Dott. Franco Sponziello
Psicologo

Articoli e pubblicazioni - Anno 2022

Altri anni:


La prima bicicletta in regalo. Un’emozione coinvolgente e totalizzante, inebriante e unica: è felicità allo stato puro, breve ma intensissima che non sembra avere uguali. Ma in cosa consiste la “felicità”, è quantificabile e soprattutto, è replicabile?
È un argomento davvero molto ampio che tratterò per grandi linee, non potendo essere più esaustivo in questo breve spazio. Infatti, le teorie sulla felicità sono tante e secondo alcune delle più note, quanto più liberi di scegliere sono gli individui, tanto più probabile sarà la sensazione di pienezza e di felicità. Beh, un po’ la scoperta dell’acqua calda, si dirà. Così, come altre teorie che hanno alla base la ricerca della felicità, a prescindere dal contesto, come se questa emozione possa essere in qualche modo preconfezionata. Anche i libri che garantiscono uno stato di felicità pura e duratura, si sprecano. In realtà, quanto più ci prefiggiamo di raggiungere un livello di beatitudine simile alla felicità, più facilmente ce ne allontaniamo. Questo succede poiché quando le nostre attenzioni sono troppo concentrate su un certo obiettivo, non accettiamo compromessi e miriamo solo massimo. Ma la felicità, in quanto emozione è, appunto, di breve durata e non viene a comando né permane a nostro piacimento.
La felicità effimera
Il segreto della felicità a tutti i costi e prolungata nel tempo, è uno dei miti su cui si basano le società occidentali: se siamo/crediamo di essere perennemente felici, non avremo problemi a produrre e consumare. Non solo, ma molti degli obiettivi che sembrano apportare felicità, spesso sono macchinose illusioni di brevissima durata e di cui abbiamo sempre più bisogno per mantenere alto il livello di “benessere”, in una sorta di perpetuo “mulino bianco”, di famiglia perennemente felice. Pensiamo, per esempio, alla moda e ai rinnovi che essa pretende di stagione in stagione: possedere un capo firmato ci farà sentire bene, realizzati, felici… almeno fino a quando non vedremo qualcun altro indossare un vestito “un po’ più alla moda” del nostro. La felicità, dunque, quale situazione da esibire più che da sperimentare realmente e da maturare anche attraverso percorsi meno semplici dell’acquisto di un oggetto, ma più concreti e duraturi nel tempo. Il segreto dello star bene, consiste nel costruire giorno per giorno situazioni, stili di vita e affetti positivi, prendendo coscienza di sé, dei propri limiti e delle proprie reali potenzialità.
La ricerca della felicità a tutti i costi
conduce quasi sempre a risultati opposti con comparsa di ansia, abbassamento dell’umore e dell’autostima. Nel periodo che va dall’infanzia all’adolescenza, le esplosioni di gioia sono molto frequenti poiché coincidono con altrettante “scoperte” pressoché quotidiane. Le emozioni sono ancora spontanee. Con la maturità, le novità iniziano a ridursi, ma rimane il bisogno di quel particolare stato di estasi meravigliata: si continua a cercare, ma il traguardo si fa sempre più difficile da raggiungere e, come si diceva, la frustrazione per l’obiettivo mancato genera ansia. Altri modi - sbagliati - di pensare influiscono sulla nostra considerazione della felicità; per esempio, se non siamo felici, abbiamo qualcosa che non va o, addirittura, spesso siamo convinti di essere gli unici a non provare questa emozione: quasi una condanna del destino avverso che ci fa sentire diversi dagli altri, quando in realtà magari siamo solo più realistici. Ancora, uno dei falsi miti per essere felici, richiede di eliminare tutti i pensieri e le emozioni negative, controllando ciò che proviamo e sentiamo. Purtroppo nessuno di questi luoghi comuni è realistico. Innanzitutto le emozioni, per loro stessa natura, non possono essere spente né rimosse, pena la comparsa di sintomatologie psicopatologiche anche gravi. Le situazioni spiacevoli che ci accompagnano per tutto il corso della nostra vita, fanno parte dell’esistenza stessa essendo complementari alla felicità e ai momenti di gioia. Dovremmo, dunque, accettare questa convivenza poiché è l’unico modo per godere appieno dei momenti di felicità. Infatti, la ripetitività di episodi felici, a lungo andare stanca e rischiamo di non apprezzarne più la grandissima carica rigenerante che, invece, auguro a tutti per il 2022!


A giugno dell’anno scorso faceva già abbastanza caldo da spingere a fare un salto a mare. Così, io e mia moglie ci recammo nella spiaggia storica degli ostunesi: Camerini. Troppo affollata in luglio e agosto, contava quel giorno solo una trentina di bagnanti e tra questi individuammo il mio caro amico Teo Cavallo con la moglie Anna. Niente abbracci e baci, ahimè, ma tanta gioia per quell’incontro casuale. Eppure Teo mi sembrò a tratti assente. Mi confidò che stava pensando a un nuovo libro e la cosa finì lì. Poi, in autunno, eccolo il nuovo libro di Teo: “Matrioska”, che segue il precedente “Nostalgia di futuro” recensito qui esattamente un anno fa. Lo leggo subito e lo apprezzo già dalle prime pagine. Di origine russa, la matrioska è una composizione di bambole di legno che hanno grandezza diversa e sono inseribili l’una nell’altra. Il libro di Teo Cavallo è un fine esame introspettivo che non riguarda solo l’autore, ma un’intera generazione che si è ritrovata “incastrata” a vari livelli, proprio come la bambola russa. L’auto analisi è a volte davvero molto spinta, “disossante” e disarmante per le verità che contiene. “Stavo iniziando a comprendere che non basta farsi sordi per cancellare i suoni cattivi, come non basta farsi ciechi per cancellare le brutture del mondo e non basta isolarsi dagli altri per vivere in pace con la propria coscienza” è uno dei tanti spunti di riflessione che possono aiutare il lettore a liberarsi dai tanti strati di ‘mastice mentale’, la propria matrioska personale, accumulatisi negli anni.
Incontro con l’autore
- un’altra prova di particolare valore questo libro. A giugno quando ci incontrammo a mare, in quale sezione della matrioska eri?
ne ero completamente fuori o, forse, stavo cercandone un’altra per rifugiarmi. E chi lo sa? So solo che quando credi di essertene completamente liberato, subito dopo ti accorgi che un’altra sta per prendere il suo posto. Probabilmente, quando ci siamo incontrati, ero in questa fase di passaggio. Oggi ho una bellissima matrioska nello studio, a casa, su un ripiano della libreria. Devo dedurne, quindi, di essere riuscito definitivamente a liberarmene. Almeno spero.
- nel romanzo utilizzi sia la prima, sia la terza persona. Cosa intendi indicare con questi due punti di vista del protagonista?
la prima persona esprime il punto di vista del protagonista, Mattia, nel momento in cui rivive le sue esperienze, che poi sono delle ricerche su momenti fondamentali, svolte importanti della sua vita, ri-organizzandole o, meglio, dis-organizzandole in modo libero e fantastico. E il bello è che, in questa nuova dimensione, sfocata, onirica, priva di ogni appiglio ideologico, la vita gli si presenta straordinariamente più chiara e comprensibile e, soprattutto, più aperta ad una ricerca senza pregiudizi. D’altra parte, l’uso della terza persona è, per me, essenziale per mantenere quel distacco dalla storia raccontata che è necessario per poterla ricostruire da diversi punti di vista, non ultimo quello della fantasia, e approdare a significati più profondi.
- c’è una metamorfosi del protagonista. Cosa c’è di autobiografico?
tutto e niente. Anzi, un po’: la malattia, la professione, le scelte politiche, le canzoni, certamente. Ma Mattia, il protagonista del libro, non coincide con l’autore, cioè con me. Anche se, nelle vicende narrate chi mi conosce troverà fatti ed episodi della mia vita, questi sono solo dei prestiti che ho utilizzato per delineare un personaggio che vive le crisi di un uomo nato a Ostuni intorno alla metà del secolo scorso. Mattia è passato attraverso Giovanni XXIII e il Concilio, Berlinguer e il compromesso storico, Marx e Hans Kung, le feste dell’Unità e la Messa dei giovani, Nino Sgura e don Angelo Colucci. Ha creduto di poter costruire ponti e si è trovato di fronte muri, ha cercato il dialogo e ha trovato la rissa. E anche io, come Mattia. Ma non solo io. Forse un’intera generazione, che ha vissuto con difficoltà e contraddizioni il rapporto con la religione e le fedi in genere, con la politica e le istituzioni di ogni tipo, ma sempre con l’idea fissa, quasi l’ossessione, di una ricerca di giustizia e verità forse destinata a non compiersi mai, con gli altri e con sé stessi.
- qual è il metodo per uscire dalla propria matrioska?
quello che Mattia apprende al termine del suo percorso di liberazione è che non ci sono solo delle gabbie che ci imprigionano dall’esterno, come possono essere le malattie e le pandemie, ma che noi stessi possiamo essere, oltre che prigionieri, anche carcerieri di qualcosa, idee, convinzioni, che limitano la nostra capacità di agire da esseri umani, costringendoci a vivere rapporti sbagliati col prossimo o a scegliere di non averne, per evitare confronti, visti come occasioni di contagio, a chiuderci in noi stessi. Per liberarsene è necessario invece andare nella direzione opposta, aprendosi alla relazione con gli altri, al dialogo, al confronto reale, aperto e libero. A partire da quello con sé stessi. Perché non provarci?
A giugno dell’anno scorso faceva già abbastanza caldo da spingere a fare un salto a mare. Così, io e mia moglie ci recammo nella spiaggia storica degli ostunesi: Camerini. Troppo affollata in luglio e agosto, contava quel giorno solo una trentina di bagnanti e tra questi individuammo il mio caro amico Teo Cavallo con la moglie Anna. Niente abbracci e baci, ahimè, ma tanta gioia per quell’incontro casuale. Eppure Teo mi sembrò a tratti assente. Mi confidò che stava pensando a un nuovo libro e la cosa finì lì. Poi, in autunno, eccolo il nuovo libro di Teo: “Matrioska”, che segue il precedente “Nostalgia di futuro” recensito qui esattamente un anno fa. Lo leggo subito e lo apprezzo già dalle prime pagine. Di origine russa, la matrioska è una composizione di bambole di legno che hanno grandezza diversa e sono inseribili l’una nell’altra. Il libro di Teo Cavallo è un fine esame introspettivo che non riguarda solo l’autore, ma un’intera generazione che si è ritrovata “incastrata” a vari livelli, proprio come la bambola russa. L’auto analisi è a volte davvero molto spinta, “disossante” e disarmante per le verità che contiene. “Stavo iniziando a comprendere che non basta farsi sordi per cancellare i suoni cattivi, come non basta farsi ciechi per cancellare le brutture del mondo e non basta isolarsi dagli altri per vivere in pace con la propria coscienza” è uno dei tanti spunti di riflessione che possono aiutare il lettore a liberarsi dai tanti strati di ‘mastice mentale’, la propria matrioska personale, accumulatisi negli anni.
Incontro con l’autore
- un’altra prova di particolare valore questo libro. A giugno quando ci incontrammo a mare, in quale sezione della matrioska eri?
ne ero completamente fuori o, forse, stavo cercandone un’altra per rifugiarmi. E chi lo sa? So solo che quando credi di essertene completamente liberato, subito dopo ti accorgi che un’altra sta per prendere il suo posto. Probabilmente, quando ci siamo incontrati, ero in questa fase di passaggio. Oggi ho una bellissima matrioska nello studio, a casa, su un ripiano della libreria. Devo dedurne, quindi, di essere riuscito definitivamente a liberarmene. Almeno spero.
- nel romanzo utilizzi sia la prima, sia la terza persona. Cosa intendi indicare con questi due punti di vista del protagonista?
la prima persona esprime il punto di vista del protagonista, Mattia, nel momento in cui rivive le sue esperienze, che poi sono delle ricerche su momenti fondamentali, svolte importanti della sua vita, ri-organizzandole o, meglio, dis-organizzandole in modo libero e fantastico. E il bello è che, in questa nuova dimensione, sfocata, onirica, priva di ogni appiglio ideologico, la vita gli si presenta straordinariamente più chiara e comprensibile e, soprattutto, più aperta ad una ricerca senza pregiudizi. D’altra parte, l’uso della terza persona è, per me, essenziale per mantenere quel distacco dalla storia raccontata che è necessario per poterla ricostruire da diversi punti di vista, non ultimo quello della fantasia, e approdare a significati più profondi.
- c’è una metamorfosi del protagonista. Cosa c’è di autobiografico?
tutto e niente. Anzi, un po’: la malattia, la professione, le scelte politiche, le canzoni, certamente. Ma Mattia, il protagonista del libro, non coincide con l’autore, cioè con me. Anche se, nelle vicende narrate chi mi conosce troverà fatti ed episodi della mia vita, questi sono solo dei prestiti che ho utilizzato per delineare un personaggio che vive le crisi di un uomo nato a Ostuni intorno alla metà del secolo scorso. Mattia è passato attraverso Giovanni XXIII e il Concilio, Berlinguer e il compromesso storico, Marx e Hans Kung, le feste dell’Unità e la Messa dei giovani, Nino Sgura e don Angelo Colucci. Ha creduto di poter costruire ponti e si è trovato di fronte muri, ha cercato il dialogo e ha trovato la rissa. E anche io, come Mattia. Ma non solo io. Forse un’intera generazione, che ha vissuto con difficoltà e contraddizioni il rapporto con la religione e le fedi in genere, con la politica e le istituzioni di ogni tipo, ma sempre con l’idea fissa, quasi l’ossessione, di una ricerca di giustizia e verità forse destinata a non compiersi mai, con gli altri e con sé stessi.
- qual è il metodo per uscire dalla propria matrioska?
quello che Mattia apprende al termine del suo percorso di liberazione è che non ci sono solo delle gabbie che ci imprigionano dall’esterno, come possono essere le malattie e le pandemie, ma che noi stessi possiamo essere, oltre che prigionieri, anche carcerieri di qualcosa, idee, convinzioni, che limitano la nostra capacità di agire da esseri umani, costringendoci a vivere rapporti sbagliati col prossimo o a scegliere di non averne, per evitare confronti, visti come occasioni di contagio, a chiuderci in noi stessi. Per liberarsene è necessario invece andare nella direzione opposta, aprendosi alla relazione con gli altri, al dialogo, al confronto reale, aperto e libero. A partire da quello con sé stessi. Perché non provarci?

Ringrazio Teo con l’auspicio di poterci riabbracciare presto e non solo salutare, come facciamo ora, da una certa distanza. Apparteniamo a quella generazione che ha bisogno e crede nel contatto umano.


Mascherina ti conosco!
Sono tanti i video e le immagini che girano sui Social e nelle chat tipo Whatsapp e ironizzano sulla pandemia. Ce ne sono alcuni molto divertenti e tra questi mi è capitato di vedere un video ambientato nel (speriamo) prossimo futuro post Covid-19: nessuno indossa la mascherina e un gruppo di amici discorrono tranquillamente seduti su una panchina in una qualsiasi piazza pugliese. Un uomo passa loro davanti e si ferma, avendo riconosciuto una delle persone sedute: “ciao Cosimo!” dice. L’altro non sembra riconoscerlo e lui insiste dicendo di chiamarsi Piero. Niente. Allora prende una mascherina dalla tasca e la indossa. A questo punto Cosimo s’illumina e riconosce l’amico Piero abbracciandolo. Questa simpatica gag, ironizza su come in questi ultimi due anni si sia modificata la nostra percezione degli altri.
Ognuno di noi si fa un’idea di chi incontra per la prima volta e molti credono di capire esaustivamente com’è fatto l’altro. Sarà il modo di guardare, di sorridere, di muoversi, di vestire, di camminare e così via, ma qualcosa ci suggerisce immediatamente se quella persona ci va a genio oppure no. È un retaggio ereditato dai nostri più antichi predecessori che dovevano stabilire immediatamente se un proprio simile poteva essere pericoloso o meno, affidando anche all’olfatto questo compito. Da quel lontano passato tante cose sono cambiate, e anche l’istinto ha perso buona parte della sua efficacia non dovendoci difendere quotidianamente da belve e pericoli vari. Oggi è diventato, per così dire, meno decisivo, così, anche quando crediamo sia l’istinto a farci giudicare dalle sole apparenze, gli errori di valutazione sono invece tanti e ce ne accorgiamo solo quando abbiamo la possibilità di approfondire un’esperienza o una conoscenza. Invece, alcuni di noi si fanno un’idea il più delle volte negativa già al primo incontro con un'altra persona, adducendo motivazioni che, ripeto, hanno molte probabilità di essere sconfessate dopo una frequentazione e un minimo di approfondimento. A volte, basare il proprio giudizio sulle apparenze può rappresentare un meccanismo di difesa, una compensazione dei propri limiti, anziché una necessità di sopravvivenza. Si cercano rapporti superficiali e quando si incontra qualcuno lo si “sceglie”, selezionandolo sulla base di criteri estremamente selettivi che non mettano in discussione la nostra struttura mentale: l’altro non mi convince, dunque non devo sforzarmi di conoscerlo e di farmi conoscere meglio, non devo rischiare di rivelare il mio vissuto, come realmente sono, i miei lati negativi che tengo ben celati nella corazza costruita negli anni. In tutti i casi, quando crediamo di capire anche solo da uno sguardo com’è fatta quella data persona, in realtà avviamo un inconscio meccanismo di “proiezione”: riversiamo, cioè, sull’altro molte delle nostre paure. È come se vedessimo rispecchiate negli altri quelle ”imperfezioni”, quei lati negativi che normalmente non ammetteremmo di avere, ma che in fondo sappiamo appartenerci. Quando giudichiamo solo in base alle apparenze, stiamo negando anche a noi stessi la possibilità di crescere e di migliorarci, poiché è lo scambio di esperienze a contraddistinguere una sana relazione da una sorta di lotta segreta a chi è più “degno”. La pandemia, con l’imposizione dei conseguenti isolamenti, ha sicuramente influito negativamente anche sui rapporti interpersonali. Nel momento in cui scrivo, si ipotizza un ritorno alla normalità a breve-medio tempo e, se così sarà, il consiglio è di approfittarne per rivedere il nostro modo di approccio agli altri, quando li incontriamo per la prima volta. Attendiamo, prima di crearci un’opinione e, comunque, non diamo per scontato il nostro primo giudizio, sia esso positivo o negativo. Ancora più auspicabile sarebbe non esprimere proprio giudizi, ma vivere semplicemente il momento, dando e ricevendo come dovrebbe sempre accadere tra esseri umani. Un atteggiamento più ponderato, aperto alle varie possibilità, non aiuta soltanto i rapporti con gli altri ma è terapeutico nei nostri stessi confronti poiché può contribuire ad allentare alcune tensioni interiori e a farci stare un po’ meglio.


Mi stai proprio empatico!
Leonard Zelig e il protagonista di un bellissimo film del 1983, di e con Woody Allen. La particolarità di Leonard sta nell’immedesimazione con qualsiasi altra persona, tanto da assumerne completamente l’identità. Un caso di camaleontismo: il protagonista crede davvero di essere la persona in cui si identifica e ne mima alla perfezione ogni caratteristica, sia essa avvocato, nero, medico, indiano, gangster e così via. Una personalità non formata che ha bisogno di entrare in un altro “guscio”, un paguro che trova protezione nella conchiglia altrui per sentirsi a proprio agio. Empatia? Non direi, proprio perché si tratta di una personalità elementare, incompleta.
L’empatia
in effetti è altra cosa. È la possibilità/capacità di condividere le emozioni, di vivere gli stati d’animo, di identificarsi nelle situazioni e nei sentimenti degli altri. Questa identificazione non significa essere alla lettera l’altra persona, sostituirsi a essa come Woody Allen fa succedere al suo personaggio. Anzi. Un neuroscienziato italiano, il prof. Giacomo Rizzolatti, insieme alla sua équipe di Parma, ha scoperto quali sono i meccanismi cerebrali dell’empatia: i neuroni specchio. Si attivano quando vediamo o pensiamo compiere un’azione da altri individui. Per esempio, quando assistiamo a una partita di calcio, dal vivo o in tv, viene istintivo muovere una gamba mentre un attaccante cerca di tirare in porta. Noi diamo per scontato che “copiare” un’azione sia normale. E lo è, ma sapere che esistono dei neuroni che si attivano proprio per questo scopo, fa comprendere come questa eccezionale prerogativa sia alla base dell’evoluzione umana e animale. Infatti, è grazie a questi neuroni che riusciamo a imparare, pur non facendo direttamente una certa esperienza. Se non sapessimo che avvicinarsi troppo al fuoco potrebbe procurare ustioni, ci basterebbe vedere qualcun altro ritrarsi dalla fiamma e rimanere a distanza di sicurezza. Ciò vale anche per gli animali che così acquisiscono informazioni preziose, senza bisogno dell’esperienza diretta che richiederebbe troppo tempo (per esempio, il gattino apprende dalla madre come fare i suoi bisogni nella lettiera solo guardandola). Questa capacità di apprendimento “a distanza” è alla base anche dell’empatia. Se vediamo qualcuno piangere o star male, ci rattristiamo, ricalchiamo, cioè, le sensazioni vissute dall’altro. Naturalmente l’empatia non è presente solo nelle situazioni drammatiche. Condividiamo il sorriso con altri e ci rilassiamo positivamente quando le situazioni sono tranquille e interessanti: in fondo sono queste le occasioni che prediligiamo e ricerchiamo, così come viviamo bene le persone con le quali ci sentiamo “istintivamente” a nostro agio. Vivere empaticamente le emozioni altrui a volte richiede equilibrio, utile quando vogliamo aiutare in concreto chi soffre. Bisogna saper ascoltare, esserci e allo stesso tempo “distaccarsi” per valutare senza pregiudizi, e affrontare al meglio la situazione che l’atro propone. Se l’empatia è un meccanismo che ci rende più “umani”, l’eccessivo coinvolgimento emotivo, però, può rappresentare un problema.
Iper-empatia
L’empatia a volte può sconfinare in un eccesso di sensibilità che non consente più di vivere bene la propria quotidianità. L’iper-empatia impedisce il necessario distacco a cui accennavo, e fa subire penosamente le varie occasioni che si presentano anche attraverso mass media e social. Ogni notizia è come amplificata e comporta un profondo sconforto che non si placa in tempi brevi, ma si alimenta sommandosi alle altre notizie negative che ci giungono quotidianamente. È facile confondere l’iper-empatia con una sensibilità straordinaria, con la capacità di immedesimarsi a tutto tondo con l’altro così come avveniva per Leonard Zelig. Essere ammirati per i sentimenti così profondamente e platealmente mostrati, fortifica l’immagine che l’iper-empatico ha di sé, di persona valida, indispensabile per gli altri. Iperprotettivi e instabili nell’umore, gli iper-empatici soffrono se non li si gratifica, non sopportando la minima delusione e covando rabbia e odio nei riguardi di chi non capisce la loro “immensa umanità”. Sembrano darsi totalmente agli altri, e per questo soffrono, ma con il fine più o meno inconscio di essere riconosciuti come “martiri” e dunque lodati per la propria abnegazione, che rinfacciano se non apprezzati, poiché non sopportano critiche al proprio operato. Non si tratta di “cattiveria d’animo”, ma di una vera e propria patologia che fa star male la persona che ne soffre e che richiederebbe interventi appropriati.
Cum patire
Il verbo compatire è un po’ frainteso: lo si intende quasi come “sopportare” e non nella sua reale accezione, patire insieme. Stiamo vivendo uno dei periodi più drammatici degli ultimi decenni. Tra pandemia e guerra in Ucraina che mentre scrivo ancora riporta il quotidiano, straziante bollettino di morti e distruzioni, la nostra capacità di compatire è sollecitata quotidianamente. Ai giornalieri rapporti dei decessi e dei contagi per Covid-19 (passati un po’ in secondo piano, benché in aumento), si sommano le notizie e le immagini che ci giungono da quella terra martoriata. È difficile non lasciarsi coinvolgere e molti si stanno attivando per aiutare la gente in fuga dalle bombe: è il segno tangibile del patire insieme, della condivisione. Il consiglio è comunque di non lasciarsi sommergere dall’angoscia, poiché star male è diverso dal compatire e non porta a nessun risultato concreto, se non a una deprimente sensazione di impotenza senza soluzione. Così come consigliato per la pandemia, direi che è fondamentale non eccedere con l’informazione. Dosiamo l’assunzione di notizie consultando tv, giornali e social con moderazione. La combinazione pandemia/guerra è pericolosa, e se in questi ultimi due anni abbiamo assistito all’aumento progressivo del disagio psicologico, ora i problemi potrebbero diventare ancora più complessi. Contro la guerra esiste un solo vaccino, la pace! Ma pare proprio che alcuni si ostinino a non volersi immunizzare...


Nessuna nuova, buona nuova
Quando da ragazzino giocavo a Monopoli, avevo sempre un certo timore di incappare nella casella “Imprevisti” perché nascondeva insidie tipo restare fermo un giro o andare dritto in “Galera”. Non si trattava di veri e propri imprevisti poiché le penitenze erano già note in anticipo; lo stesso, però, incutevano un leggero timore. Certo, senza un po’ di apprensione il gioco sarebbe stato meno interessante, così come nella vita si può apprezzare appieno la normale quotidianità se sono presenti anche un minimo di contrattempi, l’altra faccia della stessa medaglia.
L’Uomo si è evoluto anche grazie alle insidie incontrate durante le migliaia di anni del suo sviluppo. Altra cosa, ai giorni nostri, è quando la paura degli imprevisti diventa tale da rendere difficoltoso il normale svolgimento delle attività quotidiane, con forte ansia e persino attacchi di panico. Nel tentativo di evitarli, alcuni si isolano sempre di più sottraendosi alla maggior parte delle occasioni di socializzazione. Altri, nel tentativo di scansare gli imprevisti, predispongono una complessa serie di manovre, sempre nell’intento di evitare l’ansia. Si tratta di comportamenti che spesso sono anche ritualistici e ossessivi e che possono portare a un’organizzazione estrema e cavillosa della propria e, a volte, altrui vita. Tutto è pensato e messo in atto per evitare qualsiasi tipo di novità e di imprevisti, appunto, che possano mettere a rischio la propria “serenità”. La giornata segue schemi ben precisi: percorrere sempre gli stessi tratti di strada, tenendo ben presenti alcuni punti di riferimento (un negozio, un monumento, una chiesa, ecc.), che tranquillizzano con la loro rassicurante presenza. Anche amici e conoscenti sono quasi sempre gli stessi e di vecchia data, poiché nuovi incontri potrebbero rivelarsi ansiogeni. Queste persone possono essere eccessivamente precise, ordinate e meticolose, riuscendo a diventare anche punti di riferimento per la loro scrupolosità. Spesso, dietro questo tipo di problemi, si nascondono un’infanzia e un’adolescenza vissute da “comparse” e mai da protagonisti: genitori troppo apprensivi, a loro volta molto ansiosi e impauriti dagli imprevisti, si sostituiscono ai propri figli nelle scelte di tutti i giorni, non consentendo loro di sbagliare e di accettare le sconfitte che fanno maturare. Entro i dovuti limiti, i bambini e i ragazzi devono sperimentare il “NO”, il rifiuto, la disputa con i propri simili, per poter crescere e formare una personalità indipendente e relativamente priva di grandi sofferenze psicologiche. Alcune persone particolarmente ansiose, trasferiscono le proprie difficoltà sui figli: inconsciamente li percepiscono deboli, così come sono stati (e sono) essi stessi. Negli ultimi anni si assiste sempre più ad aggressioni ai danni di insegnanti, da parte di genitori di alunni anche solo rimproverati o che hanno preso un cattivo voto. La sostituzione della propria identità con quella dei figli è diventata, qui, talmente inscindibile, da vivere come un oltraggio a se stessi un normalissimo rimprovero al proprio erede (purtroppo anche del disagio psicologico).
Consigli
Innanzitutto è importante prendere atto della propria situazione: è il primo passo per accettare gradualmente le novità, abituandosi a gestire l’ansia ed elaborando che l’imprevisto non è una disgrazia, ma spesso un’opportunità per crescere. In ogni caso, l’inconveniente ha solitamente un inizio e una fine: un tempo limitato, dunque gestibile. Cerchiamo, poi, di allentare il peso giornaliero delle cose da fare e di tanto in tanto mettiamo un pizzico di disordine nella nostra routine: la flessibilità è un buon segno di salute mentale. Ancora, cerchiamo di prendere l’iniziativa magari per cose di poco conto come per esempio cambiare itinerario, mettersi in contatto per primi con una tale persona, organizzare gli appuntamenti per uscire con amici e così via. Insomma, osiamo e usiamo la nostra curiosità. Parliamo con i nostri amici più intimi dei nostri problemi e se non riusciamo a risolverli, rivolgiamoci a un professionista. Non siamo automi ma persone in carne e ossa e chiedere aiuto non è un segno di debolezza, bensì una dimostrazione di forza.


Le parole sono importanti!*
Ostuni ha origini antichissime testimoniate dai tanti ritrovamenti archeologici, il più importante dei quali è senza dubbio la “donna di Ostuni”, lo scheletro di una madre con il feto scoperti dal prof. Donato Coppola paletnologo e nostro illustre concittadino. Ovviamente all’epoca della sepoltura, ventottomila anni fa, non esistevano la Città Bianca e le case così come le conosciamo, ma agglomerati di capanne costruite da quegli antichi abitanti. Gli esseri umani già da tempo si esprimevano con un lessico grossolano ma utile a comprendersi e interagire. Il linguaggio, infatti, è alla base dell’organizzazione delle comunità, il mezzo attraverso cui il pensiero si esprime, si materializza, diventa comunicazione. Certo, per arrivare a quel punto, l’evoluzione umana ha attraversato qualcosa come sei - otto milioni di anni. Se riportassimo su un metro da sarti questa evoluzione, solo pochi centimetri rappresenterebbero la civiltà così come la conosciamo. La possibilità di parlare si ebbe grazie alla comparsa, nella corteccia frontale e temporale del cervello, di due piccole aree: di Broca e di Wernicke. Da allora il pensiero si è tradotto in parole, in concetti sempre più articolati e complessi che a loro volta possono modificare il nostro modo di essere e di pensare. Il linguaggio può prevalere sui gesti, ma ancora non del tutto sulle emozioni. Simpatia, antipatia, empatia, aumento del battito cardiaco, sudorazione delle mani, rossore, sono solo alcune delle componenti emotive che entrano in gioco quando ci relazioniamo con le altre persone. Sono inizialmente prevalenti proprio perché, nel nostro metro da sarti, le emozioni e l’istinto hanno guidato gli esseri umani per un periodo di gran lunga superiore a quello trascorso dalla nascita del linguaggio a ora, dunque sono ancora predominanti. Probabilmente dovranno trascorrere ancora un bel po’ di anni prima che la razionalità si allinei o prevalga sull’emotività. Se riceviamo una bella notizia, una delle prime reazioni è di sorridere, magari aprendo la bocca e sgranando gli occhi per la sorpresa. Viceversa, se ne riceviamo una brutta, secondo la gravità, probabilmente aggrotteremo la fronte evidenziando così le rughe d’espressione, metteremo le mani sulle guance o sulla testa e sentiremo un groppo alla gola. Sono automatismi che difficilmente possono essere controllati e che dimostrano quanto i livelli emotivi siano molto più preponderanti rispetto alla razionalità. Sempre restando ai due esempi, alla notizia ricevuta può seguire un abbraccio di gioia o uno consolatorio e le parole scambiate con un amico, un parente o altra persona idonea. È comunemente detto “sfogo”, la necessità, cioè, di esprimere le emozioni profonde, farle sgorgare all’esterno così come l’eruzione di un vulcano porta in superficie i contenuti più profondi della Terra, rinnovandola. Il linguaggio è il grande mediatore tra emozioni e razionalità, ma non si limita al ruolo di intermediario, bensì, come accennato, può modificare il vissuto interiore e il modo di pensare. Quando parliamo con la persona adatta, di un problema che ci angustia, rivisitiamo le nostre paure, le ridimensioniamo, le vediamo sotto uno o più nuovi aspetti, punti di vista che non avevamo considerato presi com’eravamo dal gorgo delle emozioni negative che ci fanno rimuginare in solitudine, perdendo magari ore di sonno e riuscendo solo a peggiorare il nostro stato. È il potere catartico e terapeutico della parola, dell’esternazione e condivisione di sentimenti, emozioni e angosce le cui cariche negative si attenuano diventando gestibili. Lo aveva ben compreso William Shakespeare che, nel Re Lear, dice “Quando nel dolore si hanno compagni che lo condividono, l'animo può superare molte sofferenze”.

* Tratto dal film di Nanni Moretti “Palombella rossa” - 1989.


Quest’anno, come forse mai prima d’ora, l’estate è arrivata con un caldo esagerato già da metà maggio. A Ostuni, città turistica per eccellenza della Puglia, questa precoce condizione climatica più che agostana, non può che essere la benvenuta dai vari operatori del settore, benché dimostri, se ancora ce ne fosse bisogno, che i cambiamenti climatici non sono l’invenzione di qualche burlone, ma un tragico dato di fatto che spesso tendiamo a trascurare. Ebbene, giorni addietro ero alla guida della mia auto per recarmi in stazione e percorrevo via Vitale, strada molto stretta e in discesa, quando un turista (i nordeuropei si riconoscono subito) complice il sole a picco e gli oltre trentacinque gradi, scese dal marciapiede senza guardare. Non successe niente anche perché andavo piano e frenai automaticamente, dunque la cosa si risolse con una breve strombettata di clacson e un suo sorry (almeno così spero abbia detto…).
Plasticità cerebrale
Nel corso di una qualsiasi giornata, ognuno di noi compie delle azioni: lavora, cammina, guida, appunto, e così via. Molti di questi atti quotidiani sono stati ripetuti centinaia di volte, tanto da diventare veri e propri automatismi. Questo non accade proprio con tutto ciò che facciamo e vediamo durante il giorno. Infatti, di solito non ricorderemo i tanti visi estranei incontrati o le strade percorse per la prima volta in una nuova città. Diamo per scontato che questo accumulo di esperienze stia da qualche parte della nostra mente, ma come accade che alcune di esse rimangano ben presenti nel tempo, mentre altre si volatilizzano presto? Il nostro cervello può cambiare la sua forma, in relazione ai dati che gli giungono dall’esterno. Lo intuì per primo Vincenzo Malacarne, un anatomista padovano che, a cavallo tra il ‘700 e l’800, si accorse che il cervello di un animale domestico addestrato a compiere alcune mansioni, presentava più circonvoluzioni cerebrali di un suo simile cui non era stato insegnato nulla. Ai giorni nostri sono stati ormai appurati, da parte di eminenti neuroscienziati, i meccanismi che consentono di apprendere e ricordare ciò che impariamo. Gli stimoli esterni, se prolungati nel tempo, modificano alla lettera la struttura fisica del cervello, la sua morfologia neurale. Per “stimoli” s’intende l’insieme delle sollecitazioni fisiche ed emotive come, per esempio, l’educazione, l’istruzione scolastica, l’apprendimento della lettura e scrittura, l’andare in bicicletta e così via ma anche i rapporti sociali, amicali e sentimentali. Immaginiamo di dover imparare a ogni nuovo giorno, come si guida l’auto: chissà quanti turisti, e non solo, investiremmo! Questa funzione del nostro sistema nervoso che consente di mutare l’assetto cerebrale, è molto attiva durante l’età dello sviluppo ed è anche molto utile per la riabilitazione, in alcune patologie neurologiche.
Il vuoto dell’assenza
Finora abbiamo visto ciò che avviene quando “aggiungiamo” dati, ma cosa succede quando si “leva” qualcosa? La fine di una storia d’amore o, peggio, il decesso di una persona cara, rappresentano due esempi di mancanza/assenza che fa soffrire proprio a causa dell’impossibilità di elaborare immediatamente la perdita. È un po’ come se al nostro cervello venissero a mancare d’un tratto alcuni punti di riferimento essenziali, consuetudini che di colpo non hanno più un componente fondamentale, vuoti che, nell’immediato non sembra possibile riempire con nient’altro. Eppure il nostro cervello reagisce: a fatica, dopo tempi che a volte sembrano biblici e attraverso periodi di grande afflizione, ma riesce a ricreare una nuova rete neurale. Pian piano nuove informazioni ed esperienze, altri incontri, riescono a ricucire le ferite, benché spesso le cicatrici rimangano visibili. È nel nostro Dna la capacità di riprenderci dopo traumi che sconvolgono: senza questa opportunità sarebbe compromessa la stessa esistenza dell’essere umano, che altrimenti vivrebbe in un continuo stato di angoscioso tormento. La plasticità cerebrale è la dimostrazione tangibile di come psiche e fisico siano strettamente interconnessi e non già due entità separate e distinte come molti credono. Se alimentiamo la nostra mente con cose sane, anche il nostro corpo trarrà giovamento.


Riusciranno i nostri eroi…
Osservando qualsiasi centro storico, entrando nel suo interno, ci si accorge di quanta cura e di quanta maestria ci siano volute per erigere chiese, palazzi e anche le semplici case. Un lavoro che è durato secoli, poiché tutto doveva durare nel tempo grazie anche ad accorgimenti che ormai non consideriamo più importanti. Chi ha voluto quelle stupende architetture, autorità politiche e tecnici dell’epoca, ha pensato non solo al plauso dei concittadini, ma soprattutto a chi avrebbe abitato in futuro quei borghi. Si chiama
lungimiranza
ed è la capacità di organizzare il futuro cercando di prevedere le variabili che influiranno sulla realizzazione di un dato progetto. Non ha nulla a che fare con la preveggenza, la magia e corbellerie simili legate a tempi in cui la conoscenza scientifica era pressoché nulla. La lungimiranza prevede un assetto mentale evoluto, nel quale prospettive, competenze e conoscenze approfondite della materia del progetto, sono fondamentali per aumentare le probabilità di un successo futuro. Competenze e conoscenze, vale a dire un bagaglio di esperienze teoriche e pratiche che consentono di impostare una previsione la più possibile corrispondente alla realtà. Un agricoltore che pianta un alberello, sa che dovrà attuare una serie di operazioni affinché da lì a qualche anno, possa raccoglierne i frutti. Così come un medico può formulare una prognosi anche a medio - lungo tempo, sulla base dei sintomi e delle indagini cliniche. Nel primo caso, l’agricoltore ha appreso le pratiche di coltura da altri (di solito familiari) e il suo è un sapere molto legato alla pratica, sempre che non abbia frequentato appositi corsi di studio, cosa che aggiungerebbe un fondamentale supporto alla realizzazione dei suoi progetti futuri. Nell’altro caso, è basilare lo studio senza il quale nessuna pratica può esistere. Esempi a parte, non ci s’improvvisa esperti in nessun settore.
Cortomiranza
Nei giochi dei bambini tutto è possibile e tutto si risolve come l’immaginazione vuole. È la fase del pensiero magico di cui ho già scritto. Dovrebbe pian piano integrarsi (guai se scomparisse del tutto) con la maturità, la consapevolezza, cioè, che interagiamo con la realtà e i fatti che accadono possono essere modificati con altrettante azioni concrete. Spesso, però, accade che questa condizione permanga anche in età adulta. A volte l’immaturità è evidente, altre è camuffata da atteggiamenti di eccessiva sfida, di contrapposizione netta e dalla convinzione di avere ragione in assoluto. Caratteristiche queste, di una personalità tutto sommato infantile in cui il pensiero magico è una delle componenti insieme all’educazione ricevuta e ad altri fattori. Il senso di onnipotenza è un retaggio dell’età infantile in cui si doveva vincere per forza, pena la frustrazione. Tutto questo è l’esatto contrario della lungimiranza ed è tutt’altro che raro imbattersi in comportamenti aggressivi o, comunque, di stupida contrapposizione a tutto e tutti. Lo vediamo nei dibattiti televisivi, in auto quando molti diventano belve per una banale manovra interpretata come oltraggio da lavare - quasi - col sangue, negli ospedali e nelle scuole laddove sono picchiati sanitari e insegnanti solo perché hanno fatto il loro dovere, nei cosiddetti social in cui tantissime persone scaricano le proprie frustrazioni attaccando, maledicendo, insultando chi la pensa in modo diverso. Ne abbiamo avuto un esempio in occasione della pandemia: nugoli di ‘antitutto’ a contestare e mettere in dubbio medici e scienziati (certo, anche loro sbagliano, ma in percentuale è una minima parte rispetto ai benefici ricevuti e l’alternativa sarebbe farsi curare da qualche novello sciamano o dal proprio carrozziere... ). Una sorta di rivincita dell’ignoranza assoluta che, però, ha ‘capito tutto’ e a lui/lei non la si fa! Ecco, questa è proprio ‘cortomiranza’, non vedere, cioè, oltre il proprio, limitato orizzonte, supponendo di sapere “cose che voi umani non potreste immaginarvi”… Il rifiuto di qualsiasi apporto scientifico è classico di chi ha, finalmente(!) uno spazio in cui straparlare. Il peggio di noi, la parte paranoica che molti faticosamente tengono a bada, è esplosa dirompendo in convinzioni farneticanti. Stiamo vivendo in un’epoca in cui la Cultura non ha più lo spazio che le compete, una sorta di imbarbarimento che è stato facilitato anche da governanti, di ogni orientamento politico, che hanno sottratto fondi alla sanità, alla scuola e alla cultura in genere, considerandole non importanti, ahinoi! Mentre scrivo, apprendo che si voterà il 25 settembre per il rinnovo del parlamento. Sarebbe auspicabile preferire chi ha seri piani di risanamento concreto per la scuola e per la sanità e, aggiungerei, anche per il disastrato ambiente, sperando non siano solo abboccamenti da propaganda elettorale di gente che ha già governato e che magari si ripresenta immacolata come avesse attinto a una miracolosa fonte... In fondo i politici che ci hanno amministrato e che ci governeranno da qui a qualche settimana, sono l’espressione, lo specchio dell’attuale società. Non vengono da Marte, né nascono sotto cavoli speciali, dunque dipende anche da noi ciò che sarà. Buon futuro a tutti.


Giunto quest’anno alla sesta edizione, ormai il Festival della Cooperazione Internazionale è diventato un appuntamento qualificato e qualificante per Ostuni e la Puglia in genere. Se l’anno scorso il tema era “L’arte di vivere insieme nel Mediterraneo dopo la pandemia”, l’edizione 2022 si prefigge di approfondire un nuovo, angosciante problema che tutti, direttamente o di riflesso, stiamo vivendo: il conflitto in Ucraina e la guerra in generale. Insomma, un festival sempre sul pezzo, come direbbero i giornalisti, ma sempre mettendo al centro i disabili e gli ultimi. Chiedo allo psichiatra dott. Franco Colizzi, insostituibile e attivissimo organizzatore del festival, quale sarà il tema e come si articolerà l’evento.
- Franco Colizzi:
Il Festival avrà per tema generale, ma non esaustivo, quello delle “Energie mediterranee per fare pace” e come tale è stato presentato e approvato tra i primi in graduatoria, un progetto al bando sul Mediterraneo della Regione Puglia. Se osserviamo bene una cartina del Mediterraneo, notiamo che, anche per l’affaccio sul Mar Nero, che è una propaggine nord-orientale del Mediterraneo, l’invasione dell’Ucraina assegna al Mediterraneo e all’Italia il compito di sprigionare e tenere accese le energie migliori, quelle dei movimenti per la democrazia e i diritti umani, per la pace e per la convivialità tra i popoli. Per questo tenteremo di parlare di pace senza ricorrere al concetto di guerra, rifacendoci all’eredità di pensiero e di azione di due figure significative della terra di Puglia (e non solo), don Tonino Bello e Franco Cassano. Il Festival si svolgerà lungo cinque giornate, dal 26 al 30 ottobre, in sei Brindisi, Francavilla Fontana, Latiano, Lucera, Massafra ed Ostuni. Considerato l’impegno necessario, alcune attività sono iniziate in forma pre-Festival, cioè fuori delle date previste. Ad esempio a Lucera vi sono già due giornate di incontri ed una mostra fotografica a fine settembre, a Brindisi e Latiano vi sarà una mostra fotografica sui migranti del Mediterraneo a metà ottobre. Il 26 e il 27 ottobre vi saranno quattro webinar in diretta facebook e gratuiti, con testimonianze di cooperanti impegnati nei progetti in Marocco, Tunisia, Palestina, Sud Sudan e con approfondimenti tematici sul diritto alla pace. La professoressa Susanna Bernoldi, coordinatrice AIFO in Liguria, porterà in varie città il suo racconto della Palestina, ove collabora con alcune realtà di volontariato da anni. Il tema della disabilità, che per la RIDS, promotrice del Festival, è caratterizzante, sarà sempre presente. In particolare a Francavilla Fontana si svolgerà un convegno sui diritti delle persone con disabilità, ma parleremo anche delle conseguenze della guerra per le persone con disabilità.

- Io:
Per Ostuni, in dettaglio, quali attività sono previste?

- Franco Colizzi:
Oltre ad ospitare alcuni relatori e ad essere il punto di riferimento per i quattro webinar, nella città vi saranno diverse manifestazioni. Nelle scuole aderenti (Il liceo “Pepe-Calamo” e la scuola media “Barnaba-Bosco”) sarà proposto un graphic novel, un romanzo a fumetti che narra la storia della dottoressa Lucille Teasdale, che ha svolto la sua professione in Uganda con suo marito facendo crescere un grande ospedale per tutta la popolazione locale. La sera del 28 ottobre, con l’UNITRE’, vi sarà una serata nell’auditorium della biblioteca con due eventi intrecciati: la presentazione del libro “L’atto atomico della nonviolenza”, con la presenza dell’autrice, la professoressa Gabriella Falcicchio, e lo spettacolo musicale dei “Portatori di gioia” di Ceglie Messapico, un gruppo con persone con disabilità. Sabato mattina 29 ottobre sempre in biblioteca avrà luogo un convegno sulle energie mediterranee, in memoria di don Tonino Bello e di Franco Cassano, con illustri relatori: il vescovo di Ugento, monsignor Vito Angiuli, il professor Francesco Fistetti, il professor Giuseppe Moro, il professor Dino Ancora e il professor Giuseppe Morgese. Avremo, ancora, degli incontri per presentare il volume sulla diplomazia, “I negoziatori”, edito dalla locale casa editrice Calamospecchia e il primo numero della rivista internazionale “Transculturale”, diretto dai professori Alfredo Ancora e Raffaele Tumino.

- Io:
l’anno scorso, in questo periodo, i contagi da Sars-Cov-2 stavano di nuovo preoccupando. A un anno di distanza, la Covid non è sconfitta, ma sembra fare meno paura. In compenso c’è la guerra. Beh, non posso che farti i miei complimenti poiché, nonostante le conseguenti difficoltà organizzative, logistiche e, suppongo, anche finanziarie, il Festival della cooperazione internazionale non solo continua a vivere, ma sembra irrobustito quasi a confermare l’affermazione “ciò che non uccide, fortifica” di nietzschiana memoria. Qual è il segreto?

- Franco Colizzi:
Grazie. La continuità del Festival è dovuta essenzialmente ad una intuizione che si è rivelata giusta, alla passione ideale che ci anima, a tanti relatori a titolo gratuito, all’impegno di diversi volontari e al supporto di alcune istituzioni ed enti. Avverto una crescita, lenta ma visibile, della consapevolezza su tanti temi globali e gli eventi di questi anni chiariscono a tutti, anche a chi non s’intende di geopolitica o di politica internazionale, quanto sia indispensabile lo spirito costruttivo della cooperazione internazionale. Del resto ormai lo Stato italiano ha un Ministero degli esteri e della cooperazione internazionale (MAECI): riconosce cioè che la cooperazione internazionale è una forma, che io ritengo più avanzata e profetica, della politica estera.

- Io:
Dagli appunti che ho avuto modo di leggere, questa sesta edizione continuerà ad approfondire gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda ONU 2030.

- Franco Colizzi:
Pace, giustizia e solide istituzioni costituiscono uno specifico obiettivo dell’Agenda ONU, il numero 16, e dunque il nostro riferimento a tale strumento internazionale è più forte che mai. Per la RIDS, Rete Italiana Disabilità e Sviluppo (AIFO, FISH, DPI, EducAid, OVCI), che insieme a La coda di Ulisse promuove la manifestazione, la virulenza della pulsione di morte che le civiltà albergano al loro interno illumina ancor più, purtroppo tragicamente, il significato profondo della cooperazione internazionale. Del resto, la struttura strategica di base dell’Agenda ONU è più chiaramente esprimibile attraverso cinque P: popolazione (metter fine a povertà e fame, garantire dignità ed uguaglianza a ogni essere umano); pianeta (tutelare le risorse naturali e il clima della Terra per le generazioni future); prosperità (garantire vite prospere e piene in armonia con la Natura); partenariato (implementare l’Agenda attivando una larghissima e solida rete di cooperazione globale); pace (edificare società pacifiche, più giuste ed inclusive). La quinta dimensione, quella della pace, si rivela obiettivo e presupposto delle altre quattro e la esploreremo in vari modi.

- Io:
Alle istituzioni, ai cittadini e ai giovani in particolare, quale invito all’impegno vuol consegnare questo Festival?

- Franco Colizzi:
L’ispirazione del Festival è costituita dallo spirito universalistico, apparentemente visionario, di Raoul Follereau. Oltre all’impegno immenso per la dignità dei malati di lebbra, egli appena dopo la Seconda guerra mondiale avanzava proposte di pace valide ancora oggi: la via del disarmo e quella della riconversione delle spese militari. Rinunciate ad almeno due bombardieri, diceva ai grandi della Terra, destinandone i costi alla cura di milioni di malati di lebbra; e poi, appena finita la guerra, continuate un altro giorno come se foste ancora in guerra e investite le spese di quel giorno in percorsi di pace. Mi piace pensare a Diogene di Sinope, filosofo greco del quarto secolo avanti Cristo, che si dice andasse in giro di giorno con la lanterna accesa per “cercare l’uomo”. Sinope è una cittadina portuale sulla costa settentrionale della Turchia e si affaccia sul Mar Nero. Se Diogene ci vivesse oggi, vedendo i bagliori delle esplosioni a Odessa e Mykolaiv, forse manterrebbe la sua lanterna accesa per “cercare la pace”. Ecco, dovremmo in fondo fare tutti come il bizzarro, ma saggio, Sinope e andare in giro giorno e notte con una lanterna accesa cercando la pace.

Ormai le elezioni del 25 settembre sono passate da qualche giorno e, benché al momento in cui scrivo non si conoscano i risultati, mi rimane nelle orecchie e nel ricordo, l’eco dei toni spesso aspri, le invettive contro quello e quell’altro, la sensazione di odio che alcuni candidati trasmettevano. Ascoltare Franco Colizzi con i suoi toni pacati ma decisi, fermi e convinti, con i ragionamenti che non sono mai contro, ma a favore di… ecco, questo mi fa sperare che qualcosa di buono si può ancora produrre se ci si convince che la strada giusta passa per i ponti, ma si blocca davanti ai muri.


Ognuno di noi ha una dura madre. Menomale direi, visto che stiamo parlando di un tessuto, una delle tre meningi che circondano e proteggono il nostro cervello. Nulla a che vedere con le “madri dure”, quelle persone cioè, che costringono i propri figli a una vita non degna di questo nome, quando addirittura non li privino della vita stessa. Nella Roma degli imperatori e nell’antica Grecia, l’infanticidio era a discrezione del pater familias, che aveva potere di vita e di morte sui propri figli. Soprattutto quando ne nasceva uno con qualche deformazione, il padre decretava l’eliminazione immediata. Ai giorni nostri i casi di figlicidio sono comunque tanti. Dal 2000 circa 22 bambini sono deceduti ogni anno a causa dei genitori. La gran parte delle volte è il padre a commettere l’infanticidio (il 65% circa). Se la notizia di un bambino ucciso provoca sempre profonda costernazione, quando a compiere o comunque a consentire il delitto, è la madre l’orrore è ancora più grande. Essa è, infatti, sinonimo di accudimento, di bontà, di tenere attenzioni, di amore incondizionato e non è facile immaginarla nell’atto di togliere la vita dopo averla partorita. Non mi riferisco alla solita icona melensa della donna “tenerina” e “deboluccia”. Tutt’altro, poiché le donne sono dotate di capacità e potenzialità naturali straordinarie, dovendo provvedere alla nascita della Vita.
Le cause del figlicidio
Alcune condizioni che precedono un figlicidio, possono essere, per esempio, la perdita prematura del marito, la convinzione di non essere una buona madre già dalla gravidanza, la separazione burrascosa dal compagno, la paura che in occasione di un divorzio le si porti via il figlio, fino ai casi di vera e propria psicosi nei quali la madre si sente spiata da qualcuno o qualcosa; è sicura che il figlio sia gravemente malato; che gli sia stato scambiato con un altro bambino subito dopo il parto; “voci” le ordinano di uccidere, e così via. Molti figlicidi avvengono entro i primi mesi di vita dei bambini, quando non si è ancora consolidato a dovere il rapporto tra madre e figlio e molto scarso è ancora quello con il padre. Una delle più importanti ricerche realizzate in questi ambiti, si deve allo psichiatra canadese Philip Resnick, che ha evidenziato cinque tipologie di figlicidio:
- psicotico. L’uccisione avviene in pieno delirio dovuto a una patologia psichica come la schizofrenia o una psicosi post-partum. A volte i disturbi non si erano evidenziati con chiarezza in precedenza oppure alcuni segnali sono stati sottovalutati o scambiati per comportamenti “strambi”;
- altruistico. Avviene quando la madre mette fine alle sofferenze, che siano vere o immaginarie, del proprio bambino;
- accidentale. Sono molti i casi di maltrattamenti, di trascuratezza o di punizioni troppo severe che portano al decesso. Di solito la madre non è intenzionata a uccidere, benché i risultati delle sue azioni siano oggettivamente troppo spinte e crudeli. È un passo oltre la ‘sindrome del bambino maltrattato’, dove già è presente un comportamento aggressivo e sproporzionato in risposta, per esempio, alle grida e ai pianti del bambino;
- per un bambino non voluto. Succede quando la madre non ha mai accettato l’idea di avere un figlio e, nonostante abbia portato a termine la gravidanza e vissuto qualche tempo con il bambino, non è riuscita ad affezionarsi né a creare un minimo legame empatico;
- per vendetta. Quando si colpiscono i figli allo scopo di causare sofferenza al proprio compagno. In questa categoria rientra la ‘sindrome di Medea’, personaggio della mitologia greca che fu abbandonata dal suo amante Giasone per sposare un’altra donna. Per vendicarsi, Medea uccise i figli nati dalla relazione con il capo degli Argonauti, diventando così, simbolo del dolore inferto per ferire il padre, per vendetta, appunto. Un’altra sindrome che può portare al decesso dei propri figli, è quella di ‘Munchausen per procura’ in cui la madre inventa sintomi di malattie di cui il bambino in realtà non soffre, e a somministrargli medicinali e pratiche inutili quanto dannosi. Il piccolo è sottoposto a varie visite specialistiche e accertamenti diagnostici, ma per i medici è difficile sospettare che la causa dei problemi del bambino sia la madre, in quanto questa si presenta premurosa, collaborativa, e affabile. Il coniuge, al contrario, è solitamente remissivo o quasi del tutto assente. L’età media delle madri che compiono un figlicidio si aggira tra i 25 e i 30 anni e nella gran parte dei casi, la loro situazione socioeconomica è disagiata e la scolarità bassa.
In conclusione, le cause sono varie e oscillano dall’assenza di patologie psichiche a psicosi piuttosto gravi. Nella maggior parte dei casi il terreno fertile comune è costituito, ancora una volta, da povertà/ difficoltà economiche e basso livello di istruzione. Se, finalmente, chi di dovere ponesse seria attenzione alle condizioni delle fasce più deboli e povere della società, all’indignazione fine a se stessa si sostituirebbero azioni concrete in grado di limitare al minimo questi e tanti altri crimini. Sperare non costa nulla...


Una delle mie più grandi passioni è la ripresa video. Acquistai la prima telecamera con videoregistratore portatili, se non ricordo male, nel 1980. Erano i primi apparecchi portatili - marca Sony - separati, ingombranti e pesantissimi rispetto ai modelli compatti venuti in seguito, per non parlare degli attuali smartphone. La grande novità era non dover più usare la costosa pellicola, i nastri erano riutilizzabili e i video potevano essere subito visionati nel televisore. Poi, tre anni addietro ho ricevuto un graditissimo regalo: un drone professionale. Mi ci sono immediatamente appassionato, tanto da prendere il brevetto di pilota. Mi sono sempre chiesto cosa vedessero gli uccelli da lassù e ora ho la possibilità di registrare e guardare dal loro stesso punto di vista e anche da molto più sopra. Posso vedere attraverso un radiocomando ciò che il drone riprende e ogni volta che lo mando su, penso al significato che noi diamo al volo: libertà. Volare è sinonimo di spazi sconfinati, assenza di qualsiasi laccio che costringa la nostra autonomia, è metafora di indipendenza e di autodeterminazione. Così, la metafora del volo che libera dai problemi, dalle ansie, dalle frustrazioni, fa parte del nostro vissuto, ma non è realizzabile se non attraverso i mezzi idonei: elicotteri, aerei, ultraleggeri, mongolfiere e così via. Oppure possiamo sognare di volare e in questo caso l’esperienza può essere davvero totale e realistica. Nel sogno, volare può significare staccarsi da problemi che angosciano, da nodi ancora non sciolti che ci legano a una certa sofferenza, ma può anche manifestare semplicemente la voglia/bisogno di maggiore indipendenza, di ampliamento dei nostri limiti. Freud riporta all’infanzia la sensazione del volo quando papà e mamma, ci dondolavano cullandoci e sollevandoci tra le loro braccia. Una sensazione che rimane radicata, come tante altre esperienze infantili, lì, in qualche parte del nostro inconscio.
Guerra e pandemia, volate via...
Purtroppo la pandemia ha prodotto e palesato diversi problemi di carattere psichico e i venti di guerra che soffiano vicini e cupi, sollecitano la precarietà psicologica soprattutto nei giovani. La cappa nera di malattia e di bombe, per molti sembra impossibile da eliminare: incombe minacciosa sul mio presente e sul mio futuro, nuvole nere in un orizzonte indistinto, una maledizione scagliata da dèi maligni. Soltanto tre anni fa, mi sembrava di poter avere tutto: mi sentivo invincibile, onnipotente, intoccabile, perché così sono stato educato e abituato e così ci si sente alla mia età. Ora, invece, mi sento solo di fronte alle mie paure, le mie ossessioni, le mie fobie, la mia depressione. A questo quadro si aggiunge la prospettiva di un ambiente violentato e in continuo peggioramento, e l’incertezza del lavoro. Per inciso, questa pandemia, le guerre, i problemi climatici e la precarietà lavorativa sono causate da noi e ciò aggiunge un altro strato di confusione in tanti, giovani e adulti, che hanno problemi psicologici anche di lieve entità. Sia ben chiaro che il malessere va bloccato il prima possibile per evitare la cronicizzazione, dunque il consiglio è chiedere aiuto ai professionisti del settore. L’esempio è, ancora una volta, uno degli strumenti fondamentali per comunicare e trasmettere valori ai ragazzi i quali, non dimentichiamolo, assorbono e fanno propri i nostri comportamenti, che potrebbero poi diventare causa di conflitto. Allora dovremmo fingere di essere ciò che in realtà non siamo? Assolutamente no, poiché atteggiamenti artefatti non reggerebbero a lungo e sarebbero controproducenti. Modificare realmente alcuni nostri pregiudizi, invece sì. Sarebbe utile riflettere su alcune nostre convinzioni, analizzarle e contestarle comparandole ad alcuni altri punti di vista senza iniziali pregiudizi e, infine, scremarle da inutili e dannose zavorre. E poi, rielaborare la convinzione un po’ stantia che maturità sia sinonimo di anzianità, di seriosità e di comportamenti sempre e comunque omologati e rigidi. Certo, le esperienze sono indispensabili per adeguarci alle diverse circostanze della vita, ma non sottovalutiamo l’enorme potenziale giovanile, che spesso siamo portati a non considerare maturo e consapevole. Tante delle opere più grandi dell’ingegno e dell’arte, sono state e sono realizzate da giovani. Genialità a parte, è amaro costatare che oggi, purtroppo, tanti ragazzi non vengono valorizzati, quando addirittura costretti a cercare lavoro a centinaia di chilometri. Poniamoci, dunque all’ascolto, disponibili a imparare a nostra volta con discrezione, senza preconcetti, attenti a valutare, discutere e accettare i loro punti di vita. Insomma, impariamo a volare insieme ai nostri figli. Serene festività.

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