsi, le connessioni tra i vari neuroni, che vengono modificate da ciò che ci accade quotidianamente. Questo processo è continuo e le trasformazioni creano la memoria. Un'infinita banca dati da cui recuperiamo ciò che ci serve al momento opportuno e il ricordo richiama altre informazioni a catena, fino a ricomporre una storia. Alle persone piacciono le storie. Da sempre, da quando siamo bambini e ci leggevano le fiabe, e poi quando noi stessi leggevamo i giornaletti, le storie di Topolino, di Tex Willer, di Superman. Fino a oggi che leggiamo romanzi o andiamo al teatro, al cinema o seguiamo le telenovele. Cosa sarebbero, per esempio, le opere liriche senza le storie? Cosa sarebbe 'La Traviata' senza la storia di Violetta? Ma quando è iniziata la necessità di sentirci in una storia? Ci siamo resi conto di far parte di una storia nel tempo, ma a partire dalla nascita del linguaggio. Quando siamo molto piccoli non recitiamo, siamo spontanei come i gatti e come i cani, siamo sinceramente trasparenti, come lo sono gli animali. Perciò ci fanno tenerezza i bambini: loro ridono di cuore, vivono senza finzione, quella dell'attore, dell'uomo adulto che verrà dopo. Abbiamo cominciato a recitare una finzione, che ovviamente è necessaria, al di fuori della nostra volontà. Perché gli animali hanno un ambiente, l'uomo ha invece un teatro che è cominciato, in fondo, di recente. Con la memoria episodica e autobiografica, arricchiamo il nostro bagaglio, mettiamo insieme i ricordi che diventano più importanti, spesso, del solo momento attuale. Chi fotografa troppo nei viaggi non considera quello un momento da assaporare, ma un ricordo futuro da costruire. La parola "memorabile" rivela esplicitamente lo scopo dell'esperienza. A volte si fanno imprese pericolose e dolorose in tempo reale e acquistano valore perché hanno l'obiettivo di essere raccontate come imprese memorabili. Noi siamo la nostra memoria, e il sé dell'esperienza del momento è un altro tipo di sé. Senza una messa in ordine e coerenza in una storia, i ricordi sarebbero affastellati insieme, come in una cantina. Esistono ricordi che ci sembrano inutili, obsoleti se confrontati con il momento che stiamo vivendo. Eppure fanno parte di noi, così come al proprio sé appartengono i ricordi che ci infastidiscono, di cui non riusciamo a liberarci e che possono diventare vera e propria ossessione: tentare di scacciarli, di eluderli, di rimuoverli, è vano. Vanno affrontati e risolti. È l'unico modo per tenere in ordine il nostro deposito della memoria.


Esistono frasi che sembrano incancellabili dagli anni che trascorrono. Tra le altre, ogni tanto ne ricordo una che da piccolo mia madre mi diceva in dialetto (nel suo caso, leccese), come quasi tutti i proverbi e le massime popolari: "fattela cu li meggiu di te e falli li spese". La mera traduzione dovrebbe essere pressappoco: "Frequenta chi è meglio di te e pagane le spese". A quell'età, la fanciullezza, tutti i consigli che danno in particolare le madri, sono di pertinenza indiscutibile. Così, io cercavo di attuare questo consiglio, senza nemmeno interpretarlo, e a scuola e nei rapporti con gli altri bambini. Mi sforzavo di farmi amici i figli di professionisti o di persone comunque economicamente agiate, riconoscibili, in particolare nell'Italia di quei tempi, dalla qualità dei vestiti, dai giocattoli e da altri dettagli. Giuro che ce la mettevo tutta, ma non riuscivo proprio a capire come mai dovessi pagargli gelati, caramelle e quant'altro, quando avevano già tutto e in abbondanza… Poi, crescendo, quando ripensavo a quei consigli, sorridevo tra me e me e supponevo che l'interpretazione giusta, poteva essere anche un'altra, forse nemmeno nelle intenzioni di mia madre: i 'migliori' di me non sono quelli più ricchi di denaro, ma di esperienza, doti morali, equilibrio nelle scelte e via dicendo.
Le premesse del buon consiglio
Già, ma cosa e, soprattutto, come si deve consigliare a chi, incerto sul da farsi, ci chiede un parere? Innanzitutto, credo sia necessario riflettere bene prima di esprimersi; a volte, infatti, è preferibile un non saprei al devi fare così. La nostra volontà e disponibilità ad aiutare un nostro amico o conoscente, è sempre mediata dalla nostra storia personale. Una sorta di 'filtro' che rende difficile prescindere dalle esperienze individuali. Io farei così, spesso, è solo la proiezione del nostro stato d'animo del momento che, al di là del coinvolgimento emotivo, potrebbe essere dettata più dal desiderio di aiutare, che dalla reale comprensione-immedesimazione del problema. Per comprensione, intendo la valutazione di tutte le variabili, a prescindere dall'esperienza analoga. Per esempio: un amico che sta vivendo particolarmente male la fine di un rapporto (anche sentimentale), ci chiede cosa fare, come comportarsi, cosa dire, e così via. Ce lo chiede poiché si fida di noi, ma anche per avere un conforto, una valvola di sfogo alla pressione emotiva e psicologica del momento. Immediatamente ripercorriamo la nostra personale storia, alla ricerca di una situazione simile. Probabilmente la troviamo e iniziamo a suggerire come noi reagimmo. In realtà, le componenti di ogni situazione, cambiano e sono sempre molto diverse, così come l'intensità con cui viviamo i sentimenti, può variare significativamente da persona a persona e nello stesso individuo, anche in rapporto all'età, la mentalità, l'equilibrio psicologico. L'esempio, ovviamente, era solo un pretesto servito a enunciare un semplice teorema valido, è chiaro, quando il consiglio NON riguardi quale capo d'abbigliamento, smartphone, auto, scegliere: innanzitutto ascoltare bene, dunque cercare di immedesimarsi e di comprendere le variabili che riguardano l'altro, a prescindere dalle personali esperienze. P.s.: mia madre mi sorprese a 'prelevare' qualche lira e stava per punirmi. Le dissi candidamente, che mi servivano per fare le spese a un nuovo amico. Era vero, ma sul momento non capii perché lei rise tanto.


Non ricordo l'ultima volta che sono stato nella piccola spiaggia dei 'Camerini'. Sicuramente decenni, da quando ero ragazzo e ci si dava appuntamento lì o a 'Mangiamuso', laddove c'era il mitico muretto, una sorta di Whatsapp e Facebook messi insieme, ma con la differenza che ci si parlava e si comunicava de visu. Ebbene, per una casualità che non sto qui a menzionare, mi sono ritrovato in quest'estate 2016, proprio in quei posti chissà perché 'snobbati' per tanti anni; sole, caldo e mare, infatti, comuni a qualsiasi altro posto della costa ostunese, ma non più 'à la page'. Ero con degli amici che non vedevo da tempo. Più giovani di me, erano concentrati a supervisionare costantemente l'incolumità del primo figlio avuto in 'zona Cesarini', come loro amano definire il suo arrivo ormai insperato. Il bimbo, un bel maschietto di quattro anni, si divertiva tantissimo, impaziente e impaurito al contempo, di entrare in quell'enorme cosa nuova e liquida. Tanta ovvia premura da parte dei genitori che, comunque, mi sembravano abbastanza equilibrati nell'impartire disposizioni, senza dimostrarsi particolarmente apprensivi. Soltanto una leggera insistenza a esortare alla 'realtà' il bambino in alcune occasioni: arrivata un'onda ad annullare le torrette costruite col secchiello, il piccolo diceva "l'ha cancellata con la gomma. Papà, disegnala di nuovo"; e i genitori "ma non è come a casa con i pastelli. Non si può disegnare". Nulla di che e nemmeno stetti lì a consigliare il comportamento migliore, nonostante mi sentissi osservato quale potenziale dispensatore di chissà quale verità… Cionondimeno, mi ritrovai a riflettere su come da grandi ci si dimentichi del mondo in cui abbiamo creduto, costituito da una sorta di magia che regola tutto e nel quale, in qualche modo, spesso continuiamo a vivere.
Il pensiero magico
Fino ai sette anni circa, ognuno di noi vive in un mondo magico nel quale tutto è possibile. Oggetti e animali sono indifferenziati e formano un tutt'uno con se stessi, con le proprie emozioni e la propria realtà. Tutto può accadere giacché ha vita autonoma; così, è normale che un qualsiasi oggetto, un peluche per esempio, che la sera era per terra, abbia cambiato posto al mattino, non perché spostato da mamma o da altri, ma per volontà dello stesso peluche. Il pensiero magico ha una sua fondamentale ragione d'essere nel bambino: il confronto quotidiano con continue, nuove esperienze sconosciute, creerebbe molta ansia che, invece, è sedata proprio dall'appartenenza a un unico 'mondo' nel quale tutto è possibile e gestibile; poi, la soddisfazione dei desideri è compiaciuta da una serie di azioni e frasi, che l'adulto stenta a comprendere, ma che rappresentano veri e propri rituali utili a elaborare l'ignoto; infine, il pensiero magico permette al bambino di affrontare la realtà con 'cautela', imparando pian piano ad accettare la realtà e a differenziare se stesso dal mondo esterno. In una sorta di similitudine con lo sviluppo dell'umanità, è singolare come la fanciullezza sia comparabile con l'esperienza dei primi ominidi,: quando videro un fulmine che si abbatteva, incendiandolo, su un albero, ovviamente non conoscevano le leggi della fisica che regolano i temporali, il clima, ecc. Dunque, poiché le saette arrivavano improvvisamente e dall'alto, probabilmente, con il passare del tempo gli uomini dovettero dare una qualche spiegazione a questo fenomeno, proprio per elaborare la paura. Quale migliore causa se non 'entità magiche' preposte a dispensare il 'buono' o il 'cattivo'? Nasce, probabilmente così, il pensiero magico: la reazione emotiva a fatti inspiegabili che, proprio poiché tali, sono destinati a creare disagio e ansia se non giustificati in qualche modo. Dai fulmini e dalle altre manifestazioni naturali, si è poi passati a ritenere magici anche atteggiamenti, sensazioni e gli stessi simili. Credenze, miti e leggende, si sono sfaldate a mano a mano che la scienza e la ragione ne trovavano e spiegavano le cause, così come accade al bambino che, crescendo, inizia a distinguere la realtà dal magico mondo del tutto è possibile. D'altro canto, però, la durata plurisecolare di queste interpretazioni degli eventi, si è protratta per troppo tempo, tanto da entrare, in qualche modo, a far parte dell'inconscio profondo collettivo (gli archetipi, secondo Jung). Il parallelismo tra i primi sette anni del bambino e i primi millenni dell'umanità, ci dice che in entrambi i casi, spesso l'equilibrato passaggio all'età della ragione non si realizza sempre al meglio. In qualche parte della nostra mente, perseveriamo nel considerare alcune esperienze come magiche, soprannaturali. Così, più o meno manifestamente, crediamo nella superstizione con tutte le frasi e i rituali del caso; alla cabala, alla preveggenza dei sogni e dei segni (anche zodiacali) premonitori, ai mostri sotto il letto piuttosto che nell'armadio, alla telepatia e via dicendo. La giustificazione è "tante cose ancora non le conosciamo" e "tutto è possibile". Certo, ancora non è stato spiegato scientificamente tutto ed è anche positivo fantasticare. Il problema è che quando tutto è considerato possibile, non siamo più sicuri di niente, perdiamo la dimensione delle nostre capacità, siamo più fragili, proprio perché esposti a qualsiasi evenienza. Chissà, forse avrei dovuto dire a quei miei amici che lasciare fantasticare, ora, il bambino, avrebbe probabilmente favorito, poi, un più armonico approccio con la realtà, ma preferii godermi quel giorno di mare.


"…una faccia tosta e trista, uno che si chiama Franti, che fu già espulso da un'altra Sezione" scrive Edmondo De Amicis nel libro Cuore (1886). Come me, credo che altri non più giovanissimi ricordino quelle pagine che avevano emozionato quell'età priva di sollecitazioni informatiche. Tra tutti i personaggi 'positivi', Franti si differenziava nettamente: era antipatico, temibile, prepotente e minaccioso. Il bullo di turno, insomma. Questa 'figura' è sempre esistita, e lo specifico termine bullo, lo ritroviamo per la prima volta in La piazza universale di tutte le professioni del mondo, uno scritto di Tommaso Garzoni risalente al Rinascimento (1585). La scolarizzazione obbligatoria, le maggiori opportunità di socializzare, di comunicare e stare insieme, hanno facilitato anche la possibilità di imbattersi in situazioni a volte davvero drammatiche. Purtroppo il fenomeno del bullismo va ben oltre le mura scolastiche, diramandosi nella Rete (cyberbullismo) complicando, così, la soluzione. Questo mio intervento, si limita ad alcuni aspetti generali che riguardano la scuola in cui, oltre le forme più frequenti di prepotenze fisiche (botte, spintoni, ecc.) e verbali (offese, provocazioni e prese in giro), il bullismo può essere anche psicologico, con continue vessazioni verbali, maldicenze e pettegolezzi che tendono all'esclusione della vittima).
Il bullo
Il Lucignolo di turno è di solito un ragazzo (meno frequente, una ragazza), che compie atti di prepotenza nei riguardi di un altro ragazzo 'credendosi' superiore a esso. Le prepotenze non si limitano a un singolo episodio, ma diventano una vera e propria persecuzione continuata nel tempo. Il bullo sceglie i soggetti più deboli che domina con atteggiamenti aggressivi e prepotenti. Di solito altri ragazzi, i gregari, sostengono il bullo anche non partecipando in prima persona alle sue azioni assicurandosi, così, una sorta di immunità dall'essere a loro volta vittime, ma a anche per 'godersi la scena'. Questo meccanismo facilita ancora di più l'isolamento in cui, spesso, viene relegato chi è preso di mira. Il bullo rimanda, in un certo senso, al predatore che in natura individua il soggetto meno forte e procede all'attacco, in una sorta di selezione naturale malata, le cui regole non sono dettate dalla lotta per la sopravvivenza, ma da comportamenti in qualche modo 'legittimati' dai modelli offerti dall'attuale società.
La vittima
Maschio o femmina, di solito è sensibile, timorosa e riservata. Tende a non rispondere alle provocazioni e ai continui soprusi, che abbassano ulteriormente la già scarsa autostima e l'immagine negativa che ha di sé, aumentando l'ansia e il senso d'insicurezza. È un compagno di classe o di giochi, spesso fisicamente e caratterialmente più indifeso Il 'branco' si forma, come detto, per compiacere il bullo e crea a sua volta l'isolamento della vittima designata. Ciò facilita la condizione di solitudine e abbandono che si vive a scuola, in un circolo vizioso nel quale la passività alimenta l'aggressività che, a sua volta, rende ancora più solo il ragazzo. Lo studente-vittima, pur sforzandosi, non ottiene risultati nelle attività sportive; gli ulteriori tentativi di apparire 'degno', falliscono anche perché sotto 'osservazione' del branco e del bullo. Quest'ultimo troverà conferme positive dall'atteggiamento consenziente del branco, intensificando le angherie.
Manifestazioni
Tra le manifestazioni del bullismo, le più comuni sono:
- espressioni offensive nei confronti di nazionalità, religione, disabilità, identità sessuale della vittima;
- esclusione intenzionale e frequente da parte dei coetanei dalle attività di gruppo con relativo isolamento sociale, anche intenzionale, da parte degli amici;
- utilizzo di espressioni abusive o insulti, prese in giro;
- minacce e ricatti;
- furto o danneggiamento di oggetti personali della vittima;
- molestie sessuali;
- diffusione di voci maliziose e false.
Solitamente la vittima di bullismo difficilmente parla con gli adulti, dunque bisogna stare attenti alla comunicazione non verbale (reazioni e comportamenti), che può rivelare il grave momento che sta vivendo:
- disinteresse o rifiuto di andare a scuola, senza motivazioni valide;
- calo nel rendimento scolastico;
- modifiche nel proprio stile di vita al di fuori della scuola. In particolare la tendenza a isolarsi e il rifugiarsi più del solito nel 'virtuale' (videogiochi, smartphone, computer);
- spesso il ragazzo è costretto a versare 'tangenti' al bullo, dunque porre attenzione a richieste di denaro e sparizione anche di piccole somme;
- anche l'abbigliamento può essere oggetto di ricatto: vestiario che manca o è troppo sgualcito, lacerato, specie se il ragazzo di solito è ordinato e ci tiene;
- smarrimenti o danneggiamenti di materiale scolastico o di altra natura.
Non è bullismo quando...
Naturalmente non tutte le manifestazioni di ostilità tra ragazzi sono da riportare al bullismo. Ciò che differenzia il bullismo è lo squilibrio di potere per cui i casi in cui due o più coetanei, dotati di forza simile o uguale, abbiano comportamenti reciprocamente aggressivi, senza che uno prevarichi sull'altro non costituiscono episodi di bullismo.
I sintomi
I sintomi del soggetto vittima di bullismo si possono manifestare a breve o a lungo termine, secondo la gravità dei soprusi subiti, della durata nel tempo, della psicologia del ragazzo e di molte altre variabili.
Breve termine:
- soprattutto la mattina prima di andare a scuola, mal di pancia, di stomaco, di testa; - disturbi del sonno, incubi, enuresi (pipì a letto), attacchi d'ansia;
- calo del rendimento scolastico con difficoltà di concentrazione e di apprendimento;
- valutazione negativa della propria identità, bassa autostima.
Lungo termine:
- ansia, insicurezza, difficoltà di adattamento;
- tendenza alla depressione, comportamenti autolesionisti e autodistruttivi;
- tendenza a isolarsi, solitudine, grandi difficoltà nelle relazioni sociali;
- a volte abbandono scolastico.
Per alcuni studiosi, bullo e vittima sono le facce della stessa medaglia. Entrambi hanno paura: il bullo cerca di vincerla con atteggiamenti sicuramente da biasimare, quando non da bloccare con drastica decisione; dal canto suo, la vittima convalida la propria paura, consolidando e aggravando, così, i sentimenti di inferiorità che già viveva. Ma l'idea del bullo che reagisce alle proprie debolezze e paure, pare non confermata da alcune ricerche da cui si rileva che, al contrario, il prepotente ha, almeno apparentemente, bassi livelli di ansia e insicurezza. Entrambi, comunque, hanno un'immaturità di base nel riconoscere le emozioni, in particolare quelle positive come la felicità. I segnali emotivi che provengono dall'esterno, sono falsati, fraintesi, interpretati come legittimazione, positiva o negativa, dei rispettivi comportamenti. Essere a lungo vittima o bullo, può portare a conseguenze davvero rischiose. Dan Olweus, forse il più grande studioso del bullismo, ci dice che chi rimane a lungo nel ruolo di prepotente corre più rischi di entrare nell'escalation di violenza che va dai piccoli episodi di vandalismo, furti, piccola criminalità, fino a problemi più seri con la legge. Gli studi di Olweus hanno rilevato la scarsa attenzione nei riguardi di questa problematica da parte degli adulti che, spesso, sottovalutano gli episodi, riducendoli a 'ragazzate', scherzi e giochi nei quali è giusto non intromettersi. A complicare ancora di più la comprensione del problema, concorrono le condizioni stesse in cui si svolgono gli atti di bullismo, di solito nascosti agli insegnanti e ai genitori; le difficoltà a denunciare da parte delle vittime, poiché si aspettano totale indifferenza nei loro confronti al contrario dei bulli, convinti di meritare approvazioni e rinforzi. La scarsa fiducia negli adulti porta, così, il 50% delle vittime a non parlare dell'accaduto agli insegnanti e ai genitori. La percentuale aumenta, soprattutto tra i maschi, con il passaggio alle scuole medie. I ragazzi spesso ritengono che denunciare i fatti all'adulto sia un'azione negativa, peggiore rispetto alla stessa prevaricazione subita e passibile di ulteriore isolamento da parte degli altri.
Cosa fare?
A questa domanda è molto difficile rispondere poiché le variabili sono davvero molte. Personalmente credo che nessun bambino, a meno che non abbia specifiche patologie, nasca 'bullo'. Le responsabilità, dunque, sono da ricercarsi inizialmente nella famiglia. Vorrei aprire una parentesi a riguardo: per 'responsabilità' non intendo coscienza di 'far male', bensì una serie di situazioni caratteriali, ambientali e culturali, che portano ad agire nell'unico modo che è in quel momento sembra possibile, senza la consapevolezza di procurare danni. Anzi, spesso alcuni atteggiamenti provengono dalla 'buona fede' di forgiare il carattere del bambino e del futuro adulto. Dunque, responsabilità oggettiva, sì; intenzione di fare del male, no. È più probabile che, durante la crescita, la mancanza o carenza di calore e di coinvolgimento affettivo, faciliti la possibilità di considerare ostile il mondo esterno. Il caso limite, benché tutt'altro che raro, è quello della famiglia in cui la violenza fisica e/o psicologica impone schemi di comportamento che il bambino riprodurrà negli ambienti frequentati. Anche atteggiamenti considerati 'normali', possono essere esempi negativi, anche in assenza di palesi violenze dirette. Pensiamo, solo per fare qualche esempio, alle acredini tra parenti, alle considerazioni spesso poco civili nei riguardi di chi reputiamo 'diverso' o dell'altra squadra di calcio, oppure del collega di lavoro, ai litigi continui tra genitori, con i vicini di casa e così via. Insomma, tutte quelle situazioni nelle quali la nostra aggressività, anche solo verbale, in presenza dei ragazzi, offre modelli distorti di condotta da imitare. Poi, spesso i genitori vogliono 'accelerare' la crescita dei propri figli e non solo con diete ipercaloriche, ma anche con continue raccomandazioni a essere degli 'ometti' in grado di reagire, di essere forti, di sapersi far rispettare, trascurando che l'armonico sviluppo di ogni bambino ha delle tappe che non si possono anticipare. La paura di non essere all'altezza delle attese dei genitori, può provocare diversi disagi tra i quali, appunto, comportamenti aggressivi. Anche uno stile educativo troppo permissivo può favorire disagio. L'autocontrollo si sviluppa attraverso il giusto dosaggio di negazioni e tolleranze. Il bambino deve sapere cosa può o non fare, senza tentennamenti: le ricompense e le punizioni, vanno date senza enfasi, ma con serena fermezza. Di solito, l'iperprotettività e l'eccesso di attenzioni, soffocano la possibilità del naturale e sano distacco dalle figure genitoriali e la costruzione di un'identità indipendente, che sembra mancare proprio ai ragazzi vittime di bullismo e che, come già detto, se prolungato nel tempo può condurre a cronicizzare la propria bassa autostima con conseguenze spiacevoli. Sia ben chiaro che l'intervento sui casi di bullismo, non è di esclusiva pertinenza della famiglia, ma deve nascere dalla stretta e continua collaborazione con gli insegnanti. Olweus propone di:
- creare un ambiente scolastico (e se possibile un ambiente familiare) caratterizzato da affetto, da un coinvolgimento emotivo degli adulti e da interessi positivi;
- stabilire dei confini ben delineati rispetto a comportamenti inaccettabili, in modo tale che il messaggio comunicato univocamente sia 'Non accettiamo prepotenze e faremo il possibile per contrastarle';
- nel caso in cui le regole siano violate, applicare fermamente le sanzioni punitive stabilite insieme e divulgate (sanzioni non improntate a ostilità, né basate su coercizioni fisiche); - pretendere dagli adulti (insegnanti genitori e personale non docente) un comportamento autorevole, non autoritario;
- creare una politica dell'istituto scolastico, una sorta di statuto, basata su obiettivi decisi insieme che diano agli alunni e agli adulti la dimostrazione tangibile che si stia facendo qualcosa contro questi comportamenti.
È necessario conoscere l'effettiva portata del problema, monitorando le variazioni nel tempo, attraverso incontri e dibattiti in cui genitori, insegnanti e personale non docente prendano coscienza del fenomeno e comprendano l'importanza dell'intervento e della costruzione di un buon clima scolastico. È importante supervisionare, a volte con discrezione, quei luoghi in cui si potrebbero verificare tali eventi (per esempio dove i ragazzi trascorrono la ricreazione o consumano i pasti). In classe si possono svolgere attività per migliorare la cooperazione e il rapporto tra gli alunni e verso gli insegnanti, stilando le regole antibullismo. Sarebbe utile a tal proposito, utilizzare stimoli letterari, video e qualsiasi altro strumento possa tornare utile. A livello individuale, sono utili interventi atti a cambiare il comportamento dei diretti interessati, attraverso colloqui con i bulli e le vittime, colloqui con i loro genitori, chiedendo l'intervento di specialisti che già operano nella scuola (equipe psico-pedagogica).
Insomma, l'obiettivo deve essere quello di sollecitare concetti e atteggiamenti che facilitino la comprensione di se stesso in armonia con gli altri, non descrivendoli come ostili, nemici, prevaricatori. Il mondo esterno è difficile, sì, ma ci si deve per forza vivere: con una corazza di peso sproporzionato addosso, l'esistenza si complica di molto. Favorire la cultura della solidarietà, non significa rendere troppo deboli i bambini, anzi. Un bambino che ha buoni esempi, non avrà paure esagerate e vivrà meglio la propria esperienza di essere umano.


Durante l'occasionale condivisione dell'ascensore, un condomino si lamentava dell'ineducazione di un altro inquilino, del rumore, arrivando a dubitare della sua moralità e così via. "Va be'", pensai, "le solite beghe condominiali". Giorni dopo, incontrai un altro condomino; in ascensore si parla comunemente del tempo, cosa che mi deprime profondamente; così, quasi senza accorgermene, chiesi anche il suo parere circa la famiglia di cui sopra. Ammise qualche rumore in più e qualche altra veniale pecca e aggiunse "sa, a volte esasperiamo i comportamenti degli altri. Stiamo diventando troppo intransigenti e poco tolleranti". Questo piccolo episodio mi dà comunque lo spunto per alcune riflessioni sull'intolleranza che sembra ormai essere all'ordine del giorno e le sue manifestazioni, non solo quelle banalmente condominiali, si susseguono e ci giungono attraverso televisione, stampa e Internet, coinvolgendoci emotivamente e, spesso, 'contagiandoci'. Tollerare, però, non significa accettare pienamente, bensì sopportare per propria volontà o per la constatazione di non poter fare diversamente, una certa situazione. È, per certi versi, il male minore. Eppure spesso utilizziamo il termine tollerante, in modo molto positivo. Per esemplificare, potremmo creare una scala di valori che comprende razzismo, xenofobia (avversione nei confronti di chi è straniero), intransigenza, indifferenza o intolleranza, tolleranza, accettazione e/o condivisione. Negli ultimi decenni, dall'accettazione stiamo pian piano scivolando verso l'intolleranza, se non ancora più giù nella nostra ipotetica scala. Solo per esempio, quali processi psicologici e sociali, sono alla base di comportamenti valoriali così differenti e quasi agli antipodi, tra Pietro Bartolo il medico di Lampedusa sempre in prima linea nell'accoglienza e disponibilità verso gli 'altri' e quei cittadini di Gorino (Fe) che hanno addirittura eretto barricate per vietare l'ingresso a venti profughe tra le quali otto bambini e una delle donne incinta? Sicuramente il 'progresso' ha apportato notevoli benefici: per esempio si vive più a lungo e meglio, ma ha anche sviluppato il senso dell'appartenenza materiale, del possesso delle 'cose'. Il benessere è spesso interpretato quale diritto esclusivamente personale di acquisizione di oggetti materiali, di aree territoriali di cui si è gli unici padroni e proprietari. Il concetto in sé non è sbagliato: ognuno, se lo desidera, dovrebbe vivere la propria intimità in modo assolutamente privato, in spazi gestiti con i familiari e con chi più aggrada. Ma quando i nostri 'confini territoriali' si confondono con quelli del nostro Io, iniziamo a temere, di solito ingiustificatamente, di perdere ciò che abbiamo a causa degli altri, dei diversi da noi. Comincia a configurarsi una sorta macchinazione ai nostri danni: "ruberanno, uccideranno, stupreranno, s'infiltreranno nella nostra vita, nelle nostre case, sconvolgendo le nostre abitudini… ". Già, la paura. Arma potentissima che si abbina sempre con la non conoscenza e il non approfondimento delle ragioni altrui. L'intolleranza è un atteggiamento che ci fa stare dalla parte del leone quando insegue l'antilope che azzannerà. Eppure se vediamo la scena in Tv, parteggiamo per l'antilope, cercando di 'modificare' la Natura, in uno pseudo slancio umanitario. Non vediamo le sfumature, che pure esistono, tra l'una e l'altra posizione. Razzismo, xenofobia, intransigenza, indifferenza o intolleranza rappresentano, in realtà, diversi gradi di un disagio che, specie per i primi due, nascondono un malessere che somiglia molto alla mania di persecuzione e, comunque, sono indice di rigidità emotiva e relazionale.
Le condizioni
Intesa come possibilità di ricevere vessazioni fisiche o psicologiche, la paura comprende, grosso modo, le seguenti condizioni:
- dell'altro, del diverso e della diversità;
- della perdita del proprio potere (individuale, materiale, familiare, religioso, ecc.);
- del confronto e della potenziale rottura dei propri schemi, delle proprie verità assolute, di rinunciare, cioè, a qualcosa in cui si era creduto da sempre;
- di perdere un equilibrio interiore dovuto a una sorta di 'contagio' da parte dell'altro.
Il profilo psicologico
La persona intollerante ha difficoltà ad accettare qualsiasi eventualità si discosti da ciò che è 'sicurezza'. È di solito egocentrica con tratti narcisistici e, nei casi più gravi (razzismo, xenofobia), l'egoismo diventa pernicioso e si manifesta in molte altre occasioni della vita quotidiana. L'intollerante ha un terrore inconscio del diverso da sé o dal proprio gruppo. Il senso/desiderio di onnipotenza, lo rende sicuro di essere superiore all'altro. È convinto di possedere la verità assoluta: il suo pensiero assolutistico, è avverso a qualsiasi eventualità di incontro con chi è ritenuto diverso, poiché vive la propria esistenza in continuo conflitto tra la propria fragilità e la corazza che deve indossare per sembrare il guerriero che non è. Nonostante l'apparente saldezza di propositi e la sicurezza dei propri atteggiamenti, l'intollerante ha, in realtà, comportamenti contraddittori dovuti proprio alle forze interiori in continuo conflitto tra di esse. Può accadere così che, per esempio, sia considerato un 'buon lavoratore', ma essere un padre e un marito assente o, forse ancor peggio, troppo presente e condizionante in famiglia. Tende a vedere complotti ai suoi e ai danni del proprio gruppo di appartenenza, interpretando a proprio piacimento le leggi dello Stato e della stessa religione cui appartiene. Fondamentalmente è insicuro e non crede nelle proprie possibilità: non ha fiducia in se stesso. Al contrario, chi ha un vissuto ricco, chi ha la capacità di accettare gli altri modi di pensare, di credere, di vivere, ha un grande rispetto innanzitutto per se stesso e vive come fonte di arricchimento ulteriore e non di pericolo, il contatto con ciò e chi incontra. La 'mentalità aperta', è il frutto di alcune condizioni necessarie che coinvolgono la famiglia (dunque l'educazione), la scuola (gli insegnanti), i rapporti sociali (amicizie e conoscenze). L'altruismo è una propensione che deve essere coltivata e incoraggiata sin da piccoli, evitando di inculcare false paure e timori infondati e stimolando la capacità di relazionarsi con gli altri. È importante sollecitare sempre a un pensiero relativo e non assoluto, alla sensibilità ed empatia, all'immedesimazione con un'altra persona, qualunque essa sia. Si inizia così a esercitare il modo di fare e di pensare, a sentirsi parte di un tutto, ad accettare modi diversi di pensare e di vivere, a non aver paura di sentirsi facile 'preda', ma di considerare la diversità una grande possibilità di crescita personale. Insomma, è la paura che genera pericolo! "Io non sono razzista, ma… " è la formula magica che ci esclude dall'essere considerato 'cattivo': è un comportamento immaturo che ricorda molto il classico esempio del bambino colto con le mani nella marmellata che, tuttavia, nega l'evidenza. Se riteniamo di essere vicini al barattolo della marmellata, è consigliabile chiederci se conosciamo realmente chi consideriamo pericoloso e, soprattutto, se abbiamo superato le insicurezze e le paure che ci hanno accompagnato nell'infanzia, perché l'intolleranza ha spesso radici che attecchiscono in un terreno emotivamente arido.


Credo sia capitato a molti di ritrovarsi, per un qualsiasi motivo, in una via di Ostuni, piuttosto che in un suo quartiere, e di scoprire di non esserci mai stato prima. È successo anche a me e più di una volta. La città si è espansa con una progressione della cui rapidità ed estensione, forse ci accorgiamo solo quando se ne presenta l'occasione. Pian piano, comunque, ci abituiamo al paesaggio che si trasforma e il giudizio sul reale beneficio, ma anche sull'estetica piuttosto che sulla qualità, anch'esso perde la sua 'carica' di indignazione o di compiacimento, secondo i casi. Pensiamo all'auto appena acquistata: linda e lustrata. Il primo graffio ci sconvolge, il secondo ci deprime; poi, col tempo, ci adattiamo anche ad ammaccature più evidenti. Sono cambiamenti, questi, che non dipendono dalla nostra diretta volontà: si devono accettare come inevitabili. Ciò vale per le cose e gli oggetti, ma anche per noi stessi, per la nostra salute fisica e mentale. Fumare, bere troppi alcolici, mangiare molto e male, comporta modificazioni di cui si è coscienti, ma alle quali pian piano ci si abitua fino a quando, per propria decisione o per eventi anche traumatici, s'impone un cambiamento.
Ma il cambiamento è sempre positivo?
Beh, ovviamente no, o almeno non sempre, anche se di solito diamo una valenza positiva al termine cambiamento. Non è positivo quando arriva inatteso e determina modifiche permanenti e a volte drammatiche: malattia, eventi naturali, sfratti, perdita del lavoro, e così via. In questi casi, il cambiamento è inevitabile e negativo, al contrario di quando ci apprestiamo a viverlo volontariamente, predisponendoci a modificare abitudini ormai radicate: "lunedì inizio la tal cosa o smetto la tal altra". L'aspettativa del miglioramento, però, è in conflitto con le abitudini che sappiamo essere negative, ma di cui facciamo, anche inconsciamente, fatica a sbarazzarci.
La scelta
Ogni cambiamento presuppone una scelta, così come rimanere nello stato attuale è di per sé una scelta a volte obbligata. L'esempio del bivio davanti al quale dobbiamo decidere per quale via optare, presuppone che la strada da cui proveniamo non sia più agibile. Eppure l'abbiamo percorsa per tanto tempo e ci siamo adattati in qualche modo a essa. In effetti, quando c'è il 'bivio', si immaginano le strade che abbiamo davanti, quelle nuove, mentre sarebbe più proficuo chiedersi perché vogliamo lasciare la terza via, quella percorsa finora, poiché è l'unica che davvero conosciamo. Questa è la ragione che spesso rende difficile la scelta, dunque il cambiamento. La 'strada vecchia' è tranquillizzante, testata e collaudata: conosciamo le nostre reazioni - anche - emotive agli eventi che, bene o male, in qualche modo ci rassicurano, benché possano non piacerci.
La strada nuova
Il nostro inconscio si 'adegua' alle situazioni, prediligendo quelle che ci espongono meno all'ansia. È un meccanismo fisiologico che consente di utilizzare solo le energie indispensabili. L'inconscio, però, non distingue tra bene e male, tra positivo e negativo, così come siamo abituati a intendere questi opposti: è, per così dire, 'utilitarista'. Solo a mo' di esempio, un'educazione troppo restrittiva, con frequenti 'raccomandazioni a guardarci dagli altri', possa farci dubitare dei compagni di scuola e di gioco. Alla lunga, ci abitueremo al sospetto che il normale contatto con le persone, possa in qualche modo nuocerci. Iniziamo a sentirci a disagio quando ci relazioniamo con gli altri, ponendo dei limiti alla vita sociale. Di conseguenza iniziamo a 'evitare' di comunicare, di uscire, di esporci, insomma. La 'strada vecchia', in questo caso, è sicuramente valutata la migliore, poiché priva di stimolazioni 'pericolose'. Il problema sta, appunto, nel fatto che è l'unica che conosciamo. In altri termini, la paura del cambiamento ci pone in contraddizione paradossale: da una parte la preoccupazione di abbandonare consolidate abitudini (con le relative strutture emozionali); dall'altra la consapevolezza che nuove strade possono addirittura migliorare il nostro stato psicofisico. Quando vogliamo o dobbiamo cambiare, sforziamoci di pensare che le vie, vecchia e nuova, sono entrambe un insieme di abitudini e che, col tempo e un po' di impegno, possiamo sostituire l'una all'altra. Esprimiamo le nostre preoccupazioni e ansie, cercando di rimandare il meno possibile i cambiamenti positivi. In ogni caso, è indispensabile tener presente il rapporto costi/benefici del cambiamento; per esempio, solo davanti a uno 'scempio edilizio' (cambiamento assolutamente negativo) di cui sopra, vale il discorso della via vecchia, anzi, della Città Vecchia, perché guardarla fa sempre bene al cuore.

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