Il modo di guidare l’auto qui da noi in città, è a volte spregiudicato: spesso lo stop è un optional, così come i passaggi pedonali e, a volte, i semafori. Pedoni e autisti, nell'alternanza nei ruoli, pare siano ormai abituati al rischio e abbiano preso le dovute ‘misure a occhio’. Giorni addietro assistetti a un investimento, per fortuna risoltosi solo con un po’ di spavento. Non so se a causa del nuovo elemento che si è aggiunto ad aumentare i rischi da disattenzione, il cellulare, ma la responsabilità era in ogni caso dell’autista. Distratto forse, ma non certo intenzionato a nuocere. Utilizzando un linguaggio che non mi appartiene, quello della giurisprudenza (mi perdonino gli addetti ai lavori che dovessero leggermi...), direi che fare del male si possa distinguere per comodità in
responsabilità o
dolo (intenzionalità). Nel caso di cui sono stato testimone, la responsabilità dell’autista, dunque, era oggettiva, ma, appunto, senza intenzione di arrecare danno. Altra cosa, il dolo, sarebbe stata individuare il pedone e investirlo di proposito. Due casi limite, il primo dei quali può capitare a tutti, mentre il secondo presuppone una premeditazione malvagia che ci fa subito asserire “
io lo farei mai! ”.
Il male indotto
Il
male è sempre stato l’oggetto oscuro nelle varie culture e religioni. In questa sede, però, il termine non è utilizzato da un punto di vista teologico, ma è da intendersi come cattiveria, malvagità, cioè come tratti dell’indole che accompagnano la storia dell’Uomo e ne sono parte integrante. Nel rispetto delle proprie Fedi e delle convinzioni personali, credo siano le intenzioni e i risultati a definire e configurare il male, in eterna contrapposizione al bene. Ma come si diventa malvagi, cattivi? Si nasce tali o lo si diventa? In un controverso esperimento del 1971 presso la Standford University, lo psicologo Philip G. Zimbardo, selezionò 24 studenti universitari in base a specifici criteri: assenza di disturbi mentali o problemi psicologici, nessuna droga assunta, fedina penale pulita. Insomma, tutte “brave e normali persone” che, in una finta prigione appositamente allestita, furono suddivise a sorteggio in dodici guardie e altrettanti carcerati. Gli spazi erano molto ristretti e, mentre i detenuti dovevano risiedere giorno e notte nelle celle, le guardie facevano turni di otto ore e potevano tornare alle proprie abitazioni quando finivano. Una sorta di
Grande Fratello ante litteram, infatti tutti gli ambienti erano corredati da telecamere e microfoni. L’esperimento aveva una durata prevista di quattordici giorni, ma fu interrotto dopo appena sei giorni per le condizioni ormai degenerate dei partecipanti, soprattutto dei detenuti alcuni dei quali, già dal secondo giorno, inveirono contro i secondini, lacerandosi le divise e barricandosi nelle celle. Le guardie risposero assumendo atteggiamenti provocatori e intimidatori, costringendo gli altri a umiliazioni di ogni genere. Dopo cinque giorni, i prigionieri evidenziarono chiari sintomi di disgregazione individuale e di gruppo, con vari e gravi disturbi anche della sfera emotiva. Erano ora remissivi, ora aggressivi con se stessi e con gli altri. Per contro, aumentavano i comportamenti sadici e vessatori tra le guardie le quali, quando i ricercatori interruppero l’esperimento, espressero la loro delusione in contrapposizione alla contentezza dei detenuti. Le conclusioni rilevarono le similitudini dei detenuti con pazienti psichiatrici o con prigionieri di guerra, con manifestazioni anche psicosomatiche: erano completamente distrutti nel fisico, ma soprattutto psicologicamente. I secondini apparvero anch’essi cambiati: reattivi ma più cinici e incattiviti, disponibili a continuare inebriati dal potere acquisito e dalla conseguente mania di grandezza, sembravano non riconoscere la differenza con il proprio comportamento di soli pochi giorni prima. In ognuno dei due gruppi, comunque, i sintomi ebbero un’incidenza non omogenea, variando dal massimo della frustrazione totalizzante a una sofferenza meno pronunciata per gli uni, e da una malvagità inaudita a un atteggiamento lievemente meno duro, per gli altri. Questo esperimento non è certo da considerarsi esaustivo e molti studiosi hanno rilevato diverse lacune metodologiche, ma tutti sono stati d’accordo sullo spunto che ha fornito nella comprensione dei processi che inducono ai comportamenti
malvagi e devianti: si dia la sensazione del potere (o della privazione) e la maggior parte di noi, con le dovute differenze, reagirà di conseguenza…
Le origini
Esistono varie teorie riguardo alla genesi dei comportamenti che portano al
male. Per esempio, il medico Cesare Lombroso nella seconda metà del 1800, teorizzò che alla base del comportamento criminale vi fosse la genetica che trasmette i cromosomi negativi di generazione in generazione. L’individuo deviante sarebbe riconoscibile anche attraverso i caratteri somatici: un certo tipo di fronte, di naso, di occhi e così via. Altre teorie ipotizzano una sorta di mescolanza genetica, dai primi ominidi, per passare all’uomo di Neanderthal, all’Homo sapiens, fino ai giorni nostri. Una specie d’ineluttabilità cromosomica, che sarebbe alla base di tutto. Lo stesso Lombroso, però, verso gli ultimi anni della sua vita ammise l’importanza dell’ambiente nello sviluppo di determinati atteggiamenti. Eh sì, perché momento storico, educazione, ambiente culturale e situazioni contingenti, rivestono invece un ruolo fondamentale nella genesi del male. Chissà, forse alcune predisposizioni genetiche, rivenienti dal mixer di cui sopra, facilitano la propensione alla cattiveria. Sta di fatto, però, che considerare solo i fattori genetici, è servito da sempre a mettere a posto le coscienze (“
è nato così! ”) coprendo le nostre responsabilità (in quanto individui e Società) e illudendoci di essere personalmente immuni da qualsivoglia malvagità.
La percezione del male
Nell’esperimento di Philip G. Zimbardo, ci troviamo di fronte a persone assolutamente “normali” che, poste in determinate condizioni, cambiano in pochissimo tempo. Probabilmente, nelle settimane successive e con gli appositi interventi psicologici, guardie e detenuti tornarono a sorridere e a frequentarsi senza problemi, proprio per la brevità del periodo traumatico. Il momento storico che noi stiamo vivendo, invece, dura da un bel po’ e credo stiamo abituandoci al
male intorno a noi o, almeno, come noi lo percepiamo. Spesso, infatti, lo viviamo in misura sproporzionata rispetto al reale, rimanendone contagiati, quasi per osmosi: i potenziali
cattivi e i mille pericoli, sono ovunque. Riflettiamo sulle espressioni della gente che incontriamo (e su noi stessi), i cui volti spesso cupi, gli atteggiamenti troppo seri e guardinghi, denunciano il timore dell’insicurezza avvertita indirettamente. Per reazione (per difesa, oserei dire), ne rivengono comportamenti rigidi e sovente aggressivi (almeno nella forma): una chiusura immotivata e acritica nei riguardi di chiunque non abbia i “requisiti” per rientrare nei canoni dei nostri modelli socio-culturali. Difficile non intravedere i prodromi che, nel corso della storia, hanno macchiato il cammino dell’uomo: caccia alle streghe e olocausto, giusto per fare due esempi. Il tutto, mentre Tv e altri canali di comunicazione, ci sommergono di notizie catastrofiche anche riguardanti lavoro, economia e destini politici, mentre i
Social ci spingono a sentirci protetti e potenti. Quale migliore scenario per rinchiuderci ancora di più in noi stessi, sia fisicamente sia psicologicamente? In realtà, il vero male è la paura e lo sa bene chi vuole e lavora per ottenere un branco disposto a obbedire e, al contempo, a non avere rapporti conviviali tra i suoi componenti. La socializzazione (non certo i Social…) è fonte di scambi culturali e di crescita personale e collettiva, di sviluppo delle capacità critiche che consentono di non generalizzare, di vedere le innumerevoli sfumature, di comprendere. La paura suscita reazioni, anche biochimiche, tali da immobilizzare le coscienze e trasformarle in creta facile da modellare. È in questi contesti che si alimenta il falso mito dell’uomo forte, del salvatore della situazione, del capopopolo di turno, populista e rabbioso, che sollecita i nostri timori, additando come responsabili del male un giorno i meridionali e un altro gli ‘stranieri’. Insomma, un alter ego che deleghiamo al nostro posto.
Presagi…
In un film horror del 1976 (The omen, Il presagio), con il grande Gregory Peck, il diavolo si incarna nel rampollo della famiglia presidenziale americana. Il finale lascia… presagire che diventerà il presidente degli Stati Uniti. Ovviamente è solo un film, ma alcune analogie con la realtà attuale sono, per così dire, curiose: si fomenta l’odio razziale erigendo muri; si cancellano trattati di vitale importanza per la pace e per i cambiamenti climatici; si sposta l’ambasciata a Gerusalemme; si mantiene il lager di Guantanamo nel quale l'essere non è più umano. E così via, a macchia di leopardo in tutto il mondo, gli esempi sembrano moltiplicarsi: da alcuni Paesi dell'Est, all’Ungheria fino alla Turchia, alla Siria, ecc. ecc. ecc. Il tutto con conseguenze drammatiche a breve e a lungo termine.
Questo è ciò che più si avvicina all’idea del Male…
In uno dei suoi interventi illuminanti (Epifania 2017), Papa Francesco riassume perfettamente il concetto:
“
… lo sconcerto di chi sta seduto sulla sua ricchezza senza riuscire a vedere oltre. Uno sconcerto che nasce nel cuore di chi vuole controllare tutto e tutti. È lo sconcerto di chi è immerso nella cultura del vincere a tutti i costi; in quella cultura dove c’è spazio solo per i ‘vincitori’ e a qualunque prezzo. Uno sconcerto che nasce dalla paura e dal timore davanti a ciò che ci interroga e mette a rischio le nostre sicurezze e verità, i nostri modi di attaccarci al mondo e alla vita. ”
P.s.: in deroga a quanto detto, una ‘sana’ paura è auspicabile quando, per esempio, guidiamo e contemporaneamente utilizziamo il cellulare. Serve a diminuire le possibilità di nuocere a noi e agli altri…