Dott. Franco Sponziello
Psicologo

Articoli e pubblicazioni - Anno 2018

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Avevo iniziato a scrivere alcune riflessioni per il mese di gennaio 2018, poi mi è pervenuta un’e-mail con gli auguri da parte di un mio caro amico e collega. Ho pensato di proporre alcuni brani di quell’e-mail, poiché contengono messaggi positivi e indicazioni sul tema della consapevolezza.
Definizione di consapevolezza formulata da Nisargadatta Maharai, maestro spirituale indiano: "Osservandoti nella vita quotidiana con attento interesse, con l’intenzione di capire piuttosto che giudicare, nell’accettazione completa di qualunque cosa possa emergere, per il solo fatto che è lì, tu dai modo a ciò che è profondo di venire in superficie e di arricchire la tua vita e la tua coscienza con le sue energie imprigionate. Questo è il grande lavoro della consapevolezza: rimuove gli ostacoli e libera le energie tramite la comprensione della natura della vita e della mente. L’intelligenza è la porta della libertà e l’attenzione cosciente è la madre dell’intelligenza".
Come praticare la consapevolezza.
La consapevolezza è il fattore centrale della nostra evoluzione, che si traduce in una serie di valori e comportamenti.
Resilienza. Questa forza evolutiva è stata studiata da Al Siebert ed è una delle possibili strategie che attiviamo per far fronte ai cambiamenti. L’unica funzionale per andare avanti veramente. La resilienza dipende da diversi elementi: relativi all’ambiente famigliare (buon attaccamento affettivo, buoni rapporti di fiducia e rispetto…), personologici (avere empatia, avere autostima, avere una buona affettività…), cognitivi (essere flessibili, adattabili, curiosi, ironici, avere un progetto di vita, assumere responsabilità, guardare in prospettiva…). Ciascuno di noi, in cuor suo, sa se è più o meno resiliente. Questa forza interiore si può educare e sviluppare, ad esempio ricercando "le prime volte", ovvero quelle occasioni in cui abbiamo fatto cose diverse in modo diverso, mettendoci alla prova prima che la vita ci metta alla prova.
Presenza. Sono in uno stato di presenza a me stesso quando connetto corpo e mente con una respirazione consapevole. Quando sono presente sono attento "hic et nunc" (qui e ora), sono centrato, sento l’esperienza del momento per come si presenta, attimo per attimo. Se sono in uno stato di presenza la mia mente è aperta all’esperienza del momento, non rimugina sul passato (ormai andato) e non si proietta sulle aspettative future (ancora da venire). È l’unico spazio dal quale possiamo apprendere e cambiare veramente.
Umiltà. Essere umile significa accettare consapevolmente di "sapere di non sapere". La definizione di una persona umile è quella di chi sta con i piedi sull’humus, cioè con i piedi ben radicati alla terra, i piedi sono le nostre radici e appoggiati per terra possono, metaforicamente, prendere il nutrimento della natura. Diversamente, come siamo soliti dire, se stiamo "con i piedi per aria" abbiamo perso stabilità nella vita e ci siamo allontanati dal radicamento ai nostri obiettivi più veri. La persona umile è aperta all’apprendimento costante, ammette i propri errori, promuove la sperimentazione per evolversi, ricerca la libertà di essere come vuole essere.
Pazienza. Nel Vangelo di Luca si legge "Nella pazienza possederai il tuo cuore". È un valore che ci permette di accettare con animo tranquillo le controversie, che ci rende tolleranti e perseveranti, che argina la nostra tendenza impulsiva a fuggire o combattere. È più nota, al contrario, l’impazienza, una forma di protezione in situazioni che la nostra mente cataloga come negative, perché vanno contro le nostre aspettative. Per tornare a essere pazienti bisogna andare controcorrente cioè contro i nostri impulsi abitudinari: all’inizio è più faticoso, ma il risultato è sorprendente, il cuore si rasserena.
Compassione. Non si tratta di pietismo o compatimento. La vera compassione ci permette di vedere con autenticità nell’altro un nostro simile, ci fa entrare in intima comunione di sentimenti, ci fa comprendere e compartecipare delle emozioni altrui, riflette l’anelito del cuore a soffrire con l’altro per le sue difficoltà. Trovo molto efficaci le parole del Dalai Lama "La compassione è l’unica via contro la rovina collettiva […] Una disposizione che si nutre di stati mentali, raggiunti principalmente attraverso la pratica della meditazione, in cui le tensioni interiori sono placate, la mente è calma e si è raggiunta una duratura serenità interiore".
Lentezza. Cosa dice la saggezza popolare? "Chi va piano… va sano e va lontano…" "E poi la gatta frettolosa ha fatto i gattini ciechi". Se vogliamo ritrovare uno stato di presenza nella nostra vita frenetica occorre rallentare la corsa. Recuperiamo più tempo andando meno veloci ma più attenti. Abbiamo più chiarezza su cosa viene prima e cosa viene dopo, decidiamo con più assertività cosa fare e cosa rifiutare. È un valore così importante che viene festeggiato da undici anni con la giornata mondiale della lentezza, una giornata che invita a rallentare il ritmo di vivere, invita a riflettere per ritrovare sia il significato nella vita che l’equilibrio personale.
Gratitudine. L’utilità di coltivare e diffondere riconoscenza, per noi e per gli altri, è essenziale. La nostra società ci porta a giudicare i risultati con parametri di performance crescente, guardiamo sempre "all’erba del vicino" e non ci diamo merito per i piccoli passi fatti, non ringraziamo abitualmente noi stessi e le persone che giorno dopo giorno ci vengono in aiuto con le loro parole, i loro gesti e le loro azioni. Ha senso, invece, recuperare tempo per manifestare la gratitudine per ogni stimolo vitale quotidiano. È un buon esercizio per riempire il cuore di benessere.
Umorismo. L’umorismo è un’arte che permette di sdrammatizzare gli eventi della vita. Con questa risorsa viviamo con più leggerezza, lasciando andare i macigni dal cuore possiamo di nuovo volare. Anche qui si può progredire togliendo i pesi che ancora ci impediscono di spiccare il volo, possiamo vivere la vita con autoironia senza prenderci sempre troppo sul serio. Invece di chiuderci a riccio per proteggerci da chi ci offende o ci vuole togliere valore, restituiamo al mittente con garbo un’altra battuta di spirito.
Respons-abilità. Il valore della consapevolezza responsabile è centrale nella vita di ciascuno di noi. Una parola a volte abusata e condita con profondo senso del dovere o della colpa. In realtà, si riferisce in questo caso alla capacità di rispondere a una determinata condizione o situazione (respons-abilità = abilità a rispondere). Per ricominciare da sé occorre assumere responsabilità su chi siamo e su chi vogliamo essere: responsabilità di Sé. Per tornare al centro del proprio benessere è vitale essere capaci di dare una risposta sulle proprie intenzioni, emozioni, azioni, risultati in modo consapevole per raggiungere i propri obiettivi.*
Un sereno e consapevole 2018!
*Laura Torretta


Fa freddo. Anzi no, fa quasi freddo. Va be’, da noi qui a Ostuni, non ha mai fatto davvero freddo, benché i non più giovani ricordino ancora le nevicate che non duravano tanto, ma che fino a una ventina di anni fa, immancabilmente per qualche giorno rendevano ancora più candida la Città Bianca. E penso, durante una delle mie rare passeggiate invernali qui a mare, a quando l’acqua era davvero pulita e la plastica era lontana, proposta dai caroselli della Moplen e barattata in forma di contenitori vari, dagli ambulanti, in cambio di ferro vecchio. Già, il televisore: fa tenerezza pensare alle serate in cui le famiglie si riunivano per vedere Lascia o raddoppia, a casa di qualche pioniere che poteva permettersi la Tv. Intanto, lo squillo impertinente del mio cellulare mi ricorda che nemmeno i momenti di dolce, riflessiva, rigenerante solitudine, sono più possibili. Rifiuto la telefonata e spengo lo smartphone, ma non ho il coraggio di buttarlo in mare: per non inquinare ulteriormente e perché so bene che ne acquisterei subito un altro…
Mare pulito, Tv, cellulari: ho vissuto le transizioni epocali tra il prima e il dopo. Nessuno è in grado di stabilire quanto realmente possiamo abituarci, senza conseguenze, a tali e tanti cambiamenti e così repentini da non darci il tempo di riflettere e valutarne criticamente gli effetti e i reali benefici. C’è chi deve vendere, di tutto, e c’è chi deve acquistare senza avere il tempo di chiedersi se serve realmente o no. Noi accettiamo e, non potendoli discutere, trasformiamo il ‘tutto’ in bisogni cui ci illudiamo di abituarci in tempi rapidissimi.
Eh sì, abbiamo una motivazione per tutto, la giustificazione che ci fa accettare qualsiasi novità come opportuna e adeguata al progresso, alla nostra stessa sopravvivenza. Sia ben chiaro: non sono contrario all’utilizzo di nuove tecnologie. Tutt’altro. È l’abuso che contesto, soprattutto quando ne facciamo la regola stessa della nostra vita. L’accettazione acritica del superfluo, spacciato per necessità, è uno dei cardini della globalizzazione. Per rimanere in tema con il periodo carnevalesco, si potrebbe definire questo processo:
mascheramento del falso bisogno
Il meccanismo è relativamente semplice, pur nelle sue complesse implicazioni: un po’ ciò che si fa con i bambini quando, per esempio, iniziano a disegnare - di solito sgorbi - ma noi gli diciamo che sono bellissimi. Lo facciamo per stimolare la loro autostima, per spronarli ad avere fiducia nei propri mezzi e capacità; dunque, per aiutarli a crescere e a superare al meglio le varie fasi dello sviluppo psichico. Ecco, noi siamo trattati un po’ come eterni bambini cui, nonostante l’età, viene stimolata costantemente la necessità di essere ‘protagonista’. Queste continue, martellanti sollecitazioni producono l’effetto opposto, cristallizzandoci alla fase del desiderio e della scoperta. Insomma a non crescere, così come succederebbe ai nostri figli se continuassimo a dirgli ‘bravo’ per ogni disegno realizzato, anche a vent’anni… Siamo protagonisti: sui Social, se seguiamo la moda, se siamo furbi, se diventiamo ricchi e così via. Si ha l'illusione di poter contare qualcosa, la convinzione di essere noi a decidere e, purtroppo, di solito scegliamo, sì, ma il superfluo, per riempire gli spazi che andrebbero colmati diversamente. Quando guardiamo la Tv, per esempio, abbiamo la percezione di decidere cosa vedere, ma in realtà stiamo solo accogliendo delle proposte preconfezionate, in quando siamo solo spettatori. Così, anche quando un certo Social ci assicura che abbiamo tanti amici. In realtà stiamo partecipando, nostro malgrado, a un grande mercato nel quale siamo noi i compratori poiché, anche qui, l’illusione di decidere viene concessa in cambio della pubblicità presente nella pagina. Sono certo che una parte di noi avverte che qualcosa non quadra. Ma, appunto, la velocità dei cambiamenti è tale da non lasciarci il tempo di mettere a fuoco le varie relazioni. Un po’ come nel gioco delle tre carte in cui siamo convinti di aver individuato quella esatta, ma stiamo comunque per perdere i soldi puntati… In quest’ultimo caso, però, abbiamo l’opportunità di elaborare la sconfitta, al contrario dei meccanismi su descritti dove l’impossibilità di metabolizzare l’enorme quantità di dati, contribuisce all’insorgenza di disturbi d’ansia e altri a essa collegati (solo come ipotesi, anche alcune problematiche legate all’abuso di cibo, di alcol e quant’altro). Una sorta di paradigma, di replica, di abitudine all’accaparramento compulsivo del superfluo, dell’inutile, del troppo.
Contrario alla Tv e alla tecnologia? Ancora una volta niente affatto, anzi! Affermo solo che ogni tanto ci si dovrebbe fermare a meditare, a considerare se quello che stiamo acquistando piuttosto che ammirando o desiderando, sia realmente una nostra necessità o l’ennesimo bisogno indotto. Sono anche convinto che, purtroppo, sia davvero molto difficile riconoscere gli autoinganni, le varie trappole e/o fermarsi al necessario (si badi bene, non all’indispensabile!). Esiste, infatti, anche una dimensione piacevole del superfluo, inteso come momento di distensione, di puro piacere fine a se stesso, di saggio ozio. Anzi, proprio per godere appieno i benefici del non essenziale scelto, dobbiamo rallentare la corsa al superfluo imposto. Tornando alla mia passeggiata, per esempio, non ho gettato il mio smartphone anche perché mi va benissimo quello che ho da quattro anni e qualche superfluo optional in più non mi costringerà certo a sognare il modello appena uscito. Sarebbe superfluo...


Agnë tièmbë arrìva, agnë staggióna passa* (ogni tempo arriva, ogni stagione passa), recita un proverbio ostunese. Un modo di dire che indica il trascorrere del tempo, con ponderata rassegnazione. I primi uomini non avevano necessità di scandire il tempo: sapevano che il giorno durava tot e che il buio significava dormire. Furono gli egizi a suddividere l’ora in sessanta minuti e la giornata in ventiquattro ore, che i romani, invece, ripartivano in quattro periodi. La misurazione con strumenti nacque in seguito, nel Rinascimento, per l’esigenza di stabilire con più precisione i tempi dei commerci, degli spostamenti e via dicendo. In realtà ognuno di noi possiede un orologio personale, un meccanismo sofisticato che scandisce il ciclo giorno-notte e ne regola il complesso sistema biologico: il ritmo circadiano, dal latino circa (intorno) e dies (giorno). Se ne deduce che il tempo misurato (quello dell’orologio e del calendario, per intenderci), è solo una convenzione nata per motivi tattici, più che sostanziali, vitali. Esiste, però, anche un tempo personale, soggettivo, che ognuno di noi ha e conosce ed è il tempo che utilizziamo nel presente, per proiettarci al ‘trascorso’. Il tempo personale è sostanzialmente diverso da quello misurato: riguarda la memoria, le esperienze passate, il nostro vissuto. L’altra ‘porzione’ di tempo è quella del futuro e riguarda la proiezione delle nostre esperienze passate e presenti, in una dimensione immaginaria, non prevedibile. In linea di massima è difficile concepire il nostro futuro completamente distaccato dallo stato presente: se stiamo bene, ci immagineremo contenti anche nei prossimi anni. Se, invece, stiamo attraversando un momento di particolare difficoltà (soprattutto psicologica), saremo portati a rappresentarci soluzioni negative anche per l’avvenire. Pure il passato sottostà a questo legame con il presente: alcuni ricordi, certi vissuti, vengono modificati più o meno inconsciamente, per evitare che ci procurino dolore, per apportarci sollievo. È un meccanismo fisiologico che dimostra come il tempo sia soggettivo e ‘adattabile’; la sua percezione varia con l'età e le conseguenti esperienze: a sei anni il bambino distingue la mattina dalla sera. A sette, domani da ieri, mentre all'ottavo anno inizia a comprendere il concetto di stagione e solo a dieci ha coscienza della successione degli avvenimenti, per esempio che il passato è trascorso per sempre.
Passa... tempo
Per Freud** il tempo suddiviso in presente, passato e futuro è una prerogativa della nostra parte cosciente. L’inconscio, la porzione più vasta della nostra mente, secondo il padre della psicanalisi non ha successioni temporali tra ieri, oggi e domani. La prova la forniscono i sogni, durante i quali gli avvenimenti sembrano susseguirsi casualmente, senza un preciso ordine cronologico, saltando da situazioni vissute a esperienze attuali, fino a proiettarsi nel futuro. Quest’ultimo processo è stato da sempre considerato, erroneamente, premonitorio. Mi piace rilevare a tal proposito, quanto saremmo ricchi se davvero potessimo prevedere fatti futuri, per esempio, l’esito di lotterie e simili... A ulteriore dimostrazione del contrasto tra tempo misurato e percezione personale del tempo, ognuno di noi sa come le ore sembrano trascorrere lente ed estenuanti se ci si annoia e brevi se ci si sta divertendo o interessando a qualcosa. Certo, anche l’età determina questo contrasto: gli adolescenti non vedono l’ora (è proprio il caso di dirlo), di raggiungere la ‘maturità’; più avanti si è con gli anni, invece, tanto più il tempo sembra passare in fretta proprio per la percezione del suo termine. Col senno di poi, gli adulti credono di poter impiegare molto meglio il proprio tempo, se solo potessero tornare indietro.
Carpe diem oppure Ogni cosa a suo tempo?
Già, l’eterno conflitto tra cogliere le occasioni (“ogni lasciata è persa”) o lasciare al tempo il compito di mediare e rimediare (“dai tempo al tempo”). In realtà, nessuna delle due scelte è in sé sbagliata. Si tratta di riconoscere i momenti giusti per non perdere qualcosa (o qualcuno) o, la contrario, lasciare che la situazione ‘maturi’ prima di prendere qualsiasi iniziativa. Non è poi così semplice come appare. Cogliere l’occasione, viene spesso frainteso con l’avventatezza, l’impulsività e la faciloneria. Eppure è fisiologico, entro l’età adolescenziale, provare esperienze senza riflettere molto sulle conseguenze, poiché l’eccessiva riflessione porterebbe all’immobilità, dunque al mancato sviluppo psico-fisico. D’atro canto, gli adulti stentano a ricordare che anch’essi hanno agito d’impulso, quasi fosse un segno di immaturità (benché, a volte, possa celare il rifiuto di una giovinezza problematica). Purtroppo, sempre più i giovani, ma anche molti adulti, si spingono oltre il carpe diem, per una sorta di insoddisfazione di base, di incompletezza delle esperienze, di inutilità dei valori che non sono i ‘soliti’ dogmi, bensì l’esempio. Ecco che il tempo, il suo trascorrere, non è più motivo di conoscenza e di sperimentazione, ma una sorta di impedimento, di incresciosa lacuna da colmare, appunto, con qualsiasi cosa possa riempirlo di emozioni sempre più forti, sempre più audaci e, spesso, sempre più insignificanti e dannose. Sì, l’esempio! Chiediamoci come trascorriamo noi il tempo: certo lavorando, ma poi? Come gestiamo la parte del tempo che dovremmo ‘vivere’ per e con gli altri? Forse sarebbe il caso di rifletterci su e, ogni tanto ricordarci che:
“Dopo un certo tempo imparerai la differenza tra dare la mano e soccorrere un’anima… Imparerai che amare non significa appoggiarsi e che compagnia non sempre significa sicurezza. Inizierai ad imparare che i baci non son contratti, né omaggi, né promesse… Inizierai ad accettare le tue sconfitte a testa eretta, alta, guardando dritto davanti a te, con l’allegria di un adulto e non con la tristezza di un bambino. Scoprirai che molte volte solo sfiori le persone che ti importano di più, e pertanto dobbiamo sempre dir loro che le amiamo, in quanto mai saremo sicuri di quando sarà l’ultima volta che li vedremo. Imparerai che le vere amicizie vanno crescendo nonostante le distanze, che non importa quello che si ha, bensì chi si ha nella vita… Scoprirai che i veri amici sono la famiglia che noi abbiamo scelto. Vedrai che richiede molto tempo il riuscire ad essere la persona che vogliamo essere e che il tempo è breve. Imparerai che non importa dove sei arrivato, ma dove sei diretto e, se non lo sai, qualsiasi posto è utile… Imparerai che se non controlli i tuoi atti questi ti controlleranno e che l’essere flessibile non significa essere debole o non aver responsabilità, perché non importa quanto delicata e fragile sia una situazione, in quanto esistono sempre due lati. Imparerai che gli eroi son le persone che fecero il necessario affrontandone le conseguenze. Imparerai che la pazienza richiede molta pratica… Scoprirai che certe volte la persona che tu ti aspetti ti possa schiacciare quando cadi, forse sia una delle poche che ti aiutano ad alzarti. Maturare ha più a vedere con quanto imparasti con le esperienze che non con gli anni che hai vissuto. Imparerai che c’è in te del tuo paese molto più di quello che supponi… Imparerai che mai si deve dire a un bambino che i suoi sogni sono stupidaggini, poiché poche cose sono tanto umilianti e sarebbe una tragedia se ci credessero, perché avresti tolto loro la speranza… Imparerai che con la stessa severità con cui giudichi sarai anche giudicato e, a un dato momento, condannato. Imparerai che non importa in quante parti il tuo cuore fu diviso, il mondo non si arresta perché lo si ripari… Imparerai che il tempo non è qualcosa che può ritornare, pertanto devi coltivare il tuo giardino e decorare la tua anima invece di aspettare che qualcuno ti porti fiori. Imparerai che quando senti rabbia hai il diritto di averla ma ciò non ti dà il diritto di essere crudele. Scoprirai che solo perché qualcuno non ti ama nel modo che vorresti, non significa che non ti ami con tutto ciò che può, in quanto ci sono persone che ci amano ma non sanno come dimostrarlo, né è sempre sufficiente essere perdonato da qualcuno, qualche volta dovrai imparare a perdonar te stesso. Imparerai che non dobbiamo cambiare gli amici se siamo disposti ad accettare che gli amici cambino. Ti renderai conto che potrai passare bei momenti con il tuo miglior amico facendo qualsiasi cosa oppure nulla, solo per il piacere di sfruttare la sua compagnia… Scoprirai che son necessari anni per costruire la fiducia e solo pochi secondi per distruggerla e che tu pure potrai fare cose di cui ti pentirai per il resto della tua vita. Imparerai che le circostanze e l’ambiente che ci circonda hanno influenza su di noi, ma noi siamo gli unici responsabili di ciò che facciamo. Comincerai ad imparare che non dobbiamo compararci con i più, salvo quando vogliamo imitarli per migliorare. Imparerai a costruire tutti i tuoi cammini, perché il terreno del domani è incerto per i progetti e il futuro ha l’abitudine di cadere nel vuoto. Dopo un certo tempo imparerai che il sole brucia senza che tu ti esponga troppo… Accetterai, inoltre, che le persone buone qualche volta ti possano ferire e dovrai perdonarle… Imparerai che parlare può alleviare i dolori dell’anima. Allora saprai realmente di poter sopportare, che sei forte e potrai andare molto più lontano di quello che avresti pensato quando credevi di non farcela. È che realmente la vita vale quando si hanno il valore e il coraggio di affrontarla…”1

*Per gentile suggerimento di Rosario Santoro
** Nota sull'inconscio in psicoanalisi, S. Freud, 1912
1Poesia attribuita da alcuni a W. Shakespeare o a J. L. Borges (ma ci credo poco). Quasi certamente di V. A. Shoffstall


Mancano due giorni alla Pasqua. Quasi certamente la trascorrerò tra termometro, starnuti e fazzolettini per il vile attacco, in zona Cesarini, di uno dei tanti incontentabili, bizzarri e irriverenti virus parainfluenzali. Bizzarro come il clima che, ormai sembra non rispondere più a nessuna regola conosciuta e che qui a Ostuni, ha portato temperature altalenanti, insolite per il periodo. Non mi costipavo da diversi anni e rimpiango di aver smesso da ottobre scorso, l’assunzione giornaliera di vitamina C, attraverso spremute d’arance e limoni che mi assicuravano una copertura adeguata. Eh sì, con il crescere dell’età, diminuiscono le difese immunitarie e aumentano le esperienze. Bella scoperta: ovvio che un cinquantenne ha visto e vissuto più di un ventenne e, se ne deduce, abbia un modo di considerare la vita, di affrontare le situazioni, insomma, una maturità adeguata. Beh, non sempre è così. Sicuramente l’età e le esperienze contano, ma è soprattutto la qualità delle esperienze stesse, più che la quantità, a determinare l’armonica crescita dell’individuo.
Rimpianti e rimorsi

I rimpianti sono emozioni che proviamo quando pensiamo che avremmo potuto ottenere migliori risultati se avessimo agito in altro modo o di non aver proprio fatto o detto la cosa opportuna. Non aver detto la cosa appropriata o ciò che si pensava al momento giusto, è un esempio di rimpianto molto frequente. È rimpianto anche non aver fatto qualcosa (un viaggio o, in genere, una scelta e nel mio caso, le spremute…). Il rimpianto ha una valenza positiva a medio termine, poiché ci porta a riflettere sugli errori commessi e ci aiuta a evitarli in futuro.
I rimorsi sono, invece, stati d’animo che riguardano parole o scelte che realmente abbiamo operato e che riteniamo abbiano nociuto o compromesso qualcosa o qualcuno. Insomma, i rimpianti riguardano ciò che non è avvenuto, mentre i rimorsi quello che è accaduto. Entrambi, quando creano sofferenza, appartengono alla grande famiglia dei sensi di colpa, la cui trattazione qui, aprirebbe un capitolo troppo vasto.
L’esperienza
Va da sé che rimpianti e rimorsi sono legati a esperienze concrete e sono causa ed effetto gli uni dell’altra. In particolare, dovremmo far tesoro dell’esperienza per non commettere azioni, dire (o non dire) cose che sappiamo averci procurato i sensi di colpa. Insomma, una sorta di adattamento, di elaborazione del nostro vissuto che, nel tempo, porterà a comportarci meglio e, soprattutto, a essere soddisfatti del nostro modo d’essere e di agire. Quando non facciamo tesoro delle esperienze, rimpianti e rimorsi assumono la valenza di sentimenti profondamente negativi. Quando la loro quantità, infatti, è esagerata e il logorio che provocano insinuandosi periodicamente tra i nostri pensieri, diventa un tarlo che ci accompagna di continuo; quando proviamo un senso più o meno doloroso di impotenza e frustrazione, una sorta di incessante rimprovero, ebbene forse dovremmo rivedere qualcosa del nostro vissuto. È il caso di approfondire i contenuti, per liberarsi del peso che, nel corso degli anni, può diventare insostenibile o, comunque, farci vivere male.
Al contrario, rimuovere qualsiasi senso di colpa, ci rende cinici e solo apparentemente immuni da problemi. Il nostro inconscio non dimentica e l’eccessiva, forzata, presa di distanza dalle emozioni, di sicuro produrrà effetti collaterali i più svariati. Insomma, essere a tutti i costi felici può diventare la causa della nostra infelicità.
Tra i rimpianti e rimorsi più invadenti, non aver vissuto appieno la propria vita è il più frequente. Col senno di poi vorremmo tornare indietro e la consapevolezza del troppo tempo trascorso, aumenta il disagio. Tutti seguiamo modelli prestabiliti: genitori, educazione, scuola e quelli proposti dalla società del momento. Può capitare così, che confondiamo i nostri obiettivi, i sogni, le ambizioni, con quelle degli altri, come fossero i nostri. Spesso ci accorgiamo di aver vissuto di riflesso, in un’età in cui rimorsi e rimpianti sono direttamente proporzionali alle esperienze. Iniziamo a chiederci per tempo se stiamo vivendo la nostra vita o siamo satelliti che sembrano risplendere sì, ma di luce riflessa.


Un aprile particolarmente caldo quello appena trascorso: prime “maniche corte” e vestiti leggeri, prime scampagnate a raccogliere asparagi, a mangiare le fave. A rilassarsi, insomma. Non mi sono tirato indietro, ovviamente, all’invito di amici per una giornata in campagna. Oltre le solite battute circa le mie braccia indebitamente sottratte all’agricoltura (…), mi è capitato di osservare i bambini giocare, finalmente a contatto con la natura. L’abitudine a rimanere in casa, magari davanti alla Tv o alla Play Station, oppure a giocare con più o meno elaborati “marchingegni”, lascia il posto all’innata meraviglia che sempre accompagna il piccolo esploratore che è in noi, al cospetto con gli straordinari scenari della natura. La nostra personalità è il complicatissimo risultato di molti fattori, tra cui le informazioni genetiche contenute nel nostro Dna e l’ambiente in cui cresciamo e viviamo. Quel piccolo esploratore, in realtà è uno dei motori fondamentali della nostra mente: ci spinge a fare esperienze e a sondare le nostre attitudini, a vagliare le nostre capacità e a renderci conto dei nostri limiti. Proprio a causa della complessità di tutti i fattori che determinano lo sviluppo, è impossibile raggiungere la “perfezione”. Spesso dimentichiamo questo limite e ci illudiamo che il semplice volere qualcosa, automaticamente ce lo possa fare ottenere.
Voglio dunque… non posso
La volontà non può superare i limiti della sfera psichica; non è in grado di costringere l’istinto, e non ha potere sullo spirito”, afferma C. G. Jung, il celeberrimo psicanalista. Il mito del volere è potere, è un’illusione che l’uomo da sempre si è dato nel vano tentativo di superare i limiti che gli procurano ansie e paure. Certo, non è sempre errato forzare i nostri naturali timori nell’affrontare ciò che ci angustia, anzi! Confrontarsi con qualcosa che si teme, significa affrontarla poco alla volta, valutando via via le potenzialità e, alla fine, conoscendone la reale portata e i nostri effettivi limiti. Un po’ come i bambini che osservavo in campagna: erano inizialmente spavaldi, e si avventuravano in arrampicate sugli ulivi che, a volte, terminavano con cadute inaspettate. Poi, pian piano, studiavano una strategia e la risalita si faceva più mirata e meditata. Allora sì che riuscivano a salire. Tutt’altra cosa è convincersi che le proprie possibilità/potenzialità sono limitate dalle nostre paure e che, di conseguenza, basta volerle superare… È un atteggiamento mentale che ricorda molto il pensiero magico infantile (fase fisiologica che dura fino ai sette anni circa), periodo in cui tutto sembra possibile al bambino. Ma le barriere tra conscio e inconscio, a quell’età non sono ancora formate e volere si identifica facilmente con potere. Crescendo, l’Io (la parte cosciente), inizia per così dire a differenziarsi dalla parte più profonda, quella dell’inconscio costituita da istinti primordiali geneticamente trasmessi, dalla cultura in cui si vive e dall’educazione che si riceve. Le paure provengono dal nostro inconscio e cercare di forzare la barriera, imponendosi comportamenti “vincenti” a tutti i costi, conduce spesso alla frustrante costatazione del fallimento. Questo processo è particolarmente presente nell’epoca che stiamo vivendo: sembra tutto molto semplice da ottenere e raggiungere; siamo collegati on line 24 ore su 24 con un mondo in cui abbiamo l’illusione di entrare con un click e molte trasmissioni in Tv, ci presentano eroi effimeri che sembrano essere lì solo avendolo voluto… La paura, o meglio le paure, sono fondamentali per l’Uomo. Lo hanno sempre accompagnato sin dalla sua comparsa sulla Terra, consentendogli di sopravvivere rendendolo cauto e attento. Millenni addietro, le paure erano diverse rispetto alle attuali: il buio, gli animali predatori, ma anche il clima con i temporali e i relativi fulmini, costituivano fonte di grande angoscia. Poi, la conoscenza scientifica insieme allo sviluppo della tecnologia, se da un lato hanno spiegato, risolvendoli, alcuni “misteri” che ci affliggevano, per contro hanno fornito un senso di superiorità, di onnipotenza che paradossalmente alimenta ansia e nuove paure. Il mito effimero del potere, confligge con la constatazione di non essere in grado di ottenerlo in breve tempo. Sia ben chiaro che volere raggiungere alcuni obiettivi e avere sane ambizioni, sono atteggiamenti positivi, ma richiedono applicazione, costanza e assiduità. Solo a queste condizioni ci sarà possibile aver coscienza dei nostri limiti reali e delle potenzialità che non conoscevamo. Ora posso, e voglio, mangiare le fave...


Riflessione socio-politica in uno dei miei interventi su Facebook

Silvan Salvini

Molti giochi di prestigio, si basano sulla distrazione: si fa un gesto più o meno veloce con una mano per distrarre, appunto, l’attenzione del pubblico dall’altra mano che recupera ‘magicamente’ da una tasca, l’oggetto nascosto. Questa tattica è utilizzata anche nei borseggi e in altre attività nelle quali è necessario distrarre la vittima (il ‘pollo’) di turno. Salvini (inquietante ‘quasi’ anagramma con Silvan) si sta rivelando un abile prestidigitatore: nella tasca, ben nascosti, ci sono i veri problemi (corruzione infinita, evasione fiscale, disoccupazione, pensioni da fame, degrado ambientale, e tantissimi altri), mentre, nella mano che ci distrae, ci sono i pericolosissimi immigrati. I polli… ooops… il pubblico applaude… Voilà, gioco riuscito. Invece no, poiché un vero statista cerca di risolvere prima di tutto i problemi gravi. Non che gli altri governanti abbiano risolto granché. Tutt’altro. Ma oggi davvero ci stiamo facendo scippare la serenità, la disponibilità e la capacità critica di analizzare e individuare i reali obiettivi e di indignarci se non sono al primo posto nell’agenda dei politicanti…


Il modo di guidare l’auto qui da noi in città, è a volte spregiudicato: spesso lo stop è un optional, così come i passaggi pedonali e, a volte, i semafori. Pedoni e autisti, nell'alternanza nei ruoli, pare siano ormai abituati al rischio e abbiano preso le dovute ‘misure a occhio’. Giorni addietro assistetti a un investimento, per fortuna risoltosi solo con un po’ di spavento. Non so se a causa del nuovo elemento che si è aggiunto ad aumentare i rischi da disattenzione, il cellulare, ma la responsabilità era in ogni caso dell’autista. Distratto forse, ma non certo intenzionato a nuocere. Utilizzando un linguaggio che non mi appartiene, quello della giurisprudenza (mi perdonino gli addetti ai lavori che dovessero leggermi...), direi che fare del male si possa distinguere per comodità in responsabilità o dolo (intenzionalità). Nel caso di cui sono stato testimone, la responsabilità dell’autista, dunque, era oggettiva, ma, appunto, senza intenzione di arrecare danno. Altra cosa, il dolo, sarebbe stata individuare il pedone e investirlo di proposito. Due casi limite, il primo dei quali può capitare a tutti, mentre il secondo presuppone una premeditazione malvagia che ci fa subito asserire “io lo farei mai! ”.
Il male indotto
Il male è sempre stato l’oggetto oscuro nelle varie culture e religioni. In questa sede, però, il termine non è utilizzato da un punto di vista teologico, ma è da intendersi come cattiveria, malvagità, cioè come tratti dell’indole che accompagnano la storia dell’Uomo e ne sono parte integrante. Nel rispetto delle proprie Fedi e delle convinzioni personali, credo siano le intenzioni e i risultati a definire e configurare il male, in eterna contrapposizione al bene. Ma come si diventa malvagi, cattivi? Si nasce tali o lo si diventa? In un controverso esperimento del 1971 presso la Standford University, lo psicologo Philip G. Zimbardo, selezionò 24 studenti universitari in base a specifici criteri: assenza di disturbi mentali o problemi psicologici, nessuna droga assunta, fedina penale pulita. Insomma, tutte “brave e normali persone” che, in una finta prigione appositamente allestita, furono suddivise a sorteggio in dodici guardie e altrettanti carcerati. Gli spazi erano molto ristretti e, mentre i detenuti dovevano risiedere giorno e notte nelle celle, le guardie facevano turni di otto ore e potevano tornare alle proprie abitazioni quando finivano. Una sorta di Grande Fratello ante litteram, infatti tutti gli ambienti erano corredati da telecamere e microfoni. L’esperimento aveva una durata prevista di quattordici giorni, ma fu interrotto dopo appena sei giorni per le condizioni ormai degenerate dei partecipanti, soprattutto dei detenuti alcuni dei quali, già dal secondo giorno, inveirono contro i secondini, lacerandosi le divise e barricandosi nelle celle. Le guardie risposero assumendo atteggiamenti provocatori e intimidatori, costringendo gli altri a umiliazioni di ogni genere. Dopo cinque giorni, i prigionieri evidenziarono chiari sintomi di disgregazione individuale e di gruppo, con vari e gravi disturbi anche della sfera emotiva. Erano ora remissivi, ora aggressivi con se stessi e con gli altri. Per contro, aumentavano i comportamenti sadici e vessatori tra le guardie le quali, quando i ricercatori interruppero l’esperimento, espressero la loro delusione in contrapposizione alla contentezza dei detenuti. Le conclusioni rilevarono le similitudini dei detenuti con pazienti psichiatrici o con prigionieri di guerra, con manifestazioni anche psicosomatiche: erano completamente distrutti nel fisico, ma soprattutto psicologicamente. I secondini apparvero anch’essi cambiati: reattivi ma più cinici e incattiviti, disponibili a continuare inebriati dal potere acquisito e dalla conseguente mania di grandezza, sembravano non riconoscere la differenza con il proprio comportamento di soli pochi giorni prima. In ognuno dei due gruppi, comunque, i sintomi ebbero un’incidenza non omogenea, variando dal massimo della frustrazione totalizzante a una sofferenza meno pronunciata per gli uni, e da una malvagità inaudita a un atteggiamento lievemente meno duro, per gli altri. Questo esperimento non è certo da considerarsi esaustivo e molti studiosi hanno rilevato diverse lacune metodologiche, ma tutti sono stati d’accordo sullo spunto che ha fornito nella comprensione dei processi che inducono ai comportamenti malvagi e devianti: si dia la sensazione del potere (o della privazione) e la maggior parte di noi, con le dovute differenze, reagirà di conseguenza…
Le origini
Esistono varie teorie riguardo alla genesi dei comportamenti che portano al male. Per esempio, il medico Cesare Lombroso nella seconda metà del 1800, teorizzò che alla base del comportamento criminale vi fosse la genetica che trasmette i cromosomi negativi di generazione in generazione. L’individuo deviante sarebbe riconoscibile anche attraverso i caratteri somatici: un certo tipo di fronte, di naso, di occhi e così via. Altre teorie ipotizzano una sorta di mescolanza genetica, dai primi ominidi, per passare all’uomo di Neanderthal, all’Homo sapiens, fino ai giorni nostri. Una specie d’ineluttabilità cromosomica, che sarebbe alla base di tutto. Lo stesso Lombroso, però, verso gli ultimi anni della sua vita ammise l’importanza dell’ambiente nello sviluppo di determinati atteggiamenti. Eh sì, perché momento storico, educazione, ambiente culturale e situazioni contingenti, rivestono invece un ruolo fondamentale nella genesi del male. Chissà, forse alcune predisposizioni genetiche, rivenienti dal mixer di cui sopra, facilitano la propensione alla cattiveria. Sta di fatto, però, che considerare solo i fattori genetici, è servito da sempre a mettere a posto le coscienze (“è nato così! ”) coprendo le nostre responsabilità (in quanto individui e Società) e illudendoci di essere personalmente immuni da qualsivoglia malvagità.
La percezione del male
Nell’esperimento di Philip G. Zimbardo, ci troviamo di fronte a persone assolutamente “normali” che, poste in determinate condizioni, cambiano in pochissimo tempo. Probabilmente, nelle settimane successive e con gli appositi interventi psicologici, guardie e detenuti tornarono a sorridere e a frequentarsi senza problemi, proprio per la brevità del periodo traumatico. Il momento storico che noi stiamo vivendo, invece, dura da un bel po’ e credo stiamo abituandoci al male intorno a noi o, almeno, come noi lo percepiamo. Spesso, infatti, lo viviamo in misura sproporzionata rispetto al reale, rimanendone contagiati, quasi per osmosi: i potenziali cattivi e i mille pericoli, sono ovunque. Riflettiamo sulle espressioni della gente che incontriamo (e su noi stessi), i cui volti spesso cupi, gli atteggiamenti troppo seri e guardinghi, denunciano il timore dell’insicurezza avvertita indirettamente. Per reazione (per difesa, oserei dire), ne rivengono comportamenti rigidi e sovente aggressivi (almeno nella forma): una chiusura immotivata e acritica nei riguardi di chiunque non abbia i “requisiti” per rientrare nei canoni dei nostri modelli socio-culturali. Difficile non intravedere i prodromi che, nel corso della storia, hanno macchiato il cammino dell’uomo: caccia alle streghe e olocausto, giusto per fare due esempi. Il tutto, mentre Tv e altri canali di comunicazione, ci sommergono di notizie catastrofiche anche riguardanti lavoro, economia e destini politici, mentre i Social ci spingono a sentirci protetti e potenti. Quale migliore scenario per rinchiuderci ancora di più in noi stessi, sia fisicamente sia psicologicamente? In realtà, il vero male è la paura e lo sa bene chi vuole e lavora per ottenere un branco disposto a obbedire e, al contempo, a non avere rapporti conviviali tra i suoi componenti. La socializzazione (non certo i Social…) è fonte di scambi culturali e di crescita personale e collettiva, di sviluppo delle capacità critiche che consentono di non generalizzare, di vedere le innumerevoli sfumature, di comprendere. La paura suscita reazioni, anche biochimiche, tali da immobilizzare le coscienze e trasformarle in creta facile da modellare. È in questi contesti che si alimenta il falso mito dell’uomo forte, del salvatore della situazione, del capopopolo di turno, populista e rabbioso, che sollecita i nostri timori, additando come responsabili del male un giorno i meridionali e un altro gli ‘stranieri’. Insomma, un alter ego che deleghiamo al nostro posto.
Presagi…
In un film horror del 1976 (The omen, Il presagio), con il grande Gregory Peck, il diavolo si incarna nel rampollo della famiglia presidenziale americana. Il finale lascia… presagire che diventerà il presidente degli Stati Uniti. Ovviamente è solo un film, ma alcune analogie con la realtà attuale sono, per così dire, curiose: si fomenta l’odio razziale erigendo muri; si cancellano trattati di vitale importanza per la pace e per i cambiamenti climatici; si sposta l’ambasciata a Gerusalemme; si mantiene il lager di Guantanamo nel quale l'essere non è più umano. E così via, a macchia di leopardo in tutto il mondo, gli esempi sembrano moltiplicarsi: da alcuni Paesi dell'Est, all’Ungheria fino alla Turchia, alla Siria, ecc. ecc. ecc. Il tutto con conseguenze drammatiche a breve e a lungo termine. Questo è ciò che più si avvicina all’idea del Male… In uno dei suoi interventi illuminanti (Epifania 2017), Papa Francesco riassume perfettamente il concetto:
… lo sconcerto di chi sta seduto sulla sua ricchezza senza riuscire a vedere oltre. Uno sconcerto che nasce nel cuore di chi vuole controllare tutto e tutti. È lo sconcerto di chi è immerso nella cultura del vincere a tutti i costi; in quella cultura dove c’è spazio solo per i ‘vincitori’ e a qualunque prezzo. Uno sconcerto che nasce dalla paura e dal timore davanti a ciò che ci interroga e mette a rischio le nostre sicurezze e verità, i nostri modi di attaccarci al mondo e alla vita.
P.s.: in deroga a quanto detto, una ‘sana’ paura è auspicabile quando, per esempio, guidiamo e contemporaneamente utilizziamo il cellulare. Serve a diminuire le possibilità di nuocere a noi e agli altri…


Fragranza…
La mia prima abitazione a Ostuni fu nel quartiere Mulino (o Molino) a vento. Quand’ero piccolo mi aspettavo le enormi pale girare alimentate dall’immancabile vento. Probabilmente era così nel Settecento, quando Ostuni si espanse fin lì, dal centro storico. Comunque i mulini c’erano, anche senza pale né don Chisciotte... Ricordi un po’ annebbiati dagli anni, mi riportano a consuetudini antiche, a quando le forme di pane, impastate e lievitate, con farina, acqua e sale si portavano al forno. Da qualche anno il pane lo faccio da me, in casa, con farina (a noi piace integrale), acquistata presso mulini di paesi limitrofi. Quell’aroma fa parte delle mie memorie più profonde e intense e, se pure quello che sforno ora è certamente diverso per tanti motivi, l’emozione risveglia straordinarie sensazioni lontane. Ogni volta, immancabilmente, tornano alla mente le varie fasi, ma era il lievito madre (in dialetto crescetora) che da bambino catturava la mia attenzione: un miscuglio di semplici ingredienti in grado di far crescere, di alimentare. Un simbolo di vita.
Simboli
L’uomo ha sempre vissuto di simboli, poiché rappresentano qualcosa che non può essere spiegato meglio del simbolo stesso. È un’abbreviazione cui la nostra mente ricorre per condividere e comunicare immediatamente un insieme anche complesso di dati, situazioni, sensazioni ed emozioni, altrimenti difficilmente assimilabili. Il simbolo era il mezzo più immediato ed efficace con cui nella preistoria l’homo symbolicus comunicava e tramandava le conoscenze. Così, quando riesce ad assumere la posizione verticale, l’homo habilis, può guardare davanti a sé da e con un’altra prospettiva: la verticalità è simbolo stesso dell’innalzamento verso il cielo e la diversa visione dell’orizzonte, invita ad avanzare, a crescere, alla scoperta di nuovi luoghi ed esperienze. Uno dei primi simboli è stato quello della dea Madre, mediazione suprema tra Natura ed esseri umani; l’Elemento che dà la Vita e, con essa, il benessere. Ho preso ad esempio il lievito madre, anche per questo, poiché simbolo di vita che si rinnova: credo esistano ancora, infatti, lieviti iniziati addirittura un secolo e passa fa. Ma è anche simbolo di scambio disinteressato, dunque di altruismo: le famiglie se lo passavano ravvivandolo con la semplice aggiunta di farina e acqua (si ‘rinfrescava’). Poi, una volta fatto l’impasto per il pane, se ne prelevava un pezzetto, lo si ricopriva d’olio e, in una coppetta, lo si riportava alla persona che l’aveva fornito. Dunque, vettore di socializzazione, di reciproco aiuto, di idee e comportamenti che i bambini apprendevano; lievito di cultura, appunto, giacché lo scambio presuppone il contatto diretto e discorsivo: un approccio, questo, sempre meno praticato e, ahimè, in desolante declino. Il lievito madre è, ovviamente, solo un esempio utile a farci riflettere su come simboli e situazioni possano cambiare e non sempre in meglio. Non intendo sostenere che si debba tornare ad abitudini difficili da praticare. Non sarebbe possibile; ma soffermarsi a considerare quale percorso stiamo seguendo, quali simboli stanno occupando il posto di altri e perché, sicuramente può aiutarci a migliorare. Torniamo a scambiarci tolleranza e riflettiamo sull’esempio che forniamo ai nostri figli quando (e come) esprimiamo le nostre convinzioni: atteggiamenti intolleranti, non faranno crescere degli uomini equilibrati, ma persone insicure, impaurite e proprio per questo aride. Come un pane senza la giusta lievitazione…


Mi spezzo ma non mi piego!
Quand’ero studente universitario del primo anno (ben oltre quarant’anni fa, ahimè…), non avevo mai visto un mendicante. Sì, qui da noi conoscevo famiglie povere e persone indigenti, ma nessuno mai seduto per terra davanti a una chiesa. Lo vidi, dunque, davanti alla basilica del Santo. Era giovane e con una folta barba incolta, capelli abbastanza lunghi e spettinati. Sembrava assorto in quelli che presumevo essere pensieri ‘strani’. Non era messo malissimo: abiti trasandati ma puliti; occhiali alla John Lennon e scarpe che avevano camminato, ma che erano ancora in buono stato. “Beh” mi dissi “evidentemente a Padova i mendicanti sono così! ”. Lasciai cinquanta lire (non potevo permettermi di più), per terra, poiché non c’era il cappello voltato, quello classico da vignetta, né lui porgeva il palmo della mano. Mi guardò e sorrise, per me era un ‘grazie’. Ricambiai quello strano sorriso e continuai il mio percorso. Qualche giorno dopo mi recai con un mio amico presso la sua facoltà, astronomia, per assistere a una conferenza di uno dei più importanti astrofisici dell’epoca. Sì, era proprio il ‘mendicante’ cui avevo fatto l’elemosina!
Rigidità mentale
Allora non conoscevo la ben nota frase di Albert Einstein, “la mente che si apre a una nuova idea non torna mai alla sua dimensione originale”. Questa apparentemente semplice asserzione invita alla conoscenza, alla curiosità e, soprattutto, all’apertura mentale: la capacità, cioè, di affrontare un fatto o un pensiero, analizzandolo da diversi punti di vista; cercando, dunque, altre prospettive per valutare ciò che diamo inizialmente per scontato. Grosso modo si può parlare di rigidità mentale quando si è convinti che:
- i nostri punti di vista, opinioni, convinzioni siano le più giuste e quelle degli altri, errate;
- non lasciamo terminare i discorsi, intervenendo troppo drasticamente (o rimuginiamo con astio, se leggiamo o vediamo in Tv);
- la nostra maniera di agire, di fare le cose è l’unica e la più giusta;
- siamo legati al passato e alle regole, in modo troppo ostinato e intransigente;
- siamo poco disponibili al cambiamento e alle novità, poiché vissuti come pericolosi e intimorenti, con frequenti riferimenti a situazioni del passato, ritenute ideali;
- nessuno, o pochissime altre persone, è come noi in quanto a onestà, umiltà, coerenza, bontà e così via. Mentre, dagli ‘altri’ ci si deve guardare e non fidare, ecc.
Insomma, abbiamo ragione sempre e a prescindere dagli argomenti! Insieme a parte o tutte le precedenti indicazioni, si possono affiancare anche l’estrema cavillosità e meticolosità nell’agire: questa propensione, utilizzata a ulteriore dimostrazione delle proprie capacità, se troppo pronunciata sfiora l’ossessione. Ma qui, già sfioriamo una seria patologia.
Genesi
Apparentemente le persone con rigidità di pensiero, possono sembrare affidabili e sicure di sé. In realtà, alla base ci sono eccessiva insicurezza e disistima che conducono, appunto, a ‘mascherarsi’ con una determinazione e caparbietà che costituiscono, invece, una corazza, una ‘parete isolante’, utile a difendersi, non già ad affrontare i conflitti interiori. Più che una vera e propria patologia, la rigidità mentale è uno stato appreso durante l’infanzia e prosegue nell’adolescenza: un’educazione troppo rigida, costituita da valori assoluti e stereotipati, è il terreno di cultura ottimale. Il punto non è la trasmissione dei valori. Tutt’altro. Il problema insorge quando questi valori sono inculcati e propinati come unici e indiscutibili. Il bambino ha, così, la convinzione che trasgredire può dar luogo a punizioni, dunque assume il ruolo che gli è stato affidato. Cerchiamo di spiegare i valori ai nostri figli, non di imporli. Se poi ci accorgiamo di avere una certa rigidità mentale, proviamo a cambiare. Più facile a dirsi che a farsi, me ne rendo conto, ma così come la rigidità mentale è un insieme di abitudini apprese, a queste si può cercare di sostituirne altre e ben più sane. Per esempio, iniziamo a chiederci se le nostre prese di posizione siano giustificate. Analizziamole da più punti di vista, soffermandoci sulle emozioni che ciò comporta. Ammettiamo la possibilità di poter sbagliare, iniziando da piccoli errori. E poi, sforziamoci di essere curiosi verso ciò che finora avevamo scartato a priori. È un percorso lungo, ma non impossibile da praticare.
P.s.: a proposito del ‘mendicante’, ci rimasi malissimo soprattutto quando, riconoscendomi alla conferenza, l’astrofisico mi sorrise con la stessa punta di commiserazione, mi parve, dopo l’elemosina. Come risposta, cercai di assumere un’aria consapevole e interessata. In realtà, non capii niente degli argomenti trattati. Lo ammetto…


Il "Grande Genitore"
Alcuni decenni addietro, ero a mare presso l’allora Miami Beach di Ostuni: i Camerini. I turisti erano ancora pochi e le rare inflessioni ‘settentrionali’ che si sentivano, erano un misto di ostunese e, per esempio, milanese. Così, capitò di ascoltare una signora che da ore, in quello strano idioma, redarguiva il figlio di circa otto anni a non fare questo e quello e quell’altro ancora… I coetanei del piccolo continuavano a giocare, ma lui sembrava legato a un invisibile guinzaglio, lì, immobile seduto finché, appena la madre ebbe un rarissimo momento di distrazione, riuscì a fare un paio di metri verso i suoi amichetti che giocavano in riva. A quel punto la signora abbandonò ogni velleità linguistica, esprimendosi in un urlato dialetto ostunese, anche abbastanza colorito. Da quel momento, il bambino non si mosse più almeno fino a quando io e i miei amici rimanemmo in spiaggia. La madre intanto lo sottopose a mille attenzioni: “metti la crema… mangia questo… hai caldo, vero?” e così via. Immagino quel bambino ora: un quarantenne insicuro e ansioso.
Che ansia!
Si stima che il 25% della popolazione soffra, in varia misura, di fenomeni legati all’ansia. Una percentuale altissima che pone questo tipo di disturbo al vertice delle problematiche psicologiche. I sintomi possono iniziare intorno agli undici anni e anche prima, e spesso passano inosservati. Comunque, a parte l’insorgenza, si tende a minimizzare il problema che col tempo può cronicizzare fino a compromettere l’equilibrio psicofisico, le normali attività quotidiane e le relazioni sociali.
Ansia congenita o trasmessa?
Un recente studio condotto da Thalia C. Eley* e altri (American Journal of Psychiatry - 2015), su 876 famiglie, ha evidenziato che, sebbene la genetica rivesta un ruolo importante nella predisposizione e relativa trasmissione dell’ansia, è ancora più determinante l’insieme dei fattori ambientali: il tipo di educazione, l’apprendimento di alcuni comportamenti e altri meccanismi correlati, possono creare le basi di un disturbo d’ansia, a prescindere dalla trasmissione genetica tra le generazioni. I risultati delle più importanti ricerche condotte negli ultimi decenni, sono concordi su alcuni punti, per esempio la qualità del rapporto di coppia dei genitori: conflitti più o meno manifesti, litigi continui anche in presenza dei figli, contraddittorietà nel metodo educativo (la mamma dice sì e il padre no, e viceversa). Ancora, gli studiosi concordano sui comportamenti di rifiuto che, associati a iperprotettività, sono alla base dell’insorgenza e del mantenimento dell’ansia nei bambini che permarrà, spesso cronicizzando, anche da adulti.
Ti tengo d’occhio! (Parental over-control)
È indispensabile, specie da bambini e da adolescenti, che ognuno di noi abbia i propri spazi per fare esperienze e confrontarsi con le difficoltà. Quando, invece, siamo costantemente sotto controllo di uno o entrambi i genitori, è come se dovessimo seguire un copione già scritto da altri che non ci consente di esplorare i nostri limiti e le nostre inclinazioni. Ovviamente devono esserci delle linee guida precise e imprescindibili nell’educazione, ci mancherebbe, ma le incessanti attenzioni, l’onnipresente occhio del “Grande… Genitore” (in questo caso il fratello c’entra poco), ci plasmano senza farci partecipare e comprendere. Il “Non” sostituisce spesso le esperienze dirette, diventando un muro invalicabile che simbolicamente rappresenterà la paura immotivata, l’ansia. Insegnare ad affrontare i vari passaggi dell’infanzia, dal gioco alla scuola, dalle amicizie agli appuntamenti nell’adolescenza e via dicendo, seguendo discretamente i propri figli, significa aiutarli a essere il più possibile liberi dagli invisibili muri eretti da altri. È chiaro che nessuno insegna ai genitori come fare del proprio meglio, così come è indiscutibilmente tutto fatto a “fin di bene”. Spesso ci illudiamo che un’educazione troppo rigida, intrusiva e ipercontrollata (magari come quella che ci è stata impartita), possa “irrobustire” il carattere e tendiamo a tramandarla ai nostri figli, forse proprio poiché non conosciamo alternative: i ricordi che abbiamo di noi da bambini, sono filtrati da una sorta di censura che agisce da intermediaria tra ciò che avremmo voluto essere e ciò che siamo. Una personalità che si avvicini il più possibile al concetto di equilibrio, necessita di una educazione che sia guida, ma soprattutto che non neghi la possibilità di cadere per imparare a rialzarsi da soli o di decidere autonomamente se si ha caldo, fame, ecc…
*Docende di Sviluppo comportamentale genetico presso l’Institute of Psychiatry's MRC Social, Genetic and Developmental Psychiatry Centre, King's College London


Un ricordo che chissà per quali recondite associazioni, m’è balenato stamani e su cui si è focalizzata la mia… attenzione: i miei quindici/diciassette anni e in particolare le festicciole da ballo “ruspanti” che supplivano all’assenza di discoteche. Ci si ritrovava in casa, ma il più delle volte nei garage addobbati alla meglio: un giradischi e via a invitare le coetanee (di solito con un rapporto numerico di dieci ragazzi e tre ragazze, ahimè). Il volume era alto ma, durante i lenti, le frasi che ci si diceva coprivano magicamente qualsiasi altro rumore. Solo anni dopo appresi che si trattava dell’effetto party, fenomeno che gli psicologi conoscono bene, utile definire
l’attenzione selettiva
È una strategia del nostro cervello che serve a valorizzare un unico obiettivo, escludendo altri stimoli inutili in quel momento. Questo tipo di attenzione si attiva quando dobbiamo eseguire compiti e azioni particolarmente impegnativi e termina quando e se quelle attività sono state apprese e più volte sperimentate. Per fare un esempio, la guida dell’auto all’inizio presuppone un grande sforzo di concentrazione: alla coordinazione di tutti e quattro gli arti tra cambio, volante e pedali, si aggiunge l’elaborazione simultanea di centinaia di informazioni visive e mnemoniche; dobbiamo ricordare la segnaletica, oltre che cercare di non tamponare o investire qualcuno… È il compito dell’attenzione selettiva che ci consente un coordinamento tanto complesso. Ben tre reti di neuroni si attivano durante le azioni complesse, in questo caso la prima rete terrà alto lo stato di allerta o allarme; la seconda selezionerà le varie possibilità (dove svoltare, quanto spazio c’è tra noi e il prossimo ostacolo, e così via); l’ultima rete neuronale troverà la soluzione migliore. Poi, col tempo, gestualità e attenzione diventano memoria muscolare o procedurale, una sorta di pilota automatico che ci consente di svolgere compiti complessi in modo relativamente agevole.
L’attenzione divisa
Quando abbiamo ormai appreso e consolidato i meccanismi di un compito, allora possiamo dedicarci ad attività di “contorno”. Sempre seguendo l’esempio della guida, ascoltare la radio, potremo parlare, insomma “distrarci” pur avendo ben presente le varie manovre da eseguire e la relativa attenzione da porre. Quando dobbiamo fare contemporaneamente due cose relativamente impegnative, il cervello suddivide i compiti ai due emisferi di cui è composto. E solo due, perché se anche la terza e/o le altre attività che cerchiamo di svolgere, hanno lo stesso grado di difficoltà, sorgono problemi: iniziamo a sbagliare e a confonderci.
Multi-Tasking
È la capacità di un computer, di eseguire più programmi in contemporanea. È possibile che il nostro cervello in futuro sviluppi le capacità di gestire più compiti impegnativi simultaneamente. Per ora ci si deve “accontentare” e costatare che è meglio concentrarci su poche attività impegnative alla volta. L’utilizzo di computer e, ormai più diffusamente, di smartphone e tablet, se da un lato ci dà l’illusione di poter fare più cose impegnative (i maghi delle App!), in realtà ci costringono a una sorta di pensiero unico dal quale, a lungo andare, dipenderemo.
E mi immagino al tempo delle discoteche casalinghe mentre, intento ad apparire simpatico e suadente, condivido su un Social quel momento: un sano ceffone avrebbe sicuramente sollecitato la mia attenzione.


Come tutti i bambini, anch’io ero affascinato del presepe, emozione che, pur affievolita, permane anche da adulto. Con l’avvicinarsi del Natale, iniziavo a chiedere quando sarebbe stata aperta la magica scatola e avessi potuto metter mano e ammirare quelle bellissime statuine, perdendomi a immaginare dialoghi e situazioni. Un esempio di curiosità e meraviglia, il presepe. Mi piace pensare che anche i lettori di questo storico mensile, con motivazioni certamente più prosaiche, ne sfoglino le pagine con una certa curiosità, per gli argomenti trattati dai validissimi collaboratori. Mi auguro anche che questo atteggiamento costruttivo e di crescita personale sia, in generale, una caratteristica della propria quotidianità. Magari senza la presunzione di eguagliare Albert Einstein, che diceva di sé con malcelata umiltà ” Non ho particolari talenti, sono soltanto appassionatamente curioso”, ponendo implicitamente la curiosità alla base del proprio genio.
Definizione
Nonostante sia una parola molto familiare a tutti, non esiste una definizione univoca. Il termine latino curiositas, e la sua radice cura, ha vari significati indicando premura e sollecitudine, ma anche inquietudine, affanno. Nel corso del tempo curiosità ha, difatti, avuto interpretazioni contrastanti: virtù, se intesa come conoscenza, desiderio di allargare i propri orizzonti culturali, scientifici e di crescita intellettuale; vizio, se fine a se stessa. In psicologia, la curiosità è studiata in riferimento al suo valore di stimolo all’atteggiamento di esplorazione, intesa in senso lato. Lo psicologo canadese Daniel Ellis Berlyne è stato il maggior studioso della curiosità, che egli intendeva come motivazione a comportarsi in un certo modo. Berlyne suddivide l’atteggiamento curioso in epistemico, percetti¬vo, specifico e diversivo. La curiosità percettiva è quella basilare: ci interessiamo a qualcosa di nuovo finché lo stimolo non ‘stanca’ la nostra attenzione. Per esempio, ascoltiamo una canzone nuova poi la riascoltiamo per apprendere meglio motivo e le parole, ma a lungo andare quel brano perderà interesse. La curiosità epistemica riguarda la conoscenza scientifica ed è caratterizzata dal desiderio di sapere, di apprendere nuove nozioni anche a prescindere dagli stimoli. Ancora, la curiosità specifica si riferisce alla necessità di avere un particolare tipo di informazione: per risolvere un problema, ricerchiamo dei dati, facciamo domande, interpelliamo Google, e così via. L’ultima, la curiosità diversiva, è definita da Berlyne come l’insieme di comportamenti che derivano dalla noia: la ricerca, cioè, di nuovi e continui stimoli spesso inutili.
Caratteristiche
Cercare nuovi percorsi è una caratteristica delle menti curiose, il cui comportamento è rivolto a cercare alternative valide a stereotipi e situazioni date per scontate. È un parametro per misurare l’intelligenza (argomento che probabilmente tratterò in un altro intervento)? Mah!? Sta di fatto che la curiosità, intesa come desiderio di conoscenza, stimolo all’approfondimento, modo di trovare altre spiegazioni/soluzioni rispetto a ciò che appare e viene dato semplicisticamente per scontato, è una dote di menti particolarmente brillanti. Se fosse caduta una mela durante un mio riposino campagnolo, così come accadde a Newton, forse avrei esclamato parole poco ortodosse anziché pormi le domande che portarono alla scoperta della gravità terrestre. Così, smaltirei nell’apposito contenitore due pezzi di vetro, senza pensare minimamente di unirli in modo da poter osservare pianeti e stelle, come capitò a Galilei. In ognuno di noi si possono combinare le quattro categorie di cui sopra, anche se, ahimè, la curiosità diversiva sembra ormai l’unica a prevalere: si ricercano continuamente stimoli nuovi, quanto banali ed effimeri, verso i quali perdiamo immediatamente interesse, sono vissuti come fonte di sapere, piacere, (falsa) trasgressione. Quest’ultima classificazione potremmo attualmente identificarla con il pettegolezzo, il gossip in cui mancano i requisiti indispensabili per diventare ‘nobile’ curiosità. A quest’ultima, infatti, si abbina lo stupore della scoperta, la meraviglia per la straordinaria novità, grande o piccola che sia. Nel pettegolezzo, invece, si ricerca qualcosa che appartiene ad altri e che sicuramente non ci farà crescere poiché la conoscenza è fine a se stessa.
Ammiriamo il presepe con gli occhi dei bambini: il pescivendolo, la lavandaia, il pastore sono il simbolo della meraviglia e non del pettegolezzo sulla stalla che non è un appartamento ben arredato…

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