Dott. Franco Sponziello
Psicologo

Articoli e pubblicazioni - Anno 2023

Altri anni:


Quando a circa nove anni arrivai a Ostuni con la mia famiglia, non avevo mai percorso prima strade in salita o in discesa. Un’esperienza nuova che si aggiungeva alle tante altre scoperte che un bambino a quell’età fa in un luogo del tutto nuovo: architetture, persone, dialetto. Portavo con me le abitudini apprese in altri contesti e ci volle un po’ di tempo affinché mi adattassi alla nuova realtà poiché, come sempre succede quando si deve iniziare un nuovo tratto della propria vita, s’incontra sempre qualche difficoltà ad abbandonare i vecchi schemi di pensiero e di comportamento.
Le abitudini
Qualcuno ricorda il momento preciso in cui ha iniziato a scrivere? Non mi riferisco alle prime aste e cerchietti, ma proprio all’atto di scrivere una frase. Molto probabilmente no e non solo perché magari è trascorso molto tempo. A cinque o sei anni, abbiamo iniziato a scrivere le prime vocali poi le consonanti e così via in un continuo allenamento quotidiano, finché quella manualità è diventata automatica. La padronanza si è evoluta pian piano in abitudine, la possibilità cioè di riprodurre una certa azione, anche abbastanza complessa, con facilità e senza la necessità di ripetere tutte le fasi intermedie. Gli esempi sarebbero tanti, ma tutti hanno in comune la ripetizione per lungo tempo delle stesse azioni. Le abitudini sono una scorciatoia essenziale nella vita di tutti i giorni, poiché consentono di automatizzare tante attività per le quali impiegheremmo troppo tempo come a ricominciare sempre tutto daccapo. Ogni volta che entriamo in auto, dovremmo individuare il pedale della frizione, inserire la prima marcia, ricordarci di pigiare l’acceleratore, inserire la freccia e così via. Gesti che invece, dopo la dovuta pratica, ormai facciamo in automatico, senza pensarci, a volte addirittura sovrappensiero.
Cattive abitudini
Nel tempo, questa utilissima capacità di automatizzare tante operazioni che altrimenti richiederebbero grande dispendio di energie, ha anche prodotto, per così dire, “copie difformi dall’originale”. Chiamate spesso anche vizi, a sottolinearne l’inutilità e la pericolosità, alcune abitudini sono realmente controproducenti per noi stessi e per gli altri. Il termine “vizio” esclude l’abitudine - che in certi casi è vera e propria dipendenza fisica - e rappresenta una sorta di marchio che però si limita al disprezzo, alla condanna. Il consumo di alcol è, per esempio, una dipendenza dalla quale è difficile uscire così come il tabagismo, con la differenza, non da poco, che fumare è tutto sommato accettato e chi fuma, non è considerato con lo stesso “disprezzo” riservato a chi abusa nel bere (nel cinema per decenni l’uomo forte, l’eroe fumava), benché siano entrambi abitudini che provocano gravissime conseguenze. Sia per le buone che per le cattive abitudini, il meccanismo di rinforzo è il medesimo: la gratificazione. Riprendendo l’esempio dell’auto (ma vale per tutte le abitudini), quando si impara a guidare, si innestano le marce e la macchina si muove, al timore iniziale subentra la gratificazione per i progressi ottenuti che si rinforza con l’evolversi dei successi, fino a diventare una normale esperienza di tutti i giorni. Anche per le abitudini malsane vale lo stesso sistema di rinforzo. Per esempio, quando si beve si allentano momentaneamente i freni inibitori e può sembrarci di diventare più sicuri, più accettati, gratificazioni che rafforzano, appunto, la nostra voglia di bere che spesso diventa dipendenza. Alle cattive abitudini, però, si possono sostituire comportamenti più positivi. Il punto difficile per ogni cambiamento in tal senso è proprio l’inizio, e l’ansia è il freno che accompagna l’idea di abbandonare una certa abitudine scorretta. La ripetizione di alcuni gesti è, come s’è visto, legata a gratificazioni (siano esse riferite all’alcol, al fumo, al cibo e così via). Dunque, eliminare quell’abitudine significa anche annullare i benefìci, seppure temporanei e nocivi, che l’hanno accompagnata. Di solito si deve essere motivati per modificare abitudini radicate e pericolose, avere almeno la volontà di cambiare. Le cattive abitudini cui è associata una dipendenza fisica sono sicuramente tra le più difficili da eradicare, benché anche in questi casi valga il principio della volontà di cambiare, di farsi aiutare. Esistono anche tante abitudini sicuramente meno perniciose, alcune per così dire veniali, ma che sarebbe preferibile venissero anch’esse modificate: avere orari disordinati e non dormire abbastanza, pratiche che influiscono sulle attività di tutti i giorni; abusare con gli stuzzichini e i dolci fuori pasto (va be’, a iniziare da dopo le feste); fare una vita frenetica, senza concedersi momenti di relax. Ci sono tante altre “piccole” cattive abitudini che possono essere modificate senza eccessiva fatica. E poi, il meccanismo della gratificazione funziona anche in questi casi, quindi iniziamo a provare senza prefiggerci un cambiamento totale e immediato, a breve scadenza insomma. Infatti, un “nemico” del cambiamento sono gli autoinganni, vale a dire la creazione di origine inconscia, di scusanti anche molto articolate, che hanno lo scopo di mantenere lo stato attuale. Per esempio, se decidiamo di dimagrire, potremmo darci una scadenza troppo ravvicinata per raggiungere un certo peso e non potendo riuscirci, ci diremmo che ce l’abbiamo messa tutta, ma, ahinoi, non ce l’abbiamo fatta. Accettiamo l’idea che le cose che facciamo, gli impegni che prendiamo, richiedono un certo tempo: si chiama costanza ed è una buona abitudine che in questa nuova era si sta perdendo. Magari, a iniziare dal prossimo anno, pensiamo ai benefici mentali, oltre che fisici, che il cambiamento di sicuro apporta, iniziamo pian piano il nostro percorso e se abbiamo già tentato senza riuscirci non perdiamoci d’animo e continuiamo a tentare magari chiedendo aiuto agli esperti.
Sereno 2023.


L’essere umano è l’unico animale dotato della capacità di pensare, ossia di elaborare le informazioni che giungono al cervello e trasformarle in ragionamenti, convinzioni, soluzioni di problemi e così via. I primi uomini non avevano sviluppato tutte le caratteristiche cerebrali dell’Homo sapiens, vale a dire le nostre. L’istinto predominava, poiché fuggire in tempo poteva fare la differenza tra la vita e la morte. Immaginiamo un nostro progenitore in una foresta: fruscii, crepitii e rumori vari potevano essere prodotti da un innocuo erbivoro, oppure preannunciare l’attacco di un predatore. Il nostro ominide non rimaneva lì seduto a leggere tranquillamente i miei articoli (eh eh), ma è presumibile che scegliesse quasi sempre di mettere una discreta distanza tra se e l’eventuale pericolo: nel dubbio, meglio allontanarsi e in fretta. Egli è salvo nonostante il dispendio di energie e il grande stress che, giorno dopo giorno, anno dopo anno, diventerà una attributo ereditario che il nostro protagonista trasmetterà alla prole, quale carattere genetico valido per la selezione naturale. Ho esemplificato ciò che sostiene il prof. Martin BrÜne, neuroscienziato presso l’Università tedesca della Ruhr, nel suo Manuale di psichiatria evolutiva: le origini della psicopatologia* (titolo tradotto). Dunque, molte forme di ansia proverrebbero da lontano, effetto collaterale del sistema di difesa trasmesso geneticamente proprio per evitare di soccombere e, in definitiva, per la sopravvivenza della specie.
Una mandorla nel cervello...
La paura e le altre emozioni dipendono dall’amigdala, una ghiandola del nostro cervello grande quanto una mandorla. Da essa ha origine anche il meccanismo dell’attacco-fuga sopra descritto. A mano a mano che nei millenni il nostro cervello si evolveva, siamo riusciti a distinguere le situazioni di reale pericolo da altre normali vicende quotidiane, attenuando la tensione dovuta al continuo stato di allerta. Ma a volte questo sistema di allarme è, per così dire, “starato” e spesso il senso di paura continua, di ansia che può portare anche a serie conseguenze, può dipendere proprio dall’iperattività dell’amigdala. Quando proviamo un’intensa emozione, sollecitiamo l’amigdala che rilascia una serie di ormoni dello stress, con tachicardia, aumento della pressione arteriosa, iperventilazione e così via. Di solito questi sintomi si attenuano appena lo stimolo reale scompare o dopo i primi momenti di forte impatto emozionale. In alcune persone, invece, è come se l’impulso sia sempre presente e, anche se non riferito a un reale pericolo, tuttavia provoca ugualmente ansia e malessere diffuso. Benché l’amigdala giochi un ruolo fondamentale in questi processi, è bene evidenziare come, in tanti casi, sia l’educazione a innescare i meccanismi dell’ansia: un genitore ansioso, quasi certamente trasmetterà i suoi comportamenti ai figli.
Stimoli ed emozioni
Anche se non abbiamo più a che fare con belve che giorno e notte ci guardano come gustosi manicaretti, le fonti di stress quotidiane esistono e fanno parte dell’attuale civiltà. Eventi traumatici, problemi lavorativi ed economici, lutti e così via fino a pandemie e guerre, sono stimolazioni stressanti che provocano ansia a ciclo continuo. Le emozioni forti e incessanti inducono, come s’è detto, a temere anche di sollecitazioni che in realtà non esistono: si arriva ad aver paura della paura. Si può dire che è la nostra mente a mantenere vivo il timore, l’ansia in un circolo vizioso dal quale spesso è difficile uscire da sé. Inoltre è assolutamente sconsigliabile, oltre che inutile, esortare a farcela da soli, quasi fosse un problema di volontà e chi soffre, in qualche modo non volesse vivere tranquillamente. Il cervello è come qualsiasi altro organo e, quando ha dei problemi, meglio affrontarli bene e subito! L’ansia è il sintomo di molte psicopatologie: agorafobia, disturbo ossessivo compulsivo, attacchi di panico, varie fobie, solo per fare qualche esempio. A lungo andare questi problemi possono diventare invalidanti. Lo stato ansioso sembra crescere di giorno in giorno, la persona inizia a evitare tutte le occasioni in cui può star male: non frequenta più un dato luogo poiché lì ha avuto, per esempio, un attacco d’ansia o di panico e le novità potrebbero riservare brutte sorprese, fino a uscire sempre meno di casa e solo per necessità improrogabili. L’isolamento, però, aggrava invece di attenuare i disturbi, perché non consente di affrontare i problemi, di confrontarsi con essi, elaborarli e risolverli. Chiedere aiuto può fare la differenza tra una vita “normale” e un’altra impiegata a difendersi dalla belva chiamata ansia.
*BrÜne, M. (2008). Textbook of evolutionary psychiatry: The origins of psychopathology

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