Dott. Franco Sponziello
Psicologo

Articoli e pubblicazioni - Anno 2015

Altri anni:


Attenti al lupo!
Così cantava il grande Lucio Dalla, con la sua inconfondibile voce e la sua carica ironica. Attenti al lupo fa parte di noi, delle nostre paure più ataviche, dell'essere sbranato, ma anche dell'incontro con il male e della sua presenza costante, subdola, insidiosa, nascosta. Un malaugurato incontro in cui il lupo (aggiungerei, suo malgrado), è il leggendario aggressore e il fiabesco furbacchione. Avvertire un presunto pericolo, a volte serve a proiettare, esorcizzandola, la nostra aggressività. In qualche modo quest'ultima deve trovare sbocco ma, non potendo ammettere l'irruenza dei nostri impulsi, li addebitiamo ad altri, siano essi persone o animali. Qualcosa del genere può accadere nel caso della paura dei cani che, quando è particolarmente intensa, si definisce
cinofobia
Se si riflette un po' su, sembra davvero contraddittorio che il migliore amico dell'uomo, sia anche il protagonista di una delle paure più diffuse. La paura dei cani (in particolare di essere morsi), può essere presente già dalla prima infanzia. Se siamo stati inseguiti o morsi da un cane, è ovvio che il ricordo traumatico ci spingerà poi a tutelarci, evitando qualsiasi contatto che non sia adeguatamente protetto e a distanza. Altra cosa è la paura immotivata, senza uno specifico evento che possa averla generata. Secondo la psicanalisi, nelle fobie intervengono meccanismi di difesa dell'Io atti a controllare le ansie inconsce. In altri termini, rispetto alla tensione provocata da un trauma vissuto realmente, il minore dei mali è sfogare (termine assolutamente improprio, ma che rende, credo, l'idea) l'ansia, rivolgendola verso qualcosa o qualcuno. Per meglio spiegare il concetto, riporto l'esempio del piccolo Hans trattato da Freud: il bambino aveva una fobia nei riguardi dei cavalli, talmente grave da non poter nemmeno uscire da casa. Freud spiegò questo specifico disturbo, con lo spostamento inconscio che Hans operò per dirottare l'ostilità (aggressività), nei riguardi del proprio padre. In pratica, faceva meno male avere un problema con i cavalli che ammettere un conflitto, con relativo confronto (perso in partenza), con il proprio genitore. Non intendo certo sostenere che la cinofobia nasconda sempre questo meccanismo. Personalmente propendo verso interpretazioni che tengano conto anche del vissuto complessivo di chi soffre di tale fobia, delle esperienze, dell'educazione, del contesto sociale e di quello culturale. Senza accorgercene, spesso trasmettiamo le nostre paure ai bambini cui giungono amplificate. Il contesto gioca anch'esso una parte rilevante: nelle società rurali, questa fobia è praticamente assente o ridotta ai minimi termini. La quotidiana abitudine al rapporto e al contatto continuo con i cani e gli animali in genere, elimina la paura. Anche Ostuni, non fa eccezione: fateci caso, non si sentono più i cani abbaiare e per strada si vedono di rado. Qualcuno valuterà positivamente questo dato tralasciando, però, che, paradossalmente, le fobie (non solo la cinofobia), continuano ad aumentare. I media diffondono le notizie degli sporadici attacchi da parte di cani, aggressioni che sono statisticamente in flessione e devono essere valutate singolarmente. Se proprio fosse impossibile avvicinare gradualmente i nostri figli ai cani (magari iniziando dai cuccioli e, in ogni caso, ad animali di provata mitezza), almeno cerchiamo di minimizzare la nostra ansia quando ne vediamo o incontriamo uno. Buon 2015.


Esiste un diverso più diverso di altri? Quali sono i nostri parametri mentali della diversità e qual è la soglia che il diverso non deve superare per non infastidirci? I neri devono essere scurissimi, color ebano, stile Obama, perché siano davvero tali? E gli omosessuali? Devono essere palesemente effeminati o discretamente maschili? I pazzi? Devono gridare e scalmanarsi oppure borbottare frasi insensate tra sé e sé mantenendosi, comunque, a debita distanza? E gli ebrei e gli zingari e i vucumprà e… L'appartenenza a un gruppo è di primaria importanza per l'identificazione e lo sviluppo del Sé: serve a farci capire, sin da piccoli, quali sono i limiti del nostro orizzonte, a difenderci e ad attaccare, e a tanto altro. Il linguaggio, l'abbigliamento, il comportamento, diventano elementi essenziali per creare il nostro status cui faremo riferimento per il futuro. Va da sé che ogni altro gruppo o singola persona che non abbia caratteristiche affini alle nostre, desti la nostra attenzione, se non l'allarme. L'identificazione con un gruppo è senza dubbio positiva. Anticamente serviva a riconoscere i pericoli derivanti da altre fazioni che potevano creare problemi al gruppo stesso: le bandiere, le divise, gli stendardi e quant'altro, ne sono diventati nei secoli la carta d'identità. Tuttora l'abbigliamento, per esempio, contraddistingue lo status. Pensiamo all'epoca dei capelloni, iniziata con i Beatles, ma anche ai paninari o ai punk e via dicendo. Fin qui ci verrà anche da sorridere, data la relativa innocuità di queste esperienze, ma se pensiamo alle conseguenze del nazismo, piuttosto che dell'Inquisizione, della tratta degli schiavi (e come sia ancora recente l'apartheid del Sudafrica e del razzismo ancora tristemente radicato in America), allora ci rendiamo conto di come sia difficile sradicare anche da noi stessi la convinzione che l'appartenenza a un gruppo, deve significare oggi confronto e non esclusione o, peggio, aggressione. Insomma, la diversità degli altri, serve a consolidare la nostra normalità: il nero per il colore della pelle, l'omosessuale per la sessualità contro natura, il pazzo per gli atteggiamenti alienati e strani, tutti questi (e moltissimi altri), NON sono come noi, dunque la 'normalità' è rappresentata esclusivamente dai nostri comportamenti. Abbiamo bisogno di un capro espiatorio per sentirci uguali, omologandoci a comportamenti condivisi, per non essere rifiutati. Probabilmente ci sarà capitato di doverci schierare da una certa parte, anziché un'altra e abbiamo deciso di parteggiare per una causa la cui giustezza non ci risultava tanto scontata, ma cui abbiamo dovuto aderire per non essere esclusi o emarginati. È plausibile sia successo, per esempio, a scuola dove, anche per la particolare età, si tende a coalizzarsi in gruppi con leader ben precisi e a omologare il proprio comportamento per essere accettati dal gruppo. L'omologazione è una costante che, se per un verso ci fa sentire appartenenti a una compagine specifica, dall'altro ci permette di mimetizzarci, evitando così di prendere iniziative che potrebbero indurre conflitti insostenibili. Credo sia consigliabile soffermarsi a valutare attentamente il nostro grado di omologazione che non sempre è sinonimo di tranquillità. Anzi.


Stavolta cambio sul serio!
Eh già, cambiare è, probabilmente, ciò che ci riproponiamo più spesso di fare. Vorremmo essere diversi da come siamo, desidereremmo diventare meno 'così' o più 'colà'. Qualcosa di noi non ci piace e, anche se il 'disagio' non è patologico, spesso i rimedi che ricerchiamo portano a cambiamenti momentanei. Per esempio, e mi riferisco a entrambi i sessi, si ricorre a diete, restauri estetici, imbellettamenti vari quali espedienti per un cambiamento che, in realtà, è soltanto esteriore. Nei giovani questo dato non serve tanto al cambiamento, quanto all'omologazione, finalizzata per essere accettati dal gruppo o da una persona in particolare, secondo i 'criteri' che contraddistinguono l'epoca in cui si vive. In realtà anche negli adulti gli atteggiamenti si modificano in relazione al periodo storico, all'educazione ricevuta, all'ambiente culturale e sociale. Fino alle scoperte di Galilei, per esempio, si aveva del mondo e di sé, una percezione molto diversa rispetto ai nostri tempi. Un cambiamento davvero epocale e radicale della percezione di sé in relazione all'universo. Oggi viene naturale pensare noi stessi all'interno di un sistema astronomico ben più grande, ridimensionando, per così dire, la percezione della nostra 'onnipotenza'. A volte, dunque, le priorità che assegniamo a ciò che crediamo importante, sono in realtà falsi obiettivi, comunque non sostanziali. Certo, il cambiamento esteriore può diventare importante ma (solo) se non rappresenta l'unico rimedio.
"Non sono le cose in sé che ci preoccupano, ma le opinioni che noi abbiamo di quelle cose."
Lo sosteneva il filosofo Epitteto circa duemila anni fa. Una lettura di quest'asserzione, ci dice che il problema non sta nelle cose o negli eventi, ma nel valore negativo (o positivo) che noi gli diamo. "Nella grande maggioranza, i problemi che vogliamo risolvere mediante il loro cambiamento non sono problemi correlati alle proprietà degli oggetti o delle situazioni, ma sono correlati al significato, al senso ed al valore che noi siamo giunti ad attribuire a questi oggetti o situazioni" (L'arte del cambiamento, Nardone – Watzlawick). In altri termini, sovente confondiamo il reale valore, con la carica emotiva che diamo a 'qualcosa'. Un esempio banale è costituito dalla sigaretta cui, chi fuma, attribuisce la proprietà di calmare, trascurando che l'oggetto 'sigaretta', contiene un alcaloide, la nicotina, che al pari di caffeina e teina, è un eccitante, dunque non proprio la sostanza adatta a placare l'ansia… Sono le nostre aspettative che danno alle cose e alle situazioni, significati addirittura terapeutici, quasi magici, 'rituali' che creano aspettative le quali, a distanza di poco tempo, sono destinate a essere smentite. Il cambiamento è qualcosa di diverso e presuppone la disponibilità ad analizzare i motivi reali che generano comportamenti indesiderati. Ben vengano 'interventi' esterni se servono a migliorare (non a sostituire), uno stato di partenza già abbastanza soddisfacente. Non neghiamoci il 'superfluo', ma indaghiamo più a fondo noi stessi. È bene sempre riflettere su ciò che consideriamo determinante. Ricorrere a rimedi esteriori, rischia di spostare su falsi obiettivi la soluzione. Sicuramente può farci sentire meglio sul momento, ma saremo legati all'idea che per star bene si debba necessariamente ricorrere a palliativi esterni.


Mo' ti butto via...
Di recente mi è capitato di leggere in internet la seguente citazione: "Come siete riusciti a stare insieme per sessantacinque anni?" - chiede qualcuno - "Siamo nati in un'epoca in cui le cose si aggiustavano e non si buttavano" - rispondono due anziani coniugi -. Ignoro chi sia l'autore di queste frasi, ma il messaggio mi sembra rilevante e non tanto perché riferito al matrimonio, quanto per il valore di continuità e di solidità che trasmette. L'era consumistica in cui viviamo, ci impone di sottovalutare l'importanza della 'conservazione' (intesa come preservazione, non conservatorismo), nel senso della cura, dell'attenzione e della manutenzione degli oggetti. Usiamo e gettiamo, senza pensarci più di tanto, qualsiasi cosa e, per associazione condizionante, anche l'affettività, l'emotività, i rapporti interpersonali, spesso fanno la stessa fine. Così può capitare che si reputi 'naturale' buttare via un rapporto, anziché cercare di smussare gli angoli per riappacificarsi, per comprendere le ragioni dell'altro e considerare meno monolitiche le nostre. Paradossalmente, il buttare via assume un inconscio significato di potenza poiché, appunto, abbiamo noi e solo noi la possibilità di decidere cosa fare di un certo oggetto/sentimento. Ovviamente è una falsa, quanto pericolosa illusione che preclude alcune delle fondamentali peculiarità dell'essere umano: scoperta, valutazione e confronto, solo per citarne alcune. Scoprire è la prima attività del bambino: qualsiasi oggetto, qualunque parte del corpo umano, proprio e di chi gli sta vicino, sono continue fonti di novità e apprendimento. Nel tempo e con le prime esperienze, s'inizia a valutare l'appagamento conseguente alle varie scoperte, che sono confrontate tra loro, proprio per scegliere le più utili. Dunque, impariamo a buttar via ciò che realmente non ci serve, la zavorra inutilmente ingombrante, affinando la nostra capacità di selezionare cose e rapporti, in funzione della nostra indole innata, ma anche dell'educazione, della cultura e dell'epoca storica in cui viviamo. Nell'attuale tempo che stiamo vivendo, il buttar via assume, appunto, un significato del tutto nuovo e innaturale che non è prodotto dall'esperienza, bensì dall'assuefazione a consuetudini cui ci si adatta acriticamente. Inutile, credo, sottolineare che questi meccanismi non appartengono a tutti nello stesso modo. Molti di noi hanno conservato un 'sano' atteggiamento critico che consente di elaborare il reale valore di avvenimenti e rapporti affettivi. Insomma, non sempre mantenere e aggiustare, rappresentano le soluzioni ottimali. A volte è necessario staccarsi da cose e rapporti non recuperabili o che, peggio, potrebbero complicare invece di rendere più soddisfacente la nostra vita e quella degli altri. Perseverare in abitudini e routine, ha una sua ragione d'essere: impossibile fare a meno di alcuni automatismi nella vita di tutti i giorni e nelle relazioni interpersonali. Quando, però, i rapporti diventano estenuanti, quando - per esempio - la violenza fisica e/o psicologica inizia a far capolino, se già non è diventata un dramma quotidiano, quando ci accorgiamo di non buttar via un rapporto perché abbiamo la vana speranza che possa cambiare, allora quei sessantacinque anni di cui sopra, potrebbero diventare un ergastolo.


Il 21 aprile Pierangelo Colucci è deceduto. Ferdinando Sallustio mi chiese lo stesso giorno, di scrivere qualcosa per commemorare Pierangelo. Ne fui onorato, ma al tempo stesso turbato. Sì, perché pur avendolo conosciuto bene e frequentato per diversi anni, tantissimi altri avrebbero potuto scrivere di questo grande personaggio. E poi non mi andava di stilare un necrologio… Dunque ho inteso illustrare la sua breve ma intensissima vita, per farlo conoscere ai pochi che non ne hanno avuto l'opportunità, anche riportando stralci d'interventi che tantissimi hanno lasciato su facebook.
Pierangelo Colucci
(Tratto da un articolo che scrissi anni fa su www.ostuni.tv, sito nel quale è possibile vedere video e immagini di Pierangelo, nella sezione 'Artisti'. Mi piace lasciare al presente i verbi)
Pierangelo Colucci è nato a Carrù nel 1959, ma vive in Ostuni da sempre. E' laureato in giurisprudenza, ma il richiamo delle percussioni ha prevalso sulla carriera di avvocato (meglio ancora, di notaio). Ha studiato con insegnanti brasiliani, cubani, arabi ed egiziani, diventando uno dei più grandi percussionisti a livello mondiale. Nel 1983 è il protagonista di un filmato su Ostuni: 'Una città da svegliare'. Nel 1985 entra a far parte del gruppo di Eugenio Bennato. Nel 1988 ancora un altro filmato 'Pugliartealtro', rivisitazione della Puglia, come novello "tamburellista" magico. In seguito ha suonato con Beppe Barra. Pierangelo è diventato con pieno merito, un punto di riferimento artistico per la musica etnica suonando, tra gli altri, con i Dervisci a Bagdad, ma anche con Glen Velez e Nabil Kaiat, considerati fra i migliori percussionisti a livello mondiale. Pierangelo ha inoltre suonato con Dionisi Savapoulos e ha partecipato a molti eventi internazionali: festival dei Caraibi a Santiago de Cuba, festival dei percussionisti di Atene, festival del Nia di Babilonia, festival di Hatra in Iraq, al festival di poesia di Amman, solo per citarne alcuni. Ha fondato, inoltre, alcuni gruppi musicali di notevole spessore artistico quali 'La Compagnia Mediterranea' e 'Aracne mediterranea'. Insomma, una vita dedicata alla ricerca delle migliori sonorità della musica etnica dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo e non solo. Il folk, spesso, è solo un'esternazione di abiti colorati e musica trita e ritrita da propinare ai turisti, senza alcun impegno culturale volto a recuperare le vere radici della musica popolare del luogo. Pierangelo è riuscito a dare un nuovo impulso alla musica etnica e folk, studiando a fondo gli strumenti tipici e confrontandosi con culture e tradizioni di altri Paesi, proprio perché la Musica Popolare non appartiene a nessuno in particolare, ma è il frutto della volontà dell'Uomo di socializzare al di là dell'appartenenza a una determinata zona geografica. In Puglia è ben nota la puntura della tarantola che, secondo la leggenda popolare, causava uno stato di isteria ipnotica curata solo attraverso il suono della tammorra (una sorta di grande tamburello). Di solito erano le donne a essere morse dalla tarantola. Erano portate in luoghi in cui si 'esorcizzava' il veleno, proprio attraverso la musica e le danze rituali, ossessive delle percussioni. Purtroppo da alcuni anni Pierangelo non può più dedicarsi alla passione della sua vita: la metafora della puntura della tarantola, sembra essersi materializzata quasi egli avesse assorbito in sé, i mali prodotti dal morso di questo ragno e che lui ha tenacemente cercato di lenire negli altri, con la sua arte. Grazie Pierangelo. Franco Sponziello
Commenta così Luciano Peccarisi, neurologo:
Vedete, avrebbe detto James Hillmann, questo è il dàimon, il seme che nasce ed ha il proprio destino, dall'inizio scritto in se stesso. Già presente, immutabile e che la nascita dell'individuo e la sua discesa in campo, non fa che rendere vivo. E così è stato per Pierangelo nato con il senso del movimento dentro, le mani e le braccia che sparivano, diventavano invisibili quasi, e la destrezza si mescolava all'arte. Pareva non dovessero fermarsi mai, quelle braccia, quelle mani, quelle mille dita. Dai movimenti delle percussioni sopravveniva musica celeste, che svegliava il sorriso, dell'incredibile. Ed è stata la più classica malattia neurologica del movimento, dove ogni scatto se ne va per conto suo, che l'ha fermato per sempre. Ma ha avuto un'esistenza autentica. Aveva raggiunto dal nulla e da solo altissimi livelli, ci ha insegnato che coltivare la parte migliore di noi stessi o attuare ogni giorno, con coerenza e coraggio, la nostra vocazione dipende, quindi, solo da noi.
Alcuni degli altri innumerevoli commenti:
"La tammorra lo ha reso famoso è un vanto per Ostuni avere un ragazzo bravo non solo con gli strumenti musicali. Mai sopra le righe e di un'umanità inconsueta, discreta. Bella persona. Spero suoni ancora su di noi comuni mortali."
"Infinitamente grazie per le meravigliose e memorabili esperienze artistiche vissute insieme in giro per il mondo......grazie per i tuoi virtuosismi, la tua maestria e il tuo talento......continua da lassù a donarci ritmo e musica come solo tu sapevi fare.....ciao Pierangelo....."
"Di questo è capace la gente di Puglia, trasformare un funerale in un inno alla gioia: accompagnare in cielo l'anima dell'uomo che ha rivitalizzato l'arte del tamburello, con lo stesso ritmo facile che lui ha saputo insegnare a tutti noi. Ciao Pierangelo. Grazie!"
"Infinitamente grazie per le meravigliose e memorabili esperienze artistiche vissute insieme in giro per il mondo......grazie per i tuoi virtuosismi, la tua maestria e il tuo talento......continua da lassù a donarci ritmo e musica come solo tu sapevi fare.....ciao Pierangelo....."
"E' morta un'Epoca!"
"Questo è stato Pierangelo Colucci, l'inizio di tutto. Guardatelo e fatelo girare perché non si dimentichi il Maestro."
"Che tu sia per sempre tra le braccia della tua musica!"


Solo me ne vo per la città…
Chi non si è mai sentito solo almeno una volta nella vita? Prevalgono sensazioni di abbandono ed esclusione che provocano notevole disagio. Esistono diversi tipi di solitudine. Premesso che l'argomento è troppo vasto per essere trattato qui come meriterebbe, esemplificando distinguiamo la solitudine imposta da quella 'voluta'. Nel primo caso, quello del disagio di cui sopra, rientrano la reclusione, la malattia, il lutto, l'età, i pregiudizi anche razziali e i tanti vari eventi che possono imporre uno stato di separazione forzato dagli altri. La solitudine che, invece, a volte ricerchiamo, si differenzia sostanzialmente proprio in quanto atto volontario. Ma perché abbiamo paura della solitudine e come mai, al contrario, ci può capitare di ricercarla? Probabilmente perchè è vissuta come esclusione e intimorisce proprio per le conseguenze che l'abbandono implica. La sensazione di abbandono, meglio ancora di distacco, deriva da esperienze comuni a tutti. Inizia con il momento in cui veniamo al mondo: essere 'strappati' dal grembo materno, così protettivo e sicuro, per essere 'scaraventati' in un ambiente in cui dobbiamo, per esempio, abituarci all'istante a respirare, è sicuramente un trauma. Poi, altri abbandoni incomprensibili per un bambino così piccolo: lo svezzamento, l'allontanamento dal contatto quotidiano con la mamma, la nascita di un fratellino, il primo giorno d'asilo, e così via, rappresentano i primi approcci con la solitudine. E guai non ci fossero queste fasi! Sì, perché non diverremmo autonomi senza il distacco dall'iperprotettività materna, per esempio, sicuramente salutare, così come naturale è il parto e tutti gli altri stadi dello sviluppo. Il passaggio da una fase all'altra deve essere, però, il più graduale e tranquillo possibile, per aiutare il bambino ad abituarsi ai vari cambiamenti. Si paventa la solitudine anche quando queste fasi sono state particolarmente traumatiche e non vogliamo, inconsciamente, rivivere le medesime situazioni. Difatti, essere soli, induce al contatto diretto con sé stessi, con la propria interiorità che, si teme, possa far rivivere stati angosciosi.
La solitudine è anche una risorsa
Nasciamo e moriamo soli, ma siamo anche animali sociali. Ne deriva che, insieme alla vita di relazione, è auspicabile avere momenti di riflessione con sé stessi e chi ne è spaventato o non ha mai valutato quest'eventualità o, ancora, non la reputa necessaria, potrebbe prendere in considerazione l'ipotesi di avvicinarvisi gradualmente. Schopenhauer sosteneva "chi non ama la solitudine non ama neppure la libertà, perché si è liberi unicamente quando si è soli". Certo, è abbastanza facile scegliere momenti di confronto da soli, con sé stessi quando, come si diceva, il nostro sviluppo psicologico, l'ambiente familiare, il contesto sociale e culturale sono (o sono stati) armonici. Ritagliarsi spazi di volontario distacco, serve a confrontare le nuove esperienze con il nostro vissuto, adattandoci meglio alla realtà: un'elaborazione di ciò che sta accadendo; una sorta di autoanalisi scremata dagli atteggiamenti di circostanza che utilizziamo solitamente e che ha un effetto rigenerante. I risultati benefici dell'introspezione, si manifestano, poi, anche nella vita di relazione poiché ci allena a condividere le emozioni e le esperienze. Ecco come andrebbe intesa la frase di Arthur Schopenhauer su riportata: la consapevolezza di sé, genera rispetto della propria e dell'altrui libertà. Insomma, la solitudine può essere una tremenda condanna o una meravigliosa conquista.


Che borsa!
Esiste una categoria di pazienti di cui sento sempre parlare, ma che non ho mai visto. Dai sintomi si direbbe siano messi davvero maluccio. Infatti, possono essere giù, su, esaltati, nervosi, instabili, esultanti, preoccupati, spaventati, negativi, positivi, forti, deboli, irrazionali, scoraggiati, euforici e così via. Sono sintomi comuni a tantissime psicopatologie, anche di una certa gravità, ma che si trovano tutte insieme solo nei… Mercati azionari. Ebbene sì, pare proprio che siamo condizionati da psicopatici che non abbiamo mai visto e che non vedremo mai, ma che incombono su di noi decidendo le sorti di interi popoli. Che c'entra questo con la psicologia? Beh, alzi la mano chi non si è mai minimamente preoccupato, almeno una volta, ascoltando le quotidiane notizie riguardanti l'andamento della Borsa. E non è la preoccupazione in sé il problema, quanto il manto di 'mistero' che circonda quest'arcano mondo parallelo, così lontano dalle esigenze quotidiane di noi comuni mortali. La preoccupazione non è mai patologica a condizione che abbia cause reali e, possibilmente, modificabili. Per fare un esempio banale, se sono impensierito dall'attraversare una strada particolarmente trafficata, è proprio perché vedo le auto sfrecciare, dunque ho la consapevolezza del rischio. Attenderò il momento giusto per passare dall'altra parte, superando (modificando), l'iniziale preoccupazione. Altra cosa sarebbe aver paura di una strada di cui ci è stata riferita la pericolosità, ma che non abbiamo mai visto. Probabilmente non ci rovinerà il sonno, ma rimarrà il senso di disagio se continueremo a sentirne parlare, magari anche degli incidenti occorsi ai pedoni.
La globalizzazione del timore
Che si sia d'accordo o no, viviamo nell'era della globalizzazione, nata di pari passo con lo sviluppo dei trasporti di persone e merci. Insieme con queste ultime, si sono inevitabilmente diffusi anche agenti patogeni: nuove specie - per noi - di insetti, di virus, ma anche nuove paure come, per esempio, del terrorismo e, in generale, di eventi di cui siamo, perlopiù, spettatori passivi. Già Freud aveva previsto che a causa della tecnologia l'essere umano si stava trasformando in una specie di dio profetico. Ai giorni nostri la metamorfosi sembra essersi ulteriormente… involuta: l'homo technologicus ha prodotto l'homo azionario (mi si lasci passare quest'orrendo neologismo), una sorta di eminenza grigia che nessuno ha mai visto, ma che è onnipresente. In quest'ambito, il rischio reale è l'assuefazione, dunque la resa incondizionata a questo nuovo tipo di ignoto, che non si può affrontare. Così, la minaccia terroristica, il contagio per nuovi morbi, le guerre lontane geograficamente, e tanto altro ancora, diventano vissuto quotidiano cui, in qualche modo, ci si abitua e si arriva a tollerarne anche l'insito stato di preoccupazione che l'accompagna. Non credo esista un rimedio efficace e unico, anche perché proprio a causa dell'assuefazione, non si riconosce più la reale consistenza del problema. Esistono, però, alcuni accorgimenti per non farsi imbrigliare completamente dalla parte più viscosa e abietta della globalizzazione. Solo per fare alcuni esempi, io sono convinto che imparare una o più lingue straniere sia veramente utile. Meno proficuo è dimostrare un asservimento totale a un certo idioma: riappropriamoci della lingua italiana e utilizziamo solo se necessario l'inglese. Riscopriamo usi, cibi e quant'altro ci sembri ormai antiquato. Ciò, non per bieco campanilismo autarchico, bensì per una salutare profilassi verso alcuni modelli di sviluppo che possono condurre a una sorta di alienazione difficile da riconoscere e da contrastare. Rivoglio la mamma che va al mercato (quello con le bancarelle)!


Voglio tornare a scuola!
Non so quanti abbiano vissuto il ritorno a scuola dalle vacanze estive, così come succedeva a me. Già verso marzo non vedevo l'ora che la scuola finisse: ero stufo di alzarmi presto tutte le mattine, di fare i compiti e di tutto il resto. Sognavo l'estate, la libertà. Le vacanze ogni anno sembravano, allo stesso tempo, uguali e diverse poiché, a quell'età (soprattutto se adolescenti), siamo noi a cambiare anche a distanza di pochi mesi e a vivere le stesse esperienze di qualche tempo prima, in modo differente. A quell'età, infatti, si cambia velocemente: si perdono le sicurezze, fino allora ritenute immutabili, dovute alla protezione della famiglia. I primi confronti diretti con gli altri impongono risposte autonome, senza la possibilità del sostegno dei genitori, pena la cinica derisione e il probabile isolamento da parte dei coetanei. Ognuno combatte con le armi giocattolo che ha, ma che spesso si rivelano inefficaci in un ambiente in cui si deve imparare presto a badare a se stessi. Dunque è facile iniziare a fingere, a indossare una maschera, sovente scimmiottata da modelli alla moda del momento. Come tutti, anch'io ero alla ricerca della mia identità, della mia nuova dimensione, della forma migliore per apparire, bombardato da una tempesta ormonale che m'impressionava e allo stesso tempo era lo stimolo per provare le mie capacità e potenzialità. Tutti gli adolescenti si mettono costantemente alla prova, spesso esagerando, quasi alla ricerca di una taratura della personalità. I miei genitori non si scostavano dalla media, ripetendomi che dovevo studiare di più, essere più ordinato, fare ogni giorno i compiti (sempre troppi!), assegnati per le vacanze, e via dicendo. A distanza di diversi decenni, sembrerebbe sensato dire che avevano ragione e che facevano bene. È sostanzialmente vero, ma…
E gli adulti?
Abbiamo una particolare propensione a rimuovere completamente le sensazioni e le emozioni vissute in gioventù, quasi a sancire l'appartenenza alla specie matura, a prendere le distanze da una dimensione surreale che fatichiamo a credere di aver vissuto. Mentre lo scarto generazionale si allarga ormai già addirittura in un decennio, è ancora frequente ascoltare frasi del tipo "se l'avessi fatto io, mio padre mi avrebbe castigato", a sottolineare i cambiamenti repentini e spesso irruenti, delle nuove generazioni, ma anche, leggendo tra le righe, ad ammettere la propria inadeguatezza ad affrontare le nuove realtà. Ritengo che, purtroppo, la mancanza di ideali e la massificazione del pensiero, rappresentino alcuni dei lati negativi che contraddistinguono gli attuali comportamenti giovanili, ma se non riusciamo a dialogare in qualche modo con i ragazzi, di certo non è unicamente colpa loro! Nessuno può tornare indietro, dunque o si vive nel continuo disagio, magari ricordando i bei tempi andati, oppure si cerca la maniera meno indolore per dialogare. In primis con l'esempio. È chiaro che, se pretendiamo, dobbiamo non cadere in contraddizione con comportamenti ambigui: "non si fuma!", magari accendendosi una sigaretta di lì a poco…
Forse ripercorrere alcune tappe della nostra preadolescenza e adolescenza, potrebbe tornare utile per meglio comprendere i propri figli e, nel caso degli insegnanti, gli alunni:
• ero remissivo/a o aggressivo/a con i coetanei, con i miei genitori, con gli insegnanti?
• I 'grandi' mi capivano e io capivo qualcosa di loro?
• Cosa volevo fare da grande?
• Quanto e da cosa ero influenzabile?
• Riuscivo a dire quel che pensavo, a esprimere i miei sentimenti? Con chi e quando ci riuscivo meglio?
• Ero tranquillo/a o c'era un certo subbuglio in me?
• Quando mi resi conto che il mio corpo stava cambiando, cosa provai?
• Come mi preparavo prima di uscire da casa, per un incontro importante?
• Cosa pensavo della scuola?
Di domande ce ne sarebbero tante. Probabilmente verranno fuori a mano a mano che ripercorreremo quegli anni. In ogni caso, sempre che non risulti troppo doloroso rivivere quel periodo per altri motivi, potrebbe essere illuminante ritrovare comportamenti molto simili a quelli dei giovani (di tutte le epoche… ). Cosa c'entra tutto questo con il rientro a scuola dopo le vacanze? Beh, a me succedeva che, verso la metà di agosto, iniziava a montare una sorta di desiderio (malsano, penserà probabilmente lo studente che sta leggendo questo articolo…), di ritornare tra i banchi, di rimettermi a studiare (alcune materie in particolare), e di rivedere i miei amici e le eventuali novità. Credo che, senza attribuire colpe ai miei genitori e alla maggior parte degli insegnanti, se fossi stato esortato a studiare quale stadio necessario, a sé stante e non come obbligo dovuto per farmi una posizione (che inevitabilmente comporta sensi di colpa e frustrazione, proprio per l'impossibilità di credere nelle proprie capacità), chissà, forse la voglia di tornare a scuola mi sarebbe venuta già a metà luglio…


L'uomo nero...
Nell'era dell'informazione globale e multimediale, l'eco delle notizie rimbalza da un mezzo di comunicazione all'altro, quasi senza soluzione di continuità. Così, uno stesso argomento si può leggere-vedere-ascoltare più volte, forse troppe… Anche se è particolarmente 'forte', perde la carica dirompente, diluendosi nella ripetitività. In alcuni casi, come sui 'Social Network", si ha anche la possibilità di interagire, esponendo la propria opinione. Credo sia una conquista, benché quest'opportunità sia spesso utilizzata come sfogo, più che approfondimento: una sorta di elaborazione collettiva del dolore, che serve a esorcizzarlo, allontanandolo da sé. Così può accadere che terribili immagini, anche quelle che più "hanno scosso l'opinione pubblica…", si susseguono con tanta frequenza e in tale quantità, da 'assuefare' la stessa opinione pubblica. Una sorta di tolleranza che ricorda quella ad alcune droghe o farmaci. Non a caso in questo momento storico che non esiterei a definire epocale, il razzismo strisciante, quello, per intenderci, di chi premette «io non sono razzista, ma…», sembra stia aumentando. Gli altri vengono a rubare il e nel nostro territorio, il nostro lavoro, in casa nostra… Inutile ribadire le statistiche che riguardano i crimini, né menzionare qualche altro che rischia la vita, spesso perdendola, in azioni che vengono definite 'eroiche'. Poi il silenzio. Non sto affermando che loro non commettono crimini… Anzi, io sono fermamente convinto che proprio questa minoranza che delinque, sia la dimostrazione della stupidità/inutilità del nostro razzismo. Secondo molti di noi, gli altri dovrebbero essere assolutamente onesti, integerrimi, disponibili, buoni, comprensivi e perché no, 'asessuati', ma anche un po' sottomessi a ringraziarci in ogni momento di averli ospitati. Se i comportamenti sono diversi dalle nostre aspettative, paradossalmente abbiamo la prova che sono umani esattamente come noi e questo ci spiazza, non possiamo accettarlo. Un po' come quando abbiamo bisogno di scorgere la 'pazzia' o la 'diversità' in qualcun altro, questa volta italianissimo, proprio per confermare la nostra integrità mentale e, ahimè, morale... Secondo il modo comune di vedere, consideriamo accettabili solo le culture che somigliano alla nostra. È una visione cumulativa insita nella psicologia umana: la propensione a creare e/o far parte di un gruppo cui ci si associa per similarità, competendo, tollerando, alleandosi o combattendo altri gruppi. Torna scontata la riluttanza nei riguardi di culture assolutamente diverse. Ma, se questo meccanismo è comune e comprensibile, NON è giustificabile l'atteggiamento di chiusura assoluta verso gli altri che non si spostano certo per visitare il Colosseo facendosi un giro in barca… L'altro diventa il potenziale usurpatore, il criminale ("se ne sentono tante…" ), il babau che ci ha ossessionato negli incubi infantili e che ora si materializza. Ci riteniamo più evoluti poiché consideriamo importanti alcuni beni comuni, soprattutto quelli materiali. Ci sentiamo i proprietari del nostro 'orto', senza considerare che è solo in 'usufrutto'. E se il confronto fosse fatto con altri parametri? Non auspichiamo sempre onestà, bontà, comprensività, solidarietà? Non rimpiangiamo spesso tempi andati in cui questi valori esistevano? Credo che abbiamo fatto nostro un modello schizoide di civiltà, che abbiamo introiettato ed esportato, confondendo progresso con spreco, evoluzione con ambizione. Anche questo ci porta a proiettare sugli altri, le nostre più recondite paure, a vedere l'uomo nero che quasi sempre, però, è solo in noi!


Lo scorso mese di ottobre è stato dedicato alla depressione e ai disturbi dell'umore. L'Organizzazione Mondiale della Sanità stima che tra soli cinque anni, la depressione sarà al secondo posto. Dopo le malattie cardiovascolari, quanto a incidenza sulla popolazione della Terra. Da qui la necessità di mantenere alta l'attenzione su questa patologia, troppo spesso sottovalutata. Anche in Ostuni si è tenuta, precisamente il 17, la Giornata Europea sulla Depressione, organizzata dalla Eda (European Depression Association), presso l'Istituto Superiore "Pantanelli - Monnet", con le relazioni di psicologi e psichiatri, tra cui il dott. Franco Colizzi, direttore del Centro di Salute Mentale di Brindisi.
"Perché, dunque, la depressione? Aveva un lavoro fisso da ben dodici anni, qualche soldo da parte, gestiva la casa dei suoi genitori e ancora uno dei tre fratelli, aveva finalmente preso la patente e perfino partecipato a qualche viaggio organizzato. Aveva quasi finito di pagare le rate per l'automobile, anche se le capitava ancora di prendere l'autobus di linea per andare dalla sua casa di Ceglie ad Ostuni. Ma era solo per una vecchia abitudine, che trovava comoda. Cosa diavolo c'era da deprimersi ed angosciarsi come una stupida? C'erano anzi positive novità. Sua sorella, anche se più piccola di quattro anni, si era sposata ed attendeva la nascita di un figlio, suo nipote. Davvero poteva avere importanza quanto le ripeteva con monotonia Teresa, che lei, la figlia maggiore, non fosse ancora fidanzata e anzi non avesse mai nemmeno intrattenuto una relazione sentimentale con un uomo? Bisognava per caso avere a tutti i costi un uomo o per forza sposarsi? Gli uomini, poi, le sembravano insensibili e rozzi. Pensavano solo a una cosa. Era anche uscita una sera con un signore parecchio più grande di lei. Non si erano detti granché, quasi fossero due stranieri che parlavano lingue diverse. E quando lui le aveva messo le mani addosso, lei aveva provato quasi ribrezzo, allontanandolo con uno scatto nervoso. Ma suvvia, c'era così tanto da fare a casa, ora che i genitori manifestavano un inizio di vecchiaia e apparivano piegati dalla vita! Poteva non accudirli, non sentirsene responsabile quasi fosse lei il loro genitore? Poteva lasciarli morire da soli? Non sia mai, Signore, pregava continuamente tra sé e sé. Era tutto a posto, tutto nell'ordine delle cose della vita. Tutto. Se soltanto non ci fosse stata quella maledetta depressione."
Proprio dal romanzo di Franco Colizzi, L'aggiustatore di destini, è tratto questo brano, emblematico dell'atteggiamento che molti hanno rispetto alla depressione in particolare e al disturbo mentale in generale. Parenti e amici cercano, per mentalità o per incolpevole sottovalutazione, di 'nascondere' il problema. Purtroppo, soprattutto in certe realtà, persiste ancora la convinzione che i beni materiali siano il toccasana per tutti i mali ("Eppure non gli manca niente!"), mentre la segnalazione tempestiva da parte di parenti e conoscenti è davvero importante. Come si diceva, nel 2020 l'Oms prevede un'escalation, dunque è bene contribuire alla sensibilizzazione su quello che ancora viene definito il male oscuro.
Lo psicologo chiede allo psichiatra…
Ho incontrato il dott. Franco Colizzi, che mi pregio di conoscere da prima che ognuno dei due decidesse cosa fare da grande, per avere un parere autorevole sul tema della depressione. Siamo seduti nella tea room di un bar a sorseggiare the, appunto, e pasticcini ("ottimo antidepressivo!", sembra pensare la signora che ci serve al tavolo). Ho con me il suo romanzo (una delle primissime copie, debitamente corredate di dedica), perché voglio partire proprio da lì.
L'aggiustatore di destini è giunto alla seconda edizione. Un ottimo traguardo in così poco tempo. Com'è nata l'idea di scrivere questo libro?
- In maniera insolita, nel senso che non avevo assolutamente pensato di scrivere un romanzo. Saggi e libri di altro genere, ne ho scritti, ma il romanzo proprio non era nelle mie previsioni. Ricordo che ero al mare con mia moglie e i miei figli. Stavamo facendo il bagno, quando casualmente il discorso cadde sui racconti, inventati e non, che sono solito fare da sempre in famiglia (senza, ovviamente, rivelare l'identità dei pazienti, se le storie riguardavano persone reali). Elena mi fa «perché non le scrivi queste storie? Magari un romanzo». «E su cosa?» le rispondo. Subito mia figlia Ivana suggerisce «quella tua paziente che era 'così'» e Marco aggiunge «beh sì, anche quell'altro caso di…». A mano a mano prendemmo gusto a quello che ognuno noi aveva preso solo come uno dei tanti giochi fatti insieme. Continuammo a sfornare idee e ipotesi, in una sorta di Scarabeo balneare.
Il protagonista è lo psichiatra Giovanni Nilo. Inutile dire che è in qualche modo autobiografico. Ma il cognome mi sembra abbia a che fare con il fiume sacro agli egizi e con implicazioni bibliche. È così?
- Sicuramente, ma anche quello è venuto per gioco, inconsciamente. Mi sono reso conto delle implicazioni cui accennavi, solo dopo averlo proposto durante il 'gioco' a mare: nessuno dei miei ha avuto da ridire ed è piaciuto subito. Anche il nome, Giovanni, abbiamo scoperto avere un motivo d'essere.
Nel libro sono trattati vari casi di disturbi, tra gli altri la depressione. Innanzitutto, è una malattia?
- Per la medicina e la psichiatria oggi prevalenti, senza dubbio. Secondo alcune voci minoritarie, è sempre una reazione patologica, ma forse non propriamente una malattia.
Quali sono i sintomi della depressione conclamata?
- Si presenta come la tristezza fisiologica, non legata ad eventi di perdita, ma è più intensa e profonda. Avvolge di sé tutto il mondo interiore ed esterno, fermando il tempo, annullando la storia dell'individuo. La persona si orienta stabilmente verso il polo della sofferenza (tristezza vitale o dolore morale).
Anche il sonno e appetito risultano compromessi.
- Sì, di frequente c'è una riduzione (insonnia iniziale, intermedia o terminale). La persona parla in genere di mancanza di sonno e descrive ciò come fondamentale nella sua sofferenza. A volte c'è ipersonnia, cioè eccessiva sonnolenza e tendenza a dormire. Anche l'appetito può essere compromesso, con diminuzione o aumento del peso corporeo.
Quali sono le alterazioni psicomotorie, ma anche del pensiero e dell'ideazione?
- La depressione può presentarsi come "agitata", quando l'angoscia, quasi sempre presente, spinge a movimenti incessanti, con lamentazioni espresse ad alta voce, con continua ricerca di contatto fisico con gli altri. Meno spesso è "inibita", fino allo stupor catatonico e al mutacismo. C'è quasi sempre incapacità di pensare con chiarezza, di concentrarsi, di prendere decisioni. Il pensiero è polarizzato su un unico argomento, non ha conclusività, è poco comprensibile, usa una logica superficiale. La persona vive profondi sentimenti di svalutazione, di colpa, di rovina e ne sviluppa idee esplicative: ha fatto del male, ha peccato, ha mancato ad obblighi e doveri, merita punizioni in terra ("mi arresteranno, andrò in carcere") o nell'aldilà ("sarò dannato"). Tutto sembra inutile, senza speranza o perdono: non si può guarire, non ci sono cure, non ci si può salvare.
Un cambiamento notevole e tragico rispetto a come si era vissuto fino allora?
- Infatti: ciò che nella condizione di benessere piaceva o interessava, perde tale connotazione. Le diverse attività (professionali, sociali, di svago, elettive…) diventano grigie, senza richiamo, faticose da svolgere (come lo stesso accudimento domestico per la casalinga).
La depressione in sé non è letale, ma, nei casi gravi, può condurre al suicidio.
- La morte, in assenza di alternative riconoscibili, è vista a volte come liberazione dalla sofferenza o come espiazione delle colpe. La sua idea può essere solo un'ipotesi che parassita la mente o ciò che si attende come ineluttabile o ciò che si progetta attivamente. A volte si progetta la morte anche per i familiari, ritenuti preda della stessa sofferenza.
La cura e i dati*.
- Per i clinici, la depressione maggiore richiede un trattamento farmacologico, cui è sempre consigliabile abbinare la psicoterapia. Le percentuali dell'incidenza della depressione in provincia di Brindisi, non si discostano significativamente da quelli regionali e nazionali.

Starei per ore a discorrere con Franco, anche perché l'argomento ha tali vastità e complessità, che non possono essere racchiuse in un breve dialogo, ma the e pasticcini sono finiti, così come lo spazio da occupare qui. Il messaggio che vorrei fosse recepito, è che il cervello non è un organo tanto diverso da tutti gli altri e, come gli altri, può subire pause, intoppi e avere problemi vari durante il corso della propria vita, per esempio la depressione. La pacca sulla spalla all'amico, al conoscente e al parente, la 'consolazione', non ha efficacia, anzi spesso nasconde quel pernicioso pregiudizio di cui sopra. Senza allarmismi, ma con determinazione, rivolgiamoci (o consigliamo di farlo), agli specialisti: la soluzione esiste.

* Tratto dal portale dell'epidemiologia per la sanità pubblica (Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute): 21 gennaio 2010 - In Italia, nel 2007, quasi una persona su dieci (9,4%) di età compresa tra 18 e 69 anni ha dichiarato di soffrire di sintomi di depressione. E, tra questi, quasi una persona su due (47,2%) non ha mai chiesto aiuto. Chi l'ha fatto si è rivolto soprattutto a personale sanitario. L'età avanzata, il sesso femminile, la bassa scolarità, l'essere disoccupati, la presenza di problemi economici e di malattie croniche sono tutti fattori di rischio associati ai sintomi di depressione. È stata anche dimostrata un'associazione tra sintomi depressivi e cattivo stato di salute percepito.


Caro Babbo Natale…
Il lavoro di mio padre, maresciallo maggiore della Guardia di Finanza, ha condotto la mia famiglia in diversi paesi della Puglia (l'ultimo fu, appunto, Ostuni cui giunsi nemmeno decenne). In media si risiedeva un anno e mezzo nelle varie città, dunque ricordo almeno quattro località, più o meno vagamente. La sensazione che, invece, rammento benissimo, è la grande tristezza che mi accompagnava a ogni trasferimento: lasciare gli amici e i luoghi che si erano pian piano iniziato a far propri. Eppure c'era un momento magico che, in qualche modo, accomunava tutte le esperienze: l'odore dei mandarini. Perché non le orecchiette, piuttosto che altri piatti o la somiglianza dei dialetti, oppure ancora il 'calore' della gente di Puglia? Semplicemente perchè a quell'età non si fanno confronti così complicati per un bambino. Sono gli stimoli sensoriali a farla da padrone. Non si ha cognizione del futuro (inteso come proporzione tra le esperienze accumulate e le proiezioni dei nostri desideri a medio - lungo termine), almeno non come lo si concepisce da adulti. Ebbene, l'odore dei mandarini mi riportava istantaneamente al clima natalizio. Era quello il futuro, la fiaba che si realizzava. Un rituale condiviso da tutti e proprio per questo, ancora più fantastico e affascinante. Il nostro benessere mentale dipende molto da come abbiamo vissuto la fiaba, dal modo in cui la nostra fantasia ha potuto proiettarci in dimensioni, anche sensoriali, altrimenti non raggiungibili. Vivere queste esperienze, aumenta la capacità di astrazione, vale a dire la possibilità di raggiungere attraverso altre vie, gli obiettivi che ci proponiamo, o di superare gli ostacoli che inevitabilmente si presenteranno. Spesso ci sentiamo impotenti davanti ai problemi; ci sembrano insolubili probabilmente anche a causa della mancanza di 'allenamento' alla fantasia. Più, da piccoli, abbiamo viaggiato in mondi diversi attraverso il gioco e le occasioni magiche come, appunto, il Natale, tanto meglio sapremo gestire il nostro futuro. Avremo, cioè, la possibilità di rifugiarci momentaneamente in una sorta di bolla, una sfera di spazio/tempo in cui ci sentiremo al sicuro e che ci aiuterà ad affrontare un po' meglio i conflitti. Naturalmente non si tratta di un assioma, di una sorta di equazione il cui risultato è la migliore delle condizioni. Meglio parlare di minore dei mali: se non avessimo sognato, probabilmente staremmo molto peggio. Mi rendo conto che ciò può apparire paradossale, soprattutto in quest'era in cui furbizia è sinonimo di intelligenza, come concretezza di cinismo, dunque proprietà qualificanti e assolutamente in contrapposizione con fantasia e gioco. Eppure, quando attraversiamo momenti difficili, accade che istintivamente cerchiamo rifugio nella nostra personale sfera, costituita da sensazioni piacevoli, da ricordi sfumati, ma in grado di lenire almeno un po' l'angoscia. Insomma, se sogniamo da piccoli, viviamo meglio da grandi a patto che anche da adulti non perdiamo del tutto la magia. Sognare significa condividere la magia con gli adulti che hanno il compito fondamentale di trasmettere l'esperienza ai bambini. Spesso, però, gli adulti dimenticano che il tramite è l'esempio e a volte sono così presi da quello che definirei fondamentalismo realistico, da non concedere ai propri figli il sacrosanto diritto al sogno, al di là dei propri credo e convinzioni . Buona Magia a tutti.
Caro Babbo Natale, siediti vicino a me.
Sbucciamo un mandarino e giochiamo a tombola con le sue scorze, come una volta.
Se vinco io, mi presti la slitta per andare a scoprire altri mondi di sogno.
Se vinci tu, regala la fantasia a chi non sa sognare più.

Altri anni:

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