Dott. Franco Sponziello
Psicologo

Articoli e pubblicazioni - Anno 2020

Altri anni:


Scoppiati!
Da casa mia si vede svettare un’antenna molto grande visibile un po’ dappertutto. È un ripetitore, suppongo, per le comunicazioni in genere e per i cellulari in particolare. Ce ne sono tante di antenne (celle) in una città, più o meno nascoste e di varie dimensioni che sottolineano, là dove ce ne fosse bisogno, quanto la ‘comunicazione’ sia ormai intesa più come trasmissione di onde che di scambio di idee, emozioni, sentimenti.
Un popolo di stressati
Nello scorso mese di dicembre il Censis, nel periodico rapporto sulla situazione del Paese, ha rilevato la frustrazione di molti italiani: Nel corso dell’anno il 74% degli italiani si è sentito molto stressato per questioni familiari, per il lavoro o senza un motivo preciso. Al 55% è capitato talvolta di parlare da solo (in auto, in casa). E secondo il 69% l’Italia è ormai un Paese in stato d’ansia.
Una situazione che si è sviluppata, ma forse meglio dire involuta, nel corso degli ultimi decenni. Al di là delle cause prettamente politiche e sociologiche, sicuramente determinanti, è evidente la tendenza a una chiusura in se stessi e verso gli altri. Una sorta di insicurezza profonda che, addirittura, fa desiderare (sempre secondo i rilevamenti del Censis), l’uomo forte al comando, quale proiezione infantile del bisogno di protezione e tutela. Paradossalmente, nell’era della connessione h 24 con il resto del mondo, sembra che a scarseggiare sia proprio la comunicazione interpersonale. Eppure, come stabilito dal grande psicologo Paul Watzlawick: “ Non si può non comunicare. Ogni comportamento comunica qualcosa e, dato che è impossibile avere un non-comportamento, la non-comunicazione è impossibile. Qualunque cosa tu faccia o dica, comunichi qualcosa di te agli altri, che tu lo voglia o meno. ”*
Ma noi come viviamo i conflitti comunicativi - non patologici - con gli altri, con gli amici, con i parenti, con il nostro partner?
Se provassimo a riportare su un foglio tre semplici frasi per descrivere il contrasto, quasi sicuramente ritroveremmo frasi tipo: “ … gli altri non si comportano bene, sono falsi, ecc.”; “… mio fratello/sorella/madre/padre mi danno addosso e non mi capiscono”; “… lui non parla più con me - oppure - non mi ascolta quando parlo (e, dall’altra parte) lei è sempre lì a rimproverarmi e io non rispondo, altrimenti litigheremmo sempre ”.
Queste asserzioni rivelano la proiezione delle responsabilità sull'altro, il quale sarebbe la causa del conflitto e, proprio per questo, l'unico/a che potrebbe risolvere il problema, se modificasse il proprio comportamento/atteggiamento. Questo è un classico esempio di autoinganno ( self-deception ), attraverso il quale diamo per scontata una presunta verità. In realtà un rapporto di comunicazione, a qualsiasi livello, presuppone un interscambio, una dinamica dei ruoli tale che ogni soggetto è allo stesso tempo causa ed effetto del problema. Ciascuna delle parti contribuisce, anche inconsapevolmente, al risultato del rapporto sia esso amicale, familiare o di coppia. Per esempio, i silenzi così come l'eccesso di eloquio, possono col tempo diventare pretesto per rinchiudersi in un gioco delle parti nel quale ognuno sente di essere nel giusto.
Bisogni ed emozioni
Le rimostranze nei riguardi dell'altro, spesso sottendono un nostro personale bisogno, una richiesta di (ri) condivisione delle emozioni interrotte nel tempo per abitudine, noia o altre vicissitudini. Le modalità di approccio all'altro subiscono una sorta di impoverimento, così che non si cerca più il dialogo, non si ricerca il confronto e, mentre un tempo si sarebbe detto “ ho bisogno che tu mi ascolt i”, ora diventa un giudizio: “ tu NON ascolti! ”. All'accusa si risponde con un altro giudizio, in un susseguirsi in crescendo di attacchi e fughe che ristagnano emozioni e comportamenti.
Contare fino a dieci...
… nel senso di concedersi più tempo: per parlare, per mettere a fuoco le condizioni che hanno portato alla situazione attuale, per sforzarsi di modificare il “ tu sei/fai così” in “ vorrei che tu... ”. È pressoché impossibile, per una coppia, tornare a essere quelli di anni fa , dunque è necessario adattarsi alle condizioni che inevitabilmente mutano. Certo non tutti i rapporti possono essere appianati solo con la buona volontà di entrambi, ma vale sempre la pena di tentare. Insomma, per questo nuovo anno impegniamoci a valorizzare le emozioni e a condividerle con l'altro/i perché, sia ben chiaro, le responsabilità non sono quasi mai univoche.
Sereno 2020!
* Pragmatica della comunicazione umana Paul Watzlawick, J. H. Beavin, D. D. Jackson.


Da ragazzino, avrò avuto dieci anni o giù di lì, mi fu regalata la mia prima bicicletta da “grande”: niente di che, ma ero al settimo cielo. Anzi al sesto, poiché ancora non avevo avuto la possibilità di imparare ad andarci per bene, tanto da sentirmi sicuro e sfidare le vie cittadine, allora ancora relativamente poco trafficate dalle auto, insieme agli altri bambini. Ebbene, accadde che, mentre stavo per svoltare cautamente, il fragoroso clacson di un camion alle mie spalle mi terrorizzò tanto da abbandonare in fretta e furia la bicicletta appoggiandola proprio allo spigolo di un palazzo. Vidi svoltare il camion rasente allo spigolo. L’avevo abbandonata troppo in fretta, ahimè: la mia bellissima bici aveva la ruota posteriore deformata irrimediabilmente a causa della sua ben più poderosa omologa. Fui colto da una profonda frustrazione e iniziai a gridare contro il camion e a corrergli dietro furioso e disposto a vendicarmi. Ovviamente non lo raggiunsi (e fu meglio per me), ma da allora e per alcuni anni, quel ricordo mi sollecitava una rabbia scomposta contro camion e affini. Ho appena cercato di esemplificare uno dei meccanismi, forse il più importante, alla base dell’aggressività.
Frustrazione
L’aggressività è innata nell’uomo che a differenza degli animali, sembra essere molto più propenso ad abusarne anche in assenza di stimoli appropriati. È una reazione spesso sproporzionata che si determina in risposta a un’azione percepita come ingiusta, con l’impulso di nuocere anche fisicamente all’altro. Uno dei primi e più importanti studi sull’aggressività, si deve allo psicologo Jhon Dollard, professore all’Università di Yale, secondo il quale “un comportamento aggressivo presuppone sempre uno stato di frustrazione e, inversamente, l’esistenza di una frustrazione conduce sempre a qualche forma di aggressività ”*. Secondo Dollard, la risposta rabbiosa varia in rapporto all’intensità dello stimolo: se si leva il classico osso a un cane affamato, la sua reazione sarà diversa che se fosse sazio (anche se sconsiglio di provare in ogni caso…). Ancora, dipende dal tipo di stimolo: se perdo un euro, la mia frustrazione sarà certamente inferiore che se avessi perso cento euro. Infine, tante piccole frustrazioni, portano a una reazione aggressiva elevata: sarebbe il classico esempio della molla che si tira troppo, finché non si spezza.
Un giorno di ordinaria follia
è il titolo di un film del 1993 del regista Joel Schumacher, interpretato da uno spettacolare Michael Douglas. Rappresenta la vorticosa discesa di un uomo qualunque verso il baratro della follia, la cui aggressività esplode in un crescendo impressionante a iniziare da un ingorgo nel quale è rimasto bloccato. Questo può essere un esempio di quanto la somma di tanti piccoli eventi frustranti, possa essere alla base di comportamenti di pura e reale aggressività. Quest’ultima non è legata solo alla natura dell’essere umano, ma si modifica secondo la cultura del momento e il gruppo/famiglia in cui si vive. Un clima particolarmente animoso influisce sulla genesi di comportamenti aggressivi, così come un ambiente relativamente sereno contribuisce al controllo della stessa.
Percezione del… danno
Tutti i maggiori studiosi di fenomeni psicosociali, sono d’accordo nell’asserire che negli ultimi anni il clima generale è diventato terreno fertile per atteggiamenti e comportamenti aggressivi. Tutti i giorni, purtroppo, sembra si vada sempre un po’ oltre e le notizie dei Media confermano questa considerazione: i femminicidi e la violenza sulle donne, le aggressioni agli operatori sanitari e agli insegnanti, l’aumento dell’omofobia e dell’odio contro le minoranze con relativi pestaggi, la proliferazione di gruppi nazifascisti, la criminalità degli ultras, ma anche una banale mancata precedenza alla guida e via dicendo. Spesso chi usa violenza sulle donne, sente frustrato il proprio presunto diritto al dominio completo sull’altra. Così, chi assale un medico, un insegnante, un “diverso”, ha la convinzione di essere nel giusto poiché la misura è colma e non mi va più di subire altre prepotenze (sic!). L’aggressività di solito nasce e cova nell’ambito ideativo. Quando, però, anche a causa dell’ambiente socio-familiare o delle continue sollecitazioni esterne da parte di leader politici che incitano al disprezzo e all’intransigenza, pian piano dalle parole si passa ai fatti. Cresce, cioè, la percezione di presunte ingiustizie a nostro danno, che non ci consente di elaborare con equilibrio le varie contingenze. Si accende una sorta di luce rossa d’allarme e diventiamo come i poveri tori nella corrida: dobbiamo attaccare a prescindere.
Cerchiamo di non accumulare tensione: rispondendo subito agli stimoli che avvertiamo frustranti, con decisione ma senza eccessiva animosità, “diluiremo” l’intensità e la quantità della rabbia. Fermiamoci a riflettere prima di re-agire, valutiamo se i problemi sono realmente gravi oppure se in qualche modo sono sproporzionatamente ingigantiti; inspiriamo ed espiriamo lentamente e profondamente oppure contiamo fino a dieci. Insomma, sempre che la nostra non sia un’aggressività patologica (per es., disturbo esplosivo intermittente) , utilizziamo tutti i modi utili a controllarla.
* Dollard, J., Miller, N. E., Doob, L. W., Mowrer, O. H., & Sears, R. R., 1939


Quando s'incontrarono a guardarsi, colei, fattasi ancor più brutta, si riscosse come persona sorpresa. - Che diamine...? - cominciava Renzo, alzando anche lui le mani verso la donna; ma questa, perduta la speranza di poterlo far cogliere all'improvviso, lasciò scappare il grido che aveva rattenuto fin allora: - l'untore! dàgli! dàgli! dàgli all'untore! - Chi? io! ah strega bugiarda! sta' zitta, - gridò Renzo; [...] Allo strillar della vecchia, accorreva gente di qua e di là; [...] Nello stesso tempo, s'aprì di nuovo la finestra, e quella medesima sgarbata di prima ci s'affacciò questa volta, e gridava anche lei: - pigliatelo, pigliatelo; che dev'essere uno di que' birboni che vanno in giro a unger le porte de' galantuomini. ”¹;
Che dire, la Storia si ripete e questo brano tratto da I promessi sposi del Manzoni in cui Renzo è additato come untore, sembra di un’attualità sorprendente poiché, con le dovute differenze in quanto a gravità, oggi abbiamo a che fare con un nuovo “flagello“: il coronavirus o covid-19 . Ha avuto origine in una regione della sterminata Cina e i dati riportano un incremento dei casi di contagio.
Per la cronaca, la peste sfiorò anche Ostuni nel 1656 senza causare i terribili danni che altrove furono devastanti. Gli ostunesi accreditarono lo scampato pericolo a sant’Oronzo, ma un sostanziale benefico apporto si ebbe anche all’utilizzo della calce che, oltre a far bianca la città, si rivelò un formidabile disinfettante naturale.
Xenofobia
Untore è l’attributo che nel Seicento fu dato a presunti spargitori della peste, di solito forestieri. Si credeva, infatti, che vi fossero persone che volontariamente spalmavano miscele letali allo scopo di diffondere il contagio. Questi fantomatici untori erano il capro espiatorio della paura popolare, dell’impossibilità di razionalizzare il male : non si conoscevano i virus, i batteri, i microbi e così via, dunque doveva esserci la volontà maligna di nuocere. Ora, proviamo a sostituire il vocabolo “untore” con “cinese”: il cinese! dàgli! dàgli! dàgli al cinese! È purtroppo ciò che sta succedendo in questo momento: un comportamento assurdo, destinato ad aumentare nei suoi aspetti di pura malvagità. Eppure, nonostante siano trascorsi quattrocento anni, la scienza abbia fatto passi da gigante e ci sentiamo un po’ tutti “moderni”, la paura immotivata dello straniero è addirittura aumentata. È la xenofobia, letteralmente paura (irragionevole) dell’estraneo. In psicologia la differenza tra paura e fobia sta proprio nelle motivazioni, per cui la prima è una risposta fisiologica a uno stimolo esterno reale (per esempio, un cane ringhia e si avvicina con fare minaccioso). La fobia, invece, è l’ansia immotivata in assenza di uno stimolo reale (“sono in continuo allarme perché forse un cane potrebbe avventarsi”). La xenofobia appartiene, dunque a questo secondo ambito e, a differenza di altre fobie, è anche legata alla mancata conoscenza, all’indisponibilità/difficoltà di sapere e di allargare i propri orizzonti mentali.
Caccia alle streghe
Il capro espiatorio è il soggetto/oggetto su cui si riversano le proprie angosce e problemi irrisolti. Secondo Freud, esiste un’ansia nevrotica non legata, appunto, a un rischio immediato e reale, bensì alla percezione di un pericolo interno. In altri termini, questo meccanismo inconscio, spinge a individuare negli altri un pericolo che in realtà è in noi stessi e che sarebbe troppo angoscioso e stressante da affrontare: “la colpa è di Tizio, non può essere mia! ” Nel soggetto xenofobo questo meccanismo di spostamento e proiezione, è costantemente presente e si riferisce a qualsivoglia situazione nella quale la soluzione meno complessa è addossare le responsabilità su altri, al di là di ogni ragionevole evidenza. Rispetto ad altre fobie, è molto frequente che gli affetti da xenofobia facciano gruppo, moltiplicando esponenzialmente il rischio di crimini “giustificati” proprio dalla condivisione con altri, del proprio delirio. In questo quadro, l’altro (il diverso, l’untore, il ne(g)ro, il cinese, l’omosessuale, l’ebreo, ma anche il vicino di casa, chi non ci dà la precedenza in auto, ecc. ecc. ecc.), diventa l’oggetto della diffidenza fino a essere considerato inferiore, disumanizzato. Infatti, la condizione necessaria per sentirsi moralmente nel giusto, è che l’altro non sia propriamente “umano”. Non come noi, dunque emarginabile se non eliminabile.
Panico e allarmismo: i migliori alleati di qualsiasi contagio
Non so come evolverà il covid-19. Al momento in cui scrivo, si registra un decremento dei contagi in Cina e i primi casi In Italia*. Ciò che, però, sta aumentando a dismisura sono il contagio xenofobo e i casi di stupido, insensato e pericoloso razzismo. Solo alcuni esempi: - Cagliari, ragazzo filippino picchiato sul bus: “Sei cinese e trasmetti il coronavirus”
- Catanzaro – “Sporco cinese” e dà un calcio ad un bimbo di 5 anni di origini filippine che voleva giocare con i figli
- Frosinone – Sassi contro studenti cinesi dell’Accademia
- Torino: Giovane fatta scendere da un bus “Sei cinese”
- Bologna, aggredito e insultato un bambino italo-cinese.
- Anche alcune testate giornalistiche (?) fanno la loro parte, come Libero: “Mangiano i serpenti e poi i cinesi crepano” (a questo proposito c’è da chiedersi quale sarebbe stato il titolo, se l’infezione fosse nata in Italia e trasmessa, per esempio, dagli agnelli piuttosto che dagli uccelli da cacciagione).
- Anche sui Social, poi, la solita schiera di veri e propri untori, questi sì, propaga odio e notizie false. Per conoscere la situazione reale e aggiornata, invito a visitare il sito del Ministero della Salute².
Se la Storia si ripete, allora facciamone tesoro: l’escalation della xenofobia porta a conseguenze drammatiche, violenze e inevitabili lutti. Per tutti. Il miglior antidoto alla xenofobia è la curiosità: il desiderio - o almeno lo sforzo - di conoscere, di informarsi e non dare per scontato il “sentito dire”. La disponibilità ad ascoltare e immedesimarsi con gli altri, è la migliore cura, almeno per la nostra salute mentale.
*Aggiornamento: probabilmente quando lo leggerete questo articolo la situazione del covid-19 sarà differente, benché il tema non sia il nuovo coronavirus, ma la xenofobia. Al momento (25 febbraio), si registra una progressione del contagio in alcune regioni del nord Italia e, di pari passo, l’escalation del panico con comportamenti assolutamente spropositati (manco fosse davvero la peste manzoniana…). Austria, Svizzera e altri Stati, stanno filtrando, quando non vietano, gli accessi dall’Italia.
1 I promessi sposi (1840) - Capitolo XXXIV
2 http://www.salute.gov.it/nuovocoronavirus


Sembra passato tanto tempo da quando, solo un mese fa, nell’articolo sulla xenofobia, facevo riferimento al montante astio nei confronti dei cinesi (gli untori del momento) a proposito degli allora ancora sporadici casi di Covid-19 in Italia. Nel frattempo la nostra vita quotidiana è stata letteralmente sconvolta nei suoi consueti ritmi. Dobbiamo doverosamente restare in casa e assumere comportamenti igienici e sociali adeguati alla situazione. Al momento in cui scrivo - fine marzo - si registra un lento ma costante rallentamento della diffusione del contagio nelle zone del Nord, che comunque rimangono pesantemente colpite dall’emergenza coronavirus.
E da noi?
Quarant’anni fa frequentavo il tirocinio presso il reparto “Diagnosi e cura” dell’allora ospedale “Di Summa”, di Brindisi. Ebbi casualmente modo di conoscere un giovane medico, il dott. Domenico Potenza, attuale primario del reparto infettivologia del Perrino. Da allora la nostra amicizia è evoluta e continuiamo a frequentarci con regolarità, o almeno così era prima di questa emergenza. Sapere che è in primissima linea, se da un lato mi inorgoglisce, dall’altro mi procura una grande sofferenza emotiva, poiché posso solo lontanamente immaginare quale possa essere la pressione e lo stress psico-fisico cui è sottoposto, insieme a tutto il personale. Nonostante l’impegno pressoché ininterrotto, il dott. Potenza, che da alcuni anni abita qui a Ostuni, ha gentilmente trovato il tempo di rispondere ad alcune domande che gli ho proposto e che qui riporto.

Dott. Domenico Potenza, primario Infettivologia Ospedale Perrino - Brindisi
Dott. Domenico Potenza, primario Infettivologia Ospedale Perrino - Brindisi

[Io] Ciao Domenico, tutto bene?
[Dott. Potenza] Ciao Franco. Sì, grazie a Dio sto bene benché sottoposto a un forte stress lavorativo e organizzativo.
[Io] Lo immagino. Anzi no: si può avere solo una pallida idea se non si è davvero in prima linea come te. Vorrei porti alcune domande sulla situazione.
[Dott. Potenza] Cercherò di rispondere alle tue domande, anche se ormai in televisione hanno già risposto eminenti scienziati e non c’è molto da aggiungere a parte gli aggiornamenti quotidiani sull'andamento dell’epidemia.
[Io] Infatti volevo proprio chiederti qual è la situazione a Brindisi e provincia.
[Dott. Potenza] È arrivata pure da noi, con pazienti che sono venuti dal Nord, pazienti oncologici che si sono infettati ed hanno trasmesso il contagio. I casi nel brindisino, come leggo dai giornali locali sono 116 e circa 25 (al 27 marzo 2020 n.d.r.) sono ricoverati in ambiente ospedaliero con gravità variabili da lieve a casi che necessitano di terapia subintensiva o proprio intensiva.
[Io] Qual è la situazione al Perrino e nel reparto che dirigi?
[Dott. Potenza] Il mio reparto è diventato prevalentemente reparto COVID, anche se devo tutelare alcune stanze per le malattie infettive abituali (che non si sono fermate in tempi di Coronavirus), come TBC, Meningiti o altro. Per il momento non siamo arrivati a soffrire di carenza della disponibilità dei DPI (dispositivi di protezione individuale), perché la nostra Farmacia ha cercato di tutelare maggiormente i reparti più esposti come il nostro, la Pneumologia e la Terapia intensiva, ma il consumo dei DPI nei tre turni lavorativi è elevato e se non partiamo con una produzione nazionale, nostra dei presidi, sicuramente andremo incontro a sofferenze per l’approvvigionamento. Non nascondo che il clima in ospedale è di “normale preoccupazione”, ma sto vedendo il massimo impegno da parte di tutti gli operatori.
[Io] Abbiamo assistito a contese tra virologi: chi voleva subito la chiusura totale e chi diceva che il coronavirus facesse danni "poco più di una normale influenza". C'è stata sottovalutazione?
[Dott. Potenza] All'inizio sicuramente sì, nessuno si aspettava che saremmo diventati il primo paese d'Europa per infezioni e decessi e stiamo superando anche la Cina. Anche rispettabili scienziati all'inizio hanno sposato tesi superficiali e spesse contraddittorie, dimostrando sottovalutazione del problema.
[Io] Benché il sistema sanitario italiano sia uno dei migliori al mondo, i continui tagli alla sanità pubblica l’hanno gradualmente indebolita, lasciandoci impreparati a eventi come questi.
[Dott. Potenza] No, a questo non eravamo pronti, e ciò ci insegna che le vere emergenze per l'uomo non sono le guerre, create da menti umane… distorte, ma le calamità naturali, come i terremoti, maremoti, tsunami, epidemie, pandemie e bisogna essere sempre pronti per affrontarli, anche con simulazioni periodiche, come fanno i giapponesi per i terremoti.
[Io] Mi rendo conto che nessuno ha la sfera di cristallo, ma… qualche previsione per il prossimo futuro?
[Dott. Potenza] Questo virus ha bisogno di corpi da attraversare per propagarsi, per cui è importante attenersi al distanziamento sociale, stare in casa, fino a quando non te lo so dire, sicuramente fino a quando la curva epidemica non mostri un netto calo delle infezioni e quindi una riduzione dei casi che necessitano di terapia intensiva, e potranno quindi liberarsi posti. Insomma, spero come tutti che passi il più presto possibile, ma non sarà più come prima. Passerà del tempo per liberarci della paura dello stare insieme, e tu come psicologo hai gli strumenti per dare un contributo. Comunque la Cina ce l'ha fatta e dovremo farcela anche noi.
[Io] Grazie di cuore a te e ai tuoi collaboratori, da parte di tutti noi.
Non me la sento di porre altre domande, perché sarebbe un po’ come se gli sottraessi tempo prezioso, magari anche solo cinque minuti da dedicare a se stesso.
No, non chiamiamoli supereroi
Medici, infermieri, tecnici di radiologia, di laboratorio, insomma tutto il personale ospedaliero. Così come i medici in genere, di famiglia e specialisti, e i farmacisti: sono sempre stati in prima linea.
Anche quando li abbiamo criticati, quando li abbiamo picchiati, quando in Tv Enrica Bonaccorti fa il testimonial di una becera campagna pubblicitaria per chiedere i danni magari solo per un cerotto più corto di un centimetro…
Hanno sempre fatto il loro dovere.
No, non chiamiamoli supereroi…
Comunicazione
Già da qualche settimana è attivo il supporto psicologico a cura dell’Associazione Psicologi di Ostuni, rivolto a tutti coloro che sentano il bisogno di un sostegno per gestire dubbi, timori, paure. Insomma, una valvola di sfogo alle varie problematiche, cui rispondono gli psicologi con un approccio specialistico.

Supporto psicologico Ostuni


"Il cambiamento imposto dal coronavirus sembra una sofferenza difficile da sopportare, anche se l’umanità ha superato di molto peggio. Succede perché ci troviamo nella condizione in cui tutta la nostra modernità, la tutela tecnologica, la globalizzazione, il mercato, insomma tutto ciò di cui andiamo vantandoci, ciò che in sintesi chiamiamo progresso, si trova improvvisamente a che fare con la semplicità dell’esistenza umana. Siamo di fronte all’inaspettato: pensavamo di controllare tutto e invece non controlliamo nulla nell’istante in cui la biologia esprime leggermente la sua rivolta. Dico leggermente, perché questo è solo uno dei primi eventi biologici che denunceranno, da qui in avanti, gli eccessi della nostra globalizzazione.
Questo è frammento tratto da un’intervista del filosofo e psicanalista Umberto Galimberti che, con una punta di malcelato pessimismo, rileva la grande difficoltà che stiamo vivendo proprio perché non più abituati a guardarci dentro, a rimanere soli con noi stessi così come il Sars-Cov-2 e la malattia da esso provocata, la Covid-19, ci obbligano a fare. Per molti la routine che di solito si vive, anzi, che si viveva fino a qualche mese fa, è contraddistinta spesso da un distacco oggettivo nei confronti degli altri esseri viventi e dell’ambiente che ci circonda: ci consideriamo moderni ed evoluti, ma sovente ci ritroviamo a considerare i più deboli con sufficienza, con distacco appunto, se non con astio. Conosciamo le condizioni degli animali negli allevamenti piuttosto che nelle foreste ormai decimate, ma continuiamo con i consumi eccessivi di carne, nella convinzione che non sia un problema nostro. Sappiamo dei cambiamenti climatici dovuti all’uomo, ma perseveriamo in comportamenti che ne facilitano il disfacimento illudendoci, ancora una volta, che i problemi non ci riguardino personalmente. Insomma, allontaniamo la possibilità di cambiare in meglio, ogni volta che rifiutiamo di assumerci le nostre responsabilità, attribuendole magari agli altri. Questo tipo di logica, a ben vedere è (era) di per sé un distanziamento sociale, un bias psicologico, nell’illusione che il semplice sfiorarsi nei luoghi di lavoro, nei supermercati, per strada, significhi socializzare, stare insieme, essere liberi.
Riflessioni
Questa maledetta pandemia può avere, però, un ruolo simbolico importante: farci riflettere sui reali valori che col tempo lentamente sono sbiaditi, dunque impegniamolo per cercare di cambiare. Probabilmente abbiamo pensato che uno scossone planetario come questo ci avrebbe fatto modificare la visione delle cose e i nostri comportamenti. Invece, non desideriamo altro che tornare alle solite abitudini. Ciò è anche comprensibile, poiché è come se fossimo precipitati nel fondo del classico pozzo e qualsiasi altro livello superiore è meglio. Ma significa anche che continueremo nell’illusione di comportarci come sempre, certi di poter sconfiggere le grandi sciagure che incombono, ammaliati dal miraggio di un fatalismo che si confonde spesso con un senso di onnipotenza e di conseguente impunibilità. C’è il rischio che il Sars-Cov-2, piuttosto che le calamità naturali cui purtroppo ci stiamo supinamente abituando, ci facciano solo rallentare così come succede quando in auto passiamo accanto a un incidente stradale: per un po’ rispettiamo rigorosamente il codice della strada, poi pian piano torniamo alle cattive abitudini. È l’effetto della paura, del dolore che però non siamo più abituati ad affrontare ed elaborare e che dunque scacciamo per tornare in un contesto sociale che ci richiede sempre spensierati, belli e alla moda. La paura deve, invece, essere estrinsecata per essere elaborata. Dovremmo, cioè, individuare e accettare le nostre difficoltà per sperare in un cambiamento fattivo e duraturo. Nel corso dei secoli l’umanità è stata più volte esposta a gravi pandemie che hanno causato decimazioni ben più distruttive della Covid-19. Penso alla peste che imperversò in Europa a partire dalla metà del 1300 e che provocò la morte di un terzo della popolazione, via via passando da sifilide, vaiolo, influenza spagnola, solo per citare alcune terribili malattie. Da sempre, insomma, abbiamo a che fare con virus e batteri, così come, per esempio, con eruzioni di vulcani e terremoti. Questa convivenza fa parte del sistema generale che governa la vita sulla Terra. Non possiamo evitare l’attacco di nuovi agenti patogeni né possiamo fermare i sismi o altri eventi naturali. Quello che possiamo fare, però, è controllare che queste insidie procurino il minor danno possibile, con le conoscenze scientifiche e con comportamenti adeguati, poiché, indubbiamente, l’inquinamento e i cambiamenti climatici, di cui siamo tutti responsabili, facilitano anche la diffusione di virus e batteri.
Andrà tutto bene ma…
Un pensiero va alle vittime incolpevoli falcidiate in questi mesi dalla Covid-19. Anche stavolta supereremo questa nuova piaga. È solo questione di tempo; ma sfruttiamo questo periodo di enorme disagio per riflettere sul nostro assetto mentale (modo di pensare) e sui nostri atteggiamenti soliti, nei confronti degli altri e dell’ambiente che ci ospita: proponiamoci di essere più disponibili all’ascolto e meno concentrati sul nostro “apparire”. Stiamo, infatti, costatando che lusso, auto con millemila cavalli, abiti strafirmati piuttosto che lo strisciante razzismo, le lamentele nei riguardi delle presunte invasioni, la paura e l’odio nei confronti di chi non è “come noi”, servono solo a distanziarci di più gli uni dagli altri e senza bisogno di decreti ministeriali. Stiamo, invece, costatando quanto bene può fare all’ambiente la nostra momentanea e forzata assenza. Quando, spero il più presto possibile, riprenderemo a uscire senza vincoli, ricordiamo l’effetto farfalla: tutto è collegato e un battito d’ali in una sperduta regione del mondo, può provocare un tornado nella parte opposta della Terra. La metafora di questa pandemia che ci priva dei contatti umani, sta proprio nell’avvertimento che forse è l’ultima possibilità che abbiamo per cambiare: noi stessi e il pianeta che ci ospita.
P.s.: al momento in cui scrivo, fine aprile, i casi accertati di Covid-19 a Ostuni, sono stati solo due da dieci giorni a questa parte. Si deve ai buoni comportamenti dei concittadini che hanno osservato scrupolosamente le norme. Probabilmente in maggio si passerà alla fase 2 che consentirà un graduale allentamento delle norme stesse ma attenzione, il Sars-Cov-2 non segue i decreti ministeriali ed è sempre in agguato almeno finché non avremo un vaccino o farmaci che lo blocchino. Continuiamo a dimostrare maturità, seguendo SEMPRE - anche quando non sembrerebbero necessarie - le basilari condotte: igiene delle mani, non toccarsi il viso, indossare mascherina e guanti, mantenere la dovuta distanza.


In questi ultimi giorni di maggio in particolare, mi sono pervenute richieste da persone che si dicono impaurite per la nuova fase di apertura nella drammatica incombenza del Sars-Cov-2: ho timore di uscire da casa; mi sento triste; quelle rare volte che esco sono impaziente di tornare a casa, e così via. Se è comprensibile che ad avere timore siano persone in là con gli anni e/o a rischio, un po’ meno lo è se a temere sono uomini e donne anche in giovane età.
Due cuori e una capanna è un modo di dire per rappresentare come l’amore tra due persone prevalga su qualsiasi altra situazione: basta una capanna, appunto, per sentirsi felici anche in assenza di denaro e comodità varie. Bel quadro idilliaco che rende impensabile allontanarsi da quel nido d’amore, poiché ciò significherebbe distaccarsi dalla persona amata e dalla sicurezza che quel rapporto offre. Ora, supponiamo che la nostra bella coppia abbia trascorso un periodo di tempo prolungato nella propria alcova e che sia proprio giunto il momento di uscire in quanto, per esempio, anche l’amore ha bisogno di proteine, carboidrati e vitamine per essere praticato. Dunque, prima o poi qualche lavoretto si dovrà pur fare, ma lui e/o lei non stanno bene fuori, sono tristi, hanno paura e non fanno altro che pensare alla sensazione di tranquillo e protettivo abbraccio della capanna.
“Sindrome della capanna”
Rapporti sentimentali a parte, se il bisogno di rimanere in casa, per esempio dopo un periodo come quello imposto dal Sars-Cov-2, diventa predominante, allora potremmo essere di fronte a una (pseudo) sindrome denominata, appunto, della capanna. Pseudo in quanto non è un vero e proprio disturbo psichico, bensì un insieme di sintomi che comunque limitano in qualche modo il benessere psicologico. La cabin fever (febbre da capanna), fu osservata per la prima volta agli inizi del secolo scorso in America tra i cercatori d’oro. Il prolungato isolamento nelle baracche, lontani dalle abitudini quotidiane, dagli affetti e dalle famiglie, creavano un disagio che alla fine produceva vari gradi di difficoltà a tornare alla vita di sempre. Stesse osservazioni sono state fatte per i membri delle missioni polari e in altri casi in cui è inevitabile un lungo isolamento.
I sintomi
Possono presentarsi insieme, oppure variare dall’irrequietezza al deficit di memoria e dell’attenzione, dall’irritabilità al senso di stanchezza con conseguente bisogno di riposo. Al mattino ci si sente stanchi, anche con presenza di malesseri fisici, pur avendo dormito abbastanza. Ci si può sentire demotivati, tristi fino ad avvertire un senso di frustrante angoscia. Inoltre, possiamo avere la necessità di particolari cibi, di solito dolci, nel tentativo di placare l’ansia più o meno manifesta. Questa sintomatologia varia da persona a persona in relazione ad alcuni fattori quali una certa predisposizione emotiva e di personalità, l’età, ma anche le condizioni economiche e l’ambiente socio-culturale in cui si vive.
Cosa fare
Le emozioni devono trovare uno sbocco, ma prima vanno elaborate. Ciò significa riflettere sulle proprie paure e sugli stati d’animo che si stanno affrontando, senza scacciarli a priori e senza evitarli poiché più cerchiamo di rimuovere quello che ci affligge, più tornerà a roderci e a farci star male. Chiediamoci se lo stato in cui siamo non abbia altre cause, al di là dell’attuale e generale situazione pandemica. L’isolamento forzato cui siamo stati sottoposti, può aver inasprito rapporti magari già intaccati con il proprio partner, con i figli e quant’altri.
Come già detto, la sindrome della capanna non è un disturbo psicologico vero e proprio e, se i sintomi sono di lieve entità, può essere d’aiuto sforzarsi di uscire percorrendo all’inizio brevi tragitti, per poi aumentare gradualmente la distanza. Se proprio l’idea di mettere il naso fuori dalla porta risultasse insopportabile, ci si potrebbe inizialmente preparare come se si dovesse uscire e magari arrivare all’uscio per poi tornare indietro e riprovare in un altro momento. L’attività fisica sollecita la produzione da parte del cervello, di ormoni - le endorfine - indispensabili anche all’equilibrio del nostro umore e del nostro benessere psicologico. Ricordo, per inciso, che il Sars-Cov-2 non si muove autonomamente, ma deve essere veicolato dalle goccioline di saliva e dal contatto troppo ravvicinato, dunque camminare all’aperto e alla giusta distanza da altre persone, non comporta rischi. Quando si rimane in casa, organizziamo il tempo in specifiche e prestabilite attività: leggere, scrivere magari un diario in cui inserire le proprie paure e riflessioni, seguiamo corsi on line, pratichiamo hobby e, se proprio si vuol guardare la Tv, scegliamo trasmissioni che non parlino sempre della pandemia, riservandosi di ascoltare al massimo due telegiornali al giorno. E mi raccomando, noi ce la faremo!


Tu quoque, Brute, fili mi! "Anche tu, o Bruto, figlio mio!" esclamò il grande imperatore romano Gaio Giulio Cesare, il 15 marzo del 44 a.C., quando fu pugnalato a morte da un manipolo di una ventina di senatori tra i quali, appunto, Bruto. Una delle più famose congiure che la storia ci ha narrato, il cui denominatore comune ad altre cospirazioni è l’attentato al sovrano. Le congiure non sempre hanno come obiettivo il dittatore di turno, come accadde per Mussolini e Hitler, bensì possono interessare anche personaggi importanti come, per esempio, Gandhi, J. F. Kennedy e Giovanni Paolo II, che fortunatamente fu solo ferito nell’attentato. Fondate o presunte che siano, le cospirazioni sono comunque sempre state terreno fertile per l’immaginario collettivo che tende a giustificare in qualche modo, eventi poco chiari e misteriosi. Negli ultimi anni in particolare, la diffusione dei mezzi d’informazione, dalle Tv alla carta stampata e ai Social, amplifica notevolmente, quando proprio non ne è la fonte, grandi e piccoli complotti, il più delle volte falsi.
I complotti esistono?
Per comodità farò distinzione tra complotto e complottismo. Quelli citati all’inizio sono solo alcuni esempi di complotti che, proprio per la loro natura e per l’architettura della trama, a volte molto intricata, sono difficili da dipanare, ma che sono sicuramente esistiti. Dalle bombe di Piazza Fontana e della Loggia a quella della stazione di Bologna, solo per citare alcune, la recente storia italiana è stata testimone di diverse e reali macchinazioni. Altra cosa è, appunto, il complottismo , una sorta di montatura ad hoc che ha l’obiettivo di logorare le istituzioni, diffamare persone, spesso avvalendosi dell’”ingenua” propensione di molti a credere nell’inverosimile a tutti i costi. Proprio in questo periodo, per esempio, stiamo assistendo alle più estrose e dannose teorie sul Sars-Cov-2. È ormai risaputo come la Rete e i Social in particolare, rappresentino il serbatoio di bufale (quando posso, cerco di evitare “fake news”) più o meno pasciute. In questo ambito trovano un ambiente favorevole e così proliferano notizie false e allarmistiche del tipo “il vaccino ucciderà tutti i pensionati dopo un anno circa” o “potenze occulte mirerebbero al dominio del mondo ”*.
Quando il complottismo è un sintomo
La facilità con la quale alcune notizie assolutamente infondate, hanno tanto successo è dovuta al livello culturale da una parte e alla mancanza di approfondimento, dall’altra: non ci si pone il dubbio, dunque non si ricercano i riscontri. Poi, perché dubitare di qualcosa che magari era già in qualche modo presente nei nostri pensieri? Ecco, sto leggendo ciò che sospettavo, dunque è vero! a prescindere… Spesso è proprio questo il meccanismo che ci porta a condividere certe assurdità, poiché è la (non) spiegazione che ci risulta più valida, quella, cioè, che qualcuno stia complottando ai nostri danni. Denunciando il sedicente sopruso, dimostriamo la nostra sagacia, rientrando nell’élite di chi ha capito… La “rivelazione” proviene di solito, da un personaggio che ammiriamo o, per esempio, da un “amico” su Facebook (similitudine/sillogismo: “se lo dice lui/lei, allora è vero! ”). Con le dovute distinzioni dei livelli di gravità, il complottismo trova il suo naturale habitat nel disturbo paranoide di personalità con manie persecutorie. La sensazione di essere osservati, ma anche la convinzione che gli altri sono ostili, nemici potenziali che vogliono il nostro male, che ci sfruttano, sempre pronti a trarci in inganno, sono alcuni dei sintomi di questo disturbo. Così, non ci si fida di nessuno o quasi, si è diffidenti nei confronti di parenti, colleghi di lavoro e conoscenti. Paradossalmente chi soffre di manie persecutorie può apparire del tutto normale, poiché i sintomi si confondono con la riservatezza e la meticolosità. Dall’esterno possono addirittura sembrare assolutamente sensate le remore a non fidarsi, a dubitare di tutto e di tutti, ma anche il carattere eccessivamente metodico e riservato; tratti propri di questo quadro patologico. Chi costruisce le teorie complottistiche sa bene che tante persone, pur non essendo necessariamente affette da disturbo paranoide di personalità, sono però ben disposte al dubbio, alla facile suggestionabilità, alla propensione a credere alle macchinazioni, specie se ai danni della “povera gente”. Questa giustificazione è anche un meccanismo di difesa contro l’evidente mancanza di fondamento del complotto: ergersi a paladino dei più deboli, significa stare comunque dalla parte giusta, dei buoni contro i cattivi, così che abbiamo l’impressione di controllare le nostre paure, attraverso la giustificazione del nobile intento.
Cerchiamo di approfondire sempre le notizie che sentiamo o leggiamo, anche quando sembrano confermare ciò che pensiamo. Spesso i titoli di certi giornali, gli scoop di cui sono pieni i Social, servono a far guadagnare chi li scrive e pubblica, quando non sono costruite appositamente per creare e fomentare un clima di diffidenza e paura utile a certi potentati o aspiranti tali. Questi sì reali! Quando sono insicuro della veridicità di una notizia, utilizzo un motore di ricerca (per esempio Google): scrivo il titolo della notizia e aggiungo la parola “bufala”. Va beh, a volte anche fake news, lo confesso…
* Molti esempi di bufale sul complottismo sono raccolti qui: https://www.bufale.net/complottismo-2/


Le so tutte!
Da ragazzino scoprii un fenomeno “magico” straordinario: se si scrive su un foglio di carta con uno stuzzicadenti, o un oggetto simile, intinto nel succo di limone, non si vede niente, ma una volta asciugato basta avvicinare una fiammella ed ecco apparire le parole scritte. E vai, a scambiarsi messaggi segreti con i compagni di classe come tanti piccoli 007 in missione segreta! Deve essere stata questa scoperta, fatta però in età adulta a suggerire a McArthur Wheeler, un quarantacinquenne di Pittsburgh (Pennsylvania), un’idea che gli parve geniale: “dunque, se mi spalmo il succo di limone sul viso, divento invisibile!”. Detto fatto, era il 1995 e il nostro “genio” era pronto per diventare ricco in pochi minuti! Dopo la seconda rapina a mano armata nello stesso giorno, fu arrestato quasi subito. riconosciuto distintamente grazie alle videocamere di sorveglianza delle due banche e ai vari testimoni. “Ma come avete fatto a scoprirmi: avevo messo il succo di limone! ” pare abbia detto Wheeler agli agenti.
Fu dai giornali che un professore di psicologia sociale alla Cornell University, David Dunning, apprese questa stramba notizia. Pensò alla stupidità del soggetto dell’articolo e si soffermò a riflettere se proprio la stupidità impedisse di essere coscienti di essere… stupidi. Dunning decise così di approfondire questo argomento e coinvolse uno dei suoi colleghi, Justin Kruger.
Effetto Dunning-Kruger
Stabilito che per ogni competenza esistono differenti livelli di abilità, Dunning e Kruger suddivisero le persone sottoposte allo studio in: molto abili ed esperte, più o meno esperte, poco esperte e infine, per niente esperte. Proposero loro prove logiche, di grammatica, di umorismo e chiesero di assegnare un voto da 1 a 100 alle proprie risposte. Ebbene, i risultati indicarono che chi si riteneva abile in un dato settore, mentre era in realtà assolutamente incompetente, dava a se stesso voti alti; al contrario, chi aveva tutti i requisiti di competenza, tendeva a sottovalutarsi. La sopravvalutazione delle proprie capacità, di solito non consapevole, è un bias, una distorsione cognitiva che induce individui incompetenti a ritenersi molto al di sopra delle proprie abilità reali. E ne sono davvero convinti! Chi, invece, è realmente capace in una qualsiasi disciplina, professione, mestiere e così via, tende a non considerarsi al top, proprio per la consapevolezza che non esiste un punto di arrivo definitivo nelle competenze.
Sindrome dell’impostore
Anche tra chi è preparato, dunque, può verificarsi una certa insicurezza come rilevato da Dunning e Kruger. La sindrome dell’impostore fu evidenziata negli anni ’70 da altre due psicologhe, Pauline R. Clance e Suzanne Imes che notarono come, soprattutto le donne che ricoprivano posti di rilievo, nutrissero una sorta di senso di colpa riguardo al posto che occupavano, quasi non si sentissero all’altezza pur possedendo i titoli giusti. Nella patria delle raccomandazioni, non è poi così strano che chi occupa immeritatamente un posto di rilievo, si senta (forse…) almeno un po’ in colpa. Eppure, la sindrome dell’impostore è più presente lì dove esiste più competizione, non dove l’acquisizione di diritti avviene spesso per intercessione tutt’altro che divina… A parte queste considerazioni, le donne sono più competitive rispetto agli uomini, i quali sono meno propensi a misurarsi con i propri simili negli ambiti in cui si sentono più vulnerabili. Al di là delle varie teorie, è più plausibile che chi più conosce (studiando, facendo pratica, applicandosi con scrupolo), sia naturalmente portato a percepire le proprie lacune. Per dirla con un adagio “non si finisce mai di imparare”.
L’illusione della superiorità
Tornando alla supervalutazione delle proprie competenze, l’illusione della superiorità è senza dubbio una dissonanza cognitiva molto diffusa. Alcuni ricorderanno Fonzie, uno dei protagonisti della fortunata serie televisiva Happy Days, in onda negli anni ’70-’80. Dotato di un forte carisma, riusciva ad aggiustare qualsiasi macchinario con un tocco della mano o del piede. In realtà, di pseudo Fonzie ce ne sono davvero parecchi. Prima dell’avvento dei Social, stazionavano nei bar ed erano quasi esclusivamente Mister che conoscevano le tattiche giuste per far vincere una tal squadra di calcio. Ora, come causticamente rilevato da Umberto Eco¹, l’effetto Dunning-Kruger è molto evidente in Rete: frotte di supercompetenti in ogni settore dello scibile umano, dispensano pareri e consigli, elargiscono indicazioni e raccomandazioni, suggeriscono rimedi e panacee, quando, purtroppo, non diventano ancora più perniciosi discreditando, bullizzando, disprezzando chi osa dissentire o avere altri pareri. Sì, perché i supersapientoni hanno essenzialmente personalità frustrate e spesso capacità (queste sì) cognitive limitate. L’impossibilità di colmare alcune lacune induce, appunto, a rivestirsi di un’aura di sapienza posticcia. Così, ecco dilagare dietologi, virologi, climatologi, ingegneri, no-Vax, meccanici, piloti, idraulici e così via, in una lunga teoria di stupida supponenza. Torniamo a informarci, ad approfondire le notizie, a essere curiosi di imparare senza dare per scontato ciò che sentiamo o leggiamo. Altrimenti rischiamo di cospargerci del succo di limone rimanendo, però, accecati dalla sua acidità.
¹ “I social permettono alle persone di restare in contatto tra loro, ma danno anche diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano al bar dopo un bicchiere di vino e ora hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel”. Umberto Eco.


La pandemia da Covid-19 continua, ahinoi, il suo nefasto corso in tutto il pianeta e per questa sua caratteristica universale, non poteva non essere al centro del Festival della Cooperazione Internazionale che da quattro anni ha sede in Ostuni. Ideatore e organizzatore del festival è lo psichiatra Franco Colizzi, da sempre impegnato nei temi che riguardano gli ultimi.
A lui ho chiesto se e come il Sars-Cov-2 modificherà lo svolgimento della manifestazione che si terrà dal 26 a 30 ottobre.
- Franco Colizzi: purtroppo quest’anno dovremo contare anche sulla tecnologia a distanza. Nella sede virtuale (ma non troppo) di Ostuni, si svolgeranno webinar, dibattiti online, dirette social con l'aiuto di specialisti, esperti, giornalisti, rappresentanti delle ONG e delle istituzioni.
- Io: presumo che questa pandemia avrà un ruolo primario nel festival. Come hai pensato di inserirla nell’ordine del giorno?
- Franco Colizzi: sì, infatti al centro di tutte le giornate, il filo conduttore sarà: Imparare dalla pandemia.
- Io: hai dunque previsto dibattiti e apporti che stimolino a trarre, per così dire, “vantaggio” anche da un’esperienza così devastante?
- Franco Colizzi: esatto! Le domande sono tante: i popoli del mondo e l'umanità che lo abita faranno tesoro delle lezioni della pandemia? Cosa sta cambiando nel rapporto tra i popoli e nel ruolo delle istituzioni internazionali? Come cambierà la cooperazione internazionale, questo avamposto di un mondo solidale? Le forze orientate dal denaro e dal dominio dell'uomo sull'uomo di certo non vorranno cambiamenti, a meno che non vi siano costrette.
- Io: e da noi, pensi sia cambiato qualcosa?
- Franco Colizzi: in Italia forse abbiamo imparato quanto il Servizio Sanitario nazionale sia un bene comune da tutelare e rafforzare, ma a livello internazionale stiamo assistendo ad attacchi molto gravi all'Organizzazione Mondiale della Sanità. L'OMS ha molte responsabilità, ma pochi soldi e pochi poteri reali. Eppure un'organizzazione internazionale pubblica che si occupi della salute globale è indispensabile per affrontare pandemie come quella attuale.
- Io: anche se ormai si abusa del vocabolo “resilienza”, non mi sovvengono altri termini per indicare il tema, “Imparare dalla pandemia” ovvero trarre da questa incombenza, nuovi modi di essere e vivere se stessi e gli altri.
- Franco Colizzi: infatti la nostra risposta di fondo è quella di Follereau: C'è un solo cielo per tutto il mondo. L’incredibile condizione in cui il virus SARS-COV-2 ha gettato tutti i popoli e gli Stati può essere non solo fonte di lutti e dolori, ma anche di un apprendimento globale che spinga verso un mondo meno ingiusto. Per quanto gli Stati, le organizzazioni, le comunità e gli individui possano volersi isolare in un dannoso e povero egoismo, siamo una comunità di destino. E tutti insieme, se crescerà la consapevolezza del nostro tempo, pur tra errori e cadute, possiamo rendere permanente sulla Terra la pandemia del bene.
Ringrazio il caro amico Franco Colizzi per la disponibilità, augurandogli il consueto successo che il Festival della Cooperazione Internazionale ha avuto nelle scorse edizioni. Credo che manifestazioni del genere portino lustro alla nostra città, assegnandole anche una dimensione culturale più ampia e internazionale, poiché non solo di turismo vive l’uomo…


Ma che colpa abbiamo noi? ¹
"Eravamo alla selezione, Janine, la mia capo squadra, era bella, aveva una decina d'anni più di me, aveva perso due dita in un macchinario della fabbrica di munizioni dove lavoravamo. L'ufficiale tedesco davanti al quale dovevamo sfilare nude per essere scelte mi fece un cenno del capo e capii che io ero salva. Ma quando passò Janine, sentii che la bloccavano e capii che non l'avrei più vista. Io non mi fermai a guardarla, non la salutai, non la nominai. Ero diventata orribile, non accettavo più distacchi. Da allora, ho raccontato sempre di questa figura perché il suo non diventare donna, madre e vecchia, come oggi sono io, era legato al mio non essere, al mio aver perso ogni dignità, ogni senso di quella persona che io speravo di diventare". Sono alcune delle tante riflessioni che Liliana Segre, questa grande donna, una delle poche sopravvissute ai campi di sterminio nazisti, ha offerto in occasione del suo ultimo intervento in pubblico a ottobre scorso. Ha scelto di ritirarsi a vita privata, Liliana, dopo aver testimoniato per decenni l’orrore dei lager, la miseria umana. ” Io non mi fermai a guardarla, non la salutai, non la nominai. Ero diventata orribile… “ la penosa constatazione della senatrice Liliana Segre, rivela quanto ci si possa disumanizzare in circostanze drammatiche in cui siamo le vittime designate. Ma i carnefici, in questo caso i nazisti, dal semplice soldato fino ai vertici del comando, si possono considerare meno colpevoli poiché “semplici” esecutori di ordini provenienti dall’alto? Se lo chiese un giovane psicologo, ricercatore presso le Università di Yale e Harvard, in occasione del processo al carnefice Adolf Eichmann (Gerusalemme, 1961) uno dei maggiori responsabili delle deportazioni e delle atrocità naziste. Eichmann dichiarò di avere solo eseguito gli ordini e a Stanley Milgram, questo il nome del ricercatore, venne l’idea di un sofisticato esperimento.
La banalità del male
è il titolo di un reportage di Hannah Arendt, filosofa e storica tedesca, inviata a Gerusalemme dal New Yorker, in occasione del processo a Eichmann. Denominazione appropriata per la ricerca di Milgram che prevedeva il reclutamento, attraverso annunci sui giornali, di una quarantina di volontari retribuiti per un finto esperimento sulla memoria. A ogni volontario ne fu affiancato uno “falso”, ossia un collaboratore di Milgram. Ogni volontario “ignaro”, sedeva in una stanza e, attraverso un vetro di quelli che permettono di guardare senza essere visti, osservava un finto collega impegnato a memorizzare alcune domande. Per ogni errore, questi veniva punito con una finta scossa elettrica che lo stesso volontario doveva infliggere. Con l’aumentare degli errori, maggiore intensità aveva la scossa sottolineata da false grida di dolore. Se il volontario tentennava, un ricercatore in camice bianco lo invitava con decisione a continuare. Arrivati a 300 volt, le grida e la disperazione delle false vittime, erano strazianti. Molti volontari ebbero crisi di nervi, mentre altri che si dimostravano dubbiosi, furono subito stimolati a continuare dallo “scienziato” in camice bianco, a somministrare le scosse. Stanley Milgram si aspettava che ben pochi volontari avrebbero accettato di giungere fino alla fine, ma tutti e quaranta arrivarono a “infliggere” 350 volt e solo cinque si rifiutarono di applicare 450 volt, il massimo. Milgram giunse ad alcune conclusioni circa gli esiti di questo esperimento che andavano ben oltre i principi morali ed etici. Innanzitutto, la percezione dell’autorità in camice bianco era considerata legittima in quanto rappresentava la Scienza. Inoltre, aderire/obbedire all’autorità è una delle componenti fondamentali dell’educazione e dei processi di socializzazione. Infine, la disobbedienza all’autorità equivale a metterla in discussione con i sensi di colpa che ne conseguono.
L’Esempio
Benché questo esperimento sia stato molto criticato, di sicuro rappresenta uno specchio dei meccanismi che sono alla base dell’obbedienza cieca al potere.. La difficoltà di opporsi al volere del gruppo di appartenenza e dei suoi leader è riscontrabile in molte categorie sociali e lavorative a iniziare dai corpi militari e alle forze dell’ordine, ma anche in qualsiasi grande azienda commerciale e nel mondo della scuola e via dicendo. Iniziamo ad “assuefarci” e accettare l’autorità, sin dall’infanzia con i nostri genitori, per poi proseguire con gli insegnanti, i datori di lavoro e via dicendo. Ovvio che mi riferisca a eventuali abusi, agli eccessi di autorità, non certo alla normale dinamica tra superiori e dipendenti o insegnanti e discenti. Nel fenomeno del bullismo, per esempio, il bullo prende il posto di un dittatorello. Così, anche da adulti, è facile rifarsi su chi è considerato più debole e vulnerabile che può essere un dipendente, un familiare, un elemento del gruppo, un anziano, un portatore di handicap, un nero, un immigrato, un diverso e così via.
È l’Esempio che, in definitiva, determina a cascata i comportamenti di ognuno di noi. Di fatto, fin qui ho utilizzato il termine autorità (autorevolezza), ma credo che il vocabolo più appropriato sia autoritarismo (imposizione). La differenza sta proprio nell’esempio che la persona autorevole dà, tanto da diventare un modello per gli altri perché motiva le proprie azioni ed è coerente, dunque credibile. Al contrario, l’autoritario prescinde da qualsiasi interazione con gli altri e si fa scudo della propria posizione per imporre le decisioni. Spesso, purtroppo, si confondono questi due livelli tanto diversi tra loro ed è facile farsi abbagliare da impostori che spacciano idee e comportamenti autoritari e malsani, come normali e giusti ideali. Siamo moralmente responsabili, anche se eseguiamo le disposizioni impartite dai nostri superiori, ecco perché dobbiamo porre attenzione e chiederci sempre se chi ci indica la “luce in fondo al tunnel”, non ci stia effettivamente indirizzando verso una galleria il cui bagliore è un disastroso faro di un treno.
¹ Titolo di una nota canzone dei Rokes, 1966-1967.


Sono trascorsi circa sette mesi dalla fine della chiusura totale per Covid-19. La seconda ondata, largamente prevista, è arrivata ancora più aggressiva e pervasiva. Infatti, se in primavera molte regioni tra le quali la Puglia, erano state solo sfiorate, oggi tutta l’Italia è interessata, anche pesantemente, dalla pandemia.
Ad aprile ho pubblicato un’intervista con il primario del reparto Infettivologia dell’ospedale Perrino di Brindisi, il dott. Domenico Potenza il quale, nonostante le enormi incombenze, ha gentilmente accettato anche adesso, di fornirci ragguagli sull’attuale situazione*.
[Io] Ci risiamo, ma a differenza della prima volta la nostra regione è stata una delle prime a diventare “arancione”, con parecchi casi e difficoltà elevata di gestione dei ricoveri. Qual è la situazione nel tuo reparto e in provincia di Brindisi?
[Dott. Potenza] Sì, purtroppo ci risiamo. Stiamo alla seconda ondata, cosa prevedibile perché ogni pandemia nel passato ha avuto queste caratteristiche, cosa prevenibile, sì… in parte, perché facendo tesoro della esperienza di febbraio-marzo (quella sì, improvvisa e inattesa) avremmo dovuto prepararci meglio a questo secondo evento. Forse il colore arancione per la Puglia è stato un atto benevolo, in alcune zone abbiamo visto che il rosso era il colore opportuno. Il colore non viene attribuito solo per la incidenza delle infezioni, ma anche per la capacità di un territorio a saper gestire le infezioni che lo interessano. Avremmo dovuto prima di tutto incrementare i posti letto in terapia intensiva, ma farlo quando non vi era la necessitò di ricoverare i pazienti. Abbiamo un rapporto posti letto/popolazione di 8 posti letto x 100.000 abitanti, ma così non saremo mai pronti ad affrontare una emergenza pandemica. Questa o altre nel futuro. La Germania, invece, ha 36 posti letto x 100.000 abitanti e infatti ha affrontato meglio la pandemia. Fino alla fine di ottobre il reparto di “Malattie Infettive” del Perrino, che ha 20 posti letto, ha saputo gestire i casi di Covid che lo hanno interessato, ma con l’incremento rapido che c’è stato a novembre si sono dovuti trasformare in reparti Covid, altri reparti e altre strutture sanitarie ovviamente a discapito delle prestazioni che, nel frattempo, non potranno essere più erogate alla popolazione. Ancora oggi, alla fine di novembre, abbiamo un reparto pieno (circa 18/20 degenti) anche se in questi giorni sembra essersi allentata la pressione sul pronto soccorso.

[Io] Nella nostra chiacchierata di aprile, rilevasti come il contagio fosse arrivato a noi attraverso persone giunte dal Nord (dove studiavano, lavoravano e per altri motivi). A cosa si deve questa seconda ondata?
[Dott. Potenza] dobbiamo ricondurla solo alla sensazione che abbiamo avuto che a maggio il Covid fosse cessato, o definitivamente scomparso. Anche qualche messaggio fuorviante ha contribuito a ciò. Abbiamo ripreso la nostra vita di sempre senza rispettare le regole, soprattutto perché avevamo bisogno di allontanare e dimenticare il periodo buio e angoscioso da cui stavamo uscendo. Niente di più sbagliato!

[Io] Ho avuto modo di vedere l’esterno del padiglione di terapia intensiva presso il Perrino e intanto l’ospedale di Ostuni è stato dedicato anch’esso ai malati di Covid-19. Come hai detto prima, si sarebbe potuto fare di più per rinforzare il sistema sanitario, soprattutto nelle regioni più carenti sotto questo fondamentale aspetto.
[Dott. Potenza] Sì, si sarebbe potuto fare di più, ma quello che abbiamo vissuto è il frutto di errori che vengono da lontano. Negli anni scorsi sono stati chiusi numerosi ospedali in Puglia, le leggi di bilancio hanno condizionato e frenato il turnover del personale medico che andava in pensione, per cui gli organici si sono progressivamente depauperati. A ciò si aggiunge una programmazione prospettica dei futuri medici completamente sbagliata: scuole di specializzazione con pochissimi posti messi a bando, non perché non ci fosse bisogno di quelle figure, ma credo per risparmiare sulle borse di studio da dare agli specializzandi.
[Io] Attendiamo con ansia il vaccino. Credi potrà essere la soluzione definitiva?

[Dott. Potenza] Rappresenta una parte della soluzione, perché fino a quando non si realizzerà la vaccinazione collettiva della popolazione italiana, europea e mondiale, passeranno molti anni e, in un mondo globalizzato, il virus continuerà a circolare.
Chi pensa che subito dopo il vaccino potremo tutti togliere le mascherine, sbaglia di grosso.
Alla fine, però, alla soluzione si arriverà!


Anche questa volta non voglio trattenere oltre il dott. Potenza, il cui tempo è più che mai prezioso. Rispetto alla scorsa ondata, la percezione del rischio (tema del mio prossimo articolo) sembra essere cambiata: si sono rinforzate le tesi negazioniste e complottiste. Una miscela molto pericolosa alimentata dalle sciagurate esternazioni di certi “professoroni” che davano per certa la quasi innocuità del sars-Cov-2 già a fine maggio e che hanno contribuito, come dice il dott. Potenza, al messaggio fuorviante. E poi, comprensibilmente, ci si voleva divertire, andare in vacanza, in discoteca, non pensare più alla cappa di nuvole nere rappresentata dal possibile contagio. Dunque, “tutti - sconsideratamente - liberi” ed eccoci ora a dover fronteggiare un nemico ancora più determinato e spietato. Sia ben chiaro che non sono per la chiusura totale e a tutti i costi, ma in una situazione straordinaria come quella che stiamo vivendo, le regole devono essere rispettate e fatte rispettare scrupolosamente: mascherina a coprire naso e bocca, igienizzazione di mani e ambienti, distanziamento nei rapporti interpersonali.
Sempre più mi convinco che negazionismo e complottismo, siano da individuare come sintomi di un disagio psicologico, di una insoddisfazione interiore che si manifesta attraverso prese di posizione insensate e, spesso, malate. Ed è questo, forse, il contagio più pericoloso.
* Intervista realizzata a fine novembre 2020.

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